martedì 1 marzo 2011

Nashville

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Se chiedete a qualcuno con un minimo di cognizione geopolitica degli Stati Uniti - Qual'è la località più famosa del Tennessee? - vi risponderà senza indugi - Memphis, la città di Elvis "the pelvis"! - E' comprensibile, con un mito di tale portata. Ma la capitale dello stato è Nashville, con un altro primato: è considerata la patria della musica country.

Il Tennessee una volta l'anno ospita un festival che dura quasi una settimana dedicato alla musica country. In questo contesto è ambientato il film di Robert Altman che è esso stesso, nella più bella delle caratteristiche dei film del grande regista, un grande concerto a più voci (hanno contato ben 24 main-character!). Di questa caratteristica ne ho parlato in occasione di questo altro capolavoro: America oggi. Anche Nashville è lunghissimo ma tranquilli, vola via! Ho letto che fu frutto di un lavoro di montaggio importante, ricavato da oltre 70 ore di pellicola tutta buona da utilizzare tanto che ipotizzarono di crearne una serie. A differenza di America Oggi però, che è di ben 18 anni più recente, qua le storie non hanno particolari giochi d'intreccio, risultando meno impegnativo ed anche, non di rado, divertente al limite della comicità.
Capolavoro da Olimpo! Esiste solo in versione sottotitolata, non cercatelo doppiato, fortunatamente nessuno se l'è sentita di farlo. M'è parso opportuno chiedere disponibilità a parlarne all'amico "americanista" Mauro - Unwise. Ha scelto la forma intervista, ve la riporto:

robydick:
Tanto per contestualizzare al meglio il film, cominciamo col descrivere la città stessa di Nashville e lo stato che lo ospita, il Tennessee il quale, tanto per citarne una, è ancora tutt'oggi uno dei pochi a prevedere ed applicare la pena di morte (iniezione letale o sedia elettrica). E' uno stato che ha anche fama di "fornitore di soldati". Che luogo era, presumibilmente, nel 1975?

unwise:
Il Tennessee per Altman non è certo una scelta casuale... si tratta di uno stato emblematico, dove moltissimi, se non tutti gli elementi caratteristici americani (nel bene e nel male) si ritrovano. il nome Tennessee, per cominciare, è un lascito dei nativi americani (cherokee probabilmente). È la patria di Davy Crockett, e durante la guerra di secessione (1861-65) recitò un ruolo di prima importanza: non solo fu quello che fornì il maggior numero di soldati, prima e dopo essere uscito dall'unione per abbracciare la confederazione sudista; fu anche teatro di battaglie fra le più sanguinose (come la celeberrima di Shiloh, che molti conosceranno grazie alla serie tv "alla conquista del west"). il soprannome di "volunteer state", ancor oggi campeggiante sulle targhe automobilistiche, risale addirittura alla guerra del 1812 contro l'Inghilterra, ma si è puntualmente giustificato in occasione di ogni confronto bellico statunitense. è uno stato a forte trazione rurale, ben lontano, idealmente, dalle metropoli cosmopolite, e molto radicato sui valori tradizionali (patria, famiglia, bandiera...). qui le tensioni razziali si sono fatte parecchio sentire: dalla fondazione del Ku Klux Klan (iniziativa del generale Nathan Bedford Forrest, come correttamente riportato in Forrest Gump), all'assassinio di Martin Luther King nel 1968 a Memphis. il Tennessee fu anche sede degli impianti di arricchimento dell'uranio per il Manhattan project di Oppenheimer (quello che sviluppò le bombe di Hiroshima e Nagasaki). dall'altro lato, è qui che non solo il country, ma anche il blues, fin dal primo '900, e il rock'n'roll hanno mosso i primi passi (Elvis Presley registrò i primi successi proprio per la Sun Records di Memphis, insieme ad altri pezzi da 90 come Roy Orbison e Johnny Cash). nemmeno il 1975 è un anno qualunque: per dirne una, è l'anno in cui termina il conflitto in Vietnam, l'anno della più completa disillusione. il sogno hippy si era già frantumato qualche anno prima con i morti di Altamont, se n’erano andati Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison, e anche la casa bianca non se la passava bene per il Watergate. ma l'America si stringe (a coorte, diremmo noi) ai suoi valori e alle sue tradizioni, poichè è prossima la ricorrenza delle ricorrenze, il bicentenario della dichiarazione di indipendenza che arriverà l'anno successivo. il Tennessee diventa, come pochi altri stati, un luogo dove ritornare dopo la tempesta, e ritrovare un'America che è ancora quella di prima, con pregi e difetti, ma assolutamente solida (la situazione è perfettamente esemplificata nella canzone in apertura, cantata da Henry Gibson (i più lo ricorderanno a capo dei “nazisti dell’Illinois” in The Blues Brothers), il cui testo fa una specie di elenco di vicissitudini nazionali, naturali e non, e conclude con un patriottico we must be doing something right to last 200 years). ci sono, nel film, due "ritorni" esemplari, ma diversissimi tra loro: quello del reduce dal Vietnam, Glen Kelly (Scott Glenn) che focalizza il suo desiderio di casa nel fanatismo per la cantante Barbara Jean (Ronee Blakley), e quello di Marthe (Shelley Duvall), che era "scappata" in California e si faceva chiamare LA Joan (un omaggio alla Baez, probabilmente), richiamata dallo zio al capezzale della moglie gravemente malata, che invece è il perfetto esempio di rincoglionimento post-hippy. in testa non ha più ideali, ma solo una serie di parrucche, e probabilmente ancora qualche residuo di LSD... forse questi due saranno i nuovi adamo ed eva: reduci dalla disillusione, dalla sconfitta, ma finalmente a casa

robydick:
Il country pare affondare le sue radici nella musica folk-western ma quali sono più precisamente? Io l'ho sempre interpretata come una musica dei bianchi e nel film compare un cantante afroamericano, era una figura reale o di fiction? I testi delle canzoni, perlomeno di quelle che compaiono nel film, hanno una forte connotazione moral-patriottica, con inni agli antichi valori della famiglia, delle tradizioni, l'amore per la patria, l'onore... è solo questo il country o c'è dell'altro?

unwise:
in realtà il country ha origini più antiche. deriva infatti dalla musica celtica delle isole britanniche, arrivata in America con i coloni e contaminatasi poi con altri stili espressivi, diversificandosi stilisticamente ed assumendo a volte tematiche tipicamente americane. se in Scozia e in Irlanda si è un po' cristallizzata, pur mantenendo un discreto successo a livello popolare (se passate per Ballycastle, a nord di Belfast, all'inizio di settembre, ne avrete una viva testimonianza), pur lontana dalle classifiche e dal mainstream (un po' come il "lissio" da noi), negli USA ha, pur senza perdere uno zoccolo duro di tradizionalisti, interessato parecchi generi diversi. se da una parte le canzoni tradizionali di Hank Williams e Johnny Cash continuano ad essere parte del patrimonio repertoriale di ogni country singer, elementi del country hanno toccato le composizioni degli artisti stilisticamente più disparati: dal prog-hard-rock dei Kansas, alla West Coast di Eagles e Doobie Brothers, al blues acido degli Allman Brothers, fino al mainstream di Shania Twain e Miley Cyrus\Hannah Montana (per lei si parla di DNA, visto che è la figlia di Billy Ray Cyrus, cantante country fra i più noti), visto che poi, strutturalmente (un po' come blues e jazz), permette, anzi incoraggia un certo virtuosismo strumentale, arriva anche a far parte integrante del patrimonio tecnico-espressivo di musicisti supertecnici come Steve Morse (e di tutti i suoi Dixie Dregs, autori di un jazz rock funambolico e stilisticamente trasversale). esiste anche il country "alternative", che sembra un po' prender le mosse dal modus operandi di Neil Young, carattterizzato invece da una struttura generalmente più scarna, focalizzata più che altro sui testi "impegnati", senza gran ricchezza di arrangiamenti e ancor meno spazio per virtuosismi vocali o strumentali. forse però la filiazione più solida e fruttuosa è il cosiddetto Southern rock, pane quotidiano per gruppi come Foghat, Molly Hatchet e soprattutto i grandissimi (a mio parere) Lynyrd Skynyrd: in breve, rock "cazzuto", a tratti aspro e a tratti melodico, con un più che discreto impianto strumentale. tematicamente non c'è meno varietà: se parlando del cinema western non si può considerare soltanto John Wayne, parlando di country sarebbe riduttivo mettere tutto sotto il segno del patriottismo-tradizione-famiglia. ci sono le ballatone strappalacrime, ci sono le storie di donne e sbronze, di carcere, di lavoro duro, e anche di droga e violenza (va detto anche che parecchio di quello che viene cantato è autobiografico).
come giustamente suggerisci, il country (e varie filiazioni) ha una connotazione etnica assolutamente "bianca", anzi bisognerebbe dire "redneck" (non è una notazione politica, ma cutanea: è il colore che il pallore anglosassone assume esposto al sole.lavorando nei campi e piegando la schiena, il collo resta esposto agli inclementi fotoni). cionondimeno ha avuto anche rappresentanti afroamericani come Charley Pride, su cui è basato il personaggio di Tommy Brown (tutti o quasi i personaggi canterini del film hanno un corrispettivo nella realtà, abbastanza facilmente riconoscibili per il pubblico americano). anche la star afroamericana forse più nota internazionalmente, Tina Turner, ha inciso musica country. restano comunque casi abbastanza sporadici, un po' come succede, a parti invertite, per l'hip-hop, ma non è un fenomeno che attribuirei per forza al razzismo...


robydick:
I film di Altman come questo fanno pensare sia sull'America che sugli Americani. In questo film ho visto un popolo determinato, ancora sognatore, convinto che tutto sia possibile eppure con forti connotati fatalisti, però sempre un fatalismo dettato dalla certezza che il grande paese offre a tutti almeno una possibilità di emergere. Penso sia indispensabile tenere presente, lo dico ancora, che siamo nel 1975 e che ora l'America post 11 settembre è molto diversa. Che ne pensi te? Come descriveresti in breve lo "spirito americano" di allora e quello di oggi?

unwise:
allora l'America usciva dalla tragedia del Vietnam, chi aveva dai 20 ai 30 anni aveva ogni ragione per non essere troppo ottimista, ma ancora si poteva cercare di tirare una riga sul passato, interno ed esterno, e ricominciare da capo. sicuramente la ricorrenza del bicentenario fu un ottimo fattore ricompattante: si riscoprivano gli antichi valori che avevano ispirato i padri fondatori, e c'era un enorme desiderio di tornare ad essere the land of the free, di mettersi alle spalle un decennio abbondante che aveva visto gli assassini dei Kennedy, la guerra, il Watergate, e non ci si poteva accontentare di essere stati i primi ad arrivare alla luna. era meglio tornare ad essere l'america di Hollywood, del Baseball, financo delle noccioline (anche se non penso sia dovuta a questo l'elezione di Carter nel '77). comincia un periodo di relativa calma e di ricostruzione della coscienza nazionale, e anche di una certa ingenuità tutta americana, che sfocerà, non senza qualche eccesso, nella grandeur reaganiana (da noi drammaticamente imitata nel periodo craxiano...). per fare un esempio cinematografico, diverse grandi opere servirono a guardare in faccia l'oscuro periodo di guerra appena trascorso e, in un certo senso, ad esorcizzarlo. oggi la situazione è senz'altro differente. anzitutto la globalizzazione impedisce a qualunque paese di considerare qualsiasi problema come qualcosa che è possibile risolvere in proprio. l'11 settembre 2001 ha cambiato definitivamente le carte in tavola, soprattutto negli Stati Uniti... non che gli americani siano meno attaccati di prima alla loro nazione, che continua ad essere il principale punto di riferimento, ma ora esiste la spiacevole consapevolezza di non essere al sicuro nemmeno in patria. l'americano, come è sua indole, continua a guardare avanti, ma non può più fare a meno di guardare intorno con la coda dell'occhio. parlandone a livello interno, invece, si può dire che per l'americano medio lo stato è sempre un po' come la mamma, che magari ti tira su a schiaffoni, ma ti tira su, e nondimeno spesso ascolta le tue proposte. anche se non credo che Obama possa o anche voglia, risolvere le cose, la sua elezione resta sintomatica dell'atteggiamento degli americani. lo stato comunque in un certo modo risponde: smascherando le truffe finanziarie degli ultimi anni, e soprattutto condannando i colpevoli senza troppi sconti, si da un esempio. gli USA saranno anche la terra delle opportunità, ma è meglio che queste vengano colte nel rispetto della legge (su questo, il confronto con la nostra realtà non è nemmeno proponibile). poi, naturalmente, nessuno è perfetto, quindi ci sarà sempre chi riesce a farla franca, ma lo spettro di 3 ergastoli in serie può incutere un certo timore...


robydick:
Per concludere, qualche considerazione sul film. M'ha incuriosito la figura di Geraldine Chaplin, che fa una bizzarra giornalista della BBC. Vista la forte vena comico-ironica del film, che rapporto vuole rappresentare, forse l'incomprensione che avevano gli inglesi dell'America stessa? C'era anche in corso una sana competizione fra i 2 paesi, leader mondiali nella musica. Sempre riguardo alla vena comico-ironica, come interpretare il tormentone del furgone di propaganda elettorale col megafono e la caccia ai testimonial sempre per le elezioni? Curiosa, e per i tempi inconcepibile da noi, la sponsorizzazione privata di un evento del festival, col nome dell'azienda ripetuto a più riprese e presente sul palco con manifesti pubblicitari. Qual è il tuo parere? Visti così sembra tutto una caricatura, però a me Altman m'è parso voler sorridere ma anche guardare con rispetto i suoi connazionali.

unwise:
Opal è una specie di "portatrice sana di stereotipi", ed esemplifica un atteggiamento tipico fra giornalisti ed opinionisti da questa parte dell'oceano. essendo inglese, poi, ha ancor di più quell'atteggiamento da esploratore dell'africa nera, messo di fronte alla classica tribu primitiva, di cui ha solo sentito parlare, ma non ha un'esperienza diretta. è lei per prima a tirare in ballo l'argomento razziale (quando intervista il cantante di colore), che peraltro viene minimizzato dagli stessi interessati. è lei a paragonare il coro gospel a una tribu africana danzante, e ad inorridire di fronte all'handicap auditivo dei figli della cantante che intervista (la quale non sembra affatto farne una tragedia. in pratica pensava, nella migliore delle ipotesi, di trovarsi di fronte un'accolita di bifolchi retrogradi, e invece è lei a fare la figura della insulsa dama dell'800. credo che Altman, pur non proponendo una visione idilliaca degli States, voglia soprattutto cercare di fa uscire l'opinione degli spettatori non americani dall'ombra del preconcetto e dello stereotipo (e in questo mi trova assolutamente d'accordo...). La stessa musica country, che qui funge da elemento unificatore, è forse l'espressione musicale americana più bistrattata dagli stereotipi "esteri".
Il furgone è un espediente narrativo di Altman, che unisce con una specie di filo tutte le vicende dei protagonisti, senza influenzarle, ma semplicemente passando nelle loro vicinanze. è senza dubbio un elemento sarcastico, a partire dal nome del partito che propaganda ("replacement party" è un gioco di parole che combina replacement part - pezzo di ricambio - e party - partito politico). si sente una voce ma non si vede chi parla (direi una velata critica ai politici, la cui vera faccia non si vede molto facilmente...). al contempo chi parla non sa a chi sta parlando, continua solo a proporre una serie di fantasiose, e un po' farneticanti, critiche allo stato e alle sue istituzioni, inno nazionale compreso. a fare da contraltare al furgone parlante c'è la figura del motociclista (anzi triciclista) "muto", interpretato dal grande Jeff Goldblum. questi si fa vedere da tutti, dispensa sorrisi e giochi di prestigio, e poi sparisce a bordo del suo mezzo. sono un po' yin e yang, ragione e sentimento, spirito e materia (quest'ultima interpretazione mi viene in mente pensando alla scena dell'ingorgo, nel quale il furgoncino si ferma con tutte le altre auto, mentre il buon Jeff oltrepassa l'ostacolo passeggiando sopra l'incidente (trovando, un po' magicamente, la sua moto triciclica al di là del mucchio di lamiere incastrate...). Altman ha usato due elementi contrastanti come trait d'union almeno un'altra volta, a memoria mia (in Shortcuts - in italiano rititolato sinistramente "America oggi").
nella terra della libera iniziativa privata lo sponsor è assolutamente un must. è una presenza che a volte può sembrare un po' ingombrante, ma permette a chi organizza eventi della portata del Grand Ole Opry (il festival country centrale nel film) di non lesinare, soprattutto per quanto riguarda la logistica, che è il vero elemento distintivo del mondo musicale americano. oltretutto permette di non caricare il cachet degli artisti, spesso molto alti, solo sugli spettatori (meglio dire "permetteva", visto che i prezzi dei biglietti sono aumentati non poco ultimamente, a livello globale). la frase brought to you by...(vi è offerto da...) è ormai entrata da tempo nel frasario quotidiano, tanto che persino le puntate del muppet show usano questa formula per far imparare le lettere dell'alfabeto ai giovanissimi spettatori (brought to you by the letter...ABC etc). mi pare però che Altman distingua lo sponsor commerciale, che si propone anche simpaticamente al pubblico (diventando parte dello spettacolo, in un certo senso, o comunque adattandosi a questa forma), con un classico gioco di parole in rima, da quello politico, presente invece senza simpatiche battute, ma con un ingombrante ed invadente striscione, che sovrasta e schiaccia il palco su cui si esibiscono gli artisti. nondimeno il manager-marito della cantante Barbara Jean, star dell'evento, si incazza come una vipera per questo, e minaccia anche fisicamente il responsabile. se ho interpretato bene, la pensa come me sull'ingerenza della politica nell'arte, e soprattutto nella musica. peraltro in USA anche le campagne elettorali sono pagate privatamente... da noi c'è sempre stato un atteggiamento contrario all'iniziativa privata in questo senso (mi ricordo i cronisti della rai che criticavano ogni 2x3 l'organizzazione delle olimpiadi di Atlanta, totalmente pagata dagli sponsor), anche perchè da noi è la politica che la fa da padrona: è più facile disporre a piacimento del denaro pubblico, che cercarsi uno sponsor che poi, giustamente, vuole un riscontro (e che, diversamente dalla greppia delle casse statali, se ne andrebbe se i risultati non fossero soddisfacenti), e quindi via con un tourbillon di feste di questo e di quello, contributi al film "di interesse culturale" di turno, alla faccia del contribuente. a mio modesto parere, meglio gli striscioni della coca cola...
sono d'accordo con te, anche secondo me Altman ha un grande rispetto nei confronti dei suoi compatrioti: li vede con tutti i limiti, loro e del sistema in cui sono inseriti, ma non fa a meno di apprezzarne le doti. sembra capirne bene le qualità e le debolezze, con un occhio sicuramente benevolo verso l'ingenuità che è sempre una loro caratteristica evidente. nel suo Nashville c'è un'umanità parecchio varia sotto tutti i punti di vista, ben esemplificato nelle attitudini artistiche dei protagonisti: c'è chi è un'istituzione e fiero di esserlo (Haven Hamilton - Henry Gibson), chi è arrivato al successo ma fa fatica a gestirlo (Barbara Jean - Ronee Blakey), chi non ha talento ma ottusamente persevera (Sueleen Gay - Gwen Welles), chi ne ha e pare quasi fregarsene (Tom Frank - Keith Carradine), chi ha un carattere abbastanza forte da andare oltre problemi non di poco conto (Linnea Reese - Lily Tomlin). Altman non pare pendere dalla parte di nessuno, come se ci volesse dire "take your pick" (scegliete voi), qui c'è tutto e il contrario di tutto (che è sempre meglio che avere una scelta sola, e magari arrivare a pensare che sia la cosa giusta), it's a free country!

L'avevo detto o no che Unwise è un grande, americanista e non solo? Ha scritto una "rece a risposte" veramente eccezionale! Siamo già d'accordo che faremo altre rece insieme, sempre e rigorosamente film sull'America. Ne sono molto contento.


31 commenti:

  1. Un film stupendo, il padre del film corale americano.
    Una delle più grandi epopee narrate da Altman, un vero Maestro dell'approfondimento dei caratteri.
    Ottima scelta ed ottimo pezzo, Roby e Unwise!

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  2. un vero masterpiece. attendo ancora il contraltare italiano sul festival di Sanremo, se solo ci fosse qualche regista con le palle che sapesse mettere in scena le miserie della manifestazione canora, che poi sono quelle del paese do' sole.
    ottima l'intervista.

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  3. ah, i'm Easy era la classica canzone rifatta da tutti quei ragazzini brufolosi che sapevano strimpellare la chitarra, ed era la loro unica occasione per cercare di inzuppare il biscottino. ahahah

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  4. harmo, hai una fantasia ad immaginare un film su sanremo, ahah!
    effettivamente I'm easy si presta molto bene ad abbattere gli ultimi freni vagino-inibitori :P

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  5. Avete scritto un pezzo da mettere negli Annali! Mi permetto solo due sottolineature, da profano. Ho sempre pensato che alla base del country (mi piace quello tipo Hank Williams) ci fossero influenze scozzesi: qui ne ho trovato conferma. E Keith Carradine (figlio e fratello d'arte) ha fatto tanti gran bei film: peccato che nel mio ricordo siano passati tanti troppi anni dall'ultimo suo.

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  6. grazie Adriano. è vero, non penso ci siano molte rece paragonabili a questa su Nashville, meritissimo di unwise ovviamente, io ho fatto solo da "provocatore" ;-)

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  7. Grande Film, splendido commento. Complimenti sentiti ad entrambi gli autori !!!
    Giusto l'accostamento all'altro grande Film, quell'"America oggi" che rilanciò Altman e impreziosì la carriera di Lemmon con un'altra gemma.
    P.S. da un Film così era giusto aspettarsi una colonna sonora all'alteza, e invece...
    ...sorvolando sulla pochezza del pezzo citato, direi che è stata davvero un'occasione sprecata.

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  8. eh magar, che cuore di pietra che hai dai, come fa a non piacerti quel pezzo così dolce e romantico? ahahahah! :DDD

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  9. Film fantastico, recensione impeccabile e appassionata. Mi hai fatto venire gran voglia di rivederlo.

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  10. io lo vidi quando non ero ancora acculturato e cinefilo e non mi piacque. Forse ora mi farebbe un effetto diverso. In ogni caso non è un film per tutti credo.

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  11. che dire...grazie a tutti, e soprattutto al mitico Roby per la fiducia accordatami...:)

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  12. è anche molto divertente Alberto, ne vale proprio la pena. stesso messaggio per Perso, forse visto in "tenera età" perde qualcosa, anche in termini di humor.

    unwise, hai ripagato la fiducia alla grande!!!

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  13. alla fine lo hai fatto..anzi,lo avete fatto..molto bravi..fim da olimpo,uno dei migiori affreschi degli stati uniti che abbia mai visto..

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  14. eh brazzz, avevo l'inutile pregiudizio sulla musica country. superato quello, me lo sono stragoduto!

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  15. Visto tanti anni fa, ma adesso mi è venuta voglia di rivedermelo.

    Ma soprattutto complimentissimi, ragazzi: ancora 6-7 pezzi così, non di più, e avrete in mano un libro da pubblicare... :D

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  16. ahah! buona idea Zio, adesso provo a sentire la kaos che ne pensa... ;-)
    psssttt... nicola, hai una mail su "alice"

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  17. oooh milena, sai che se non commenti mi preoccupo eh!
    sei il mio piccolo principe, ed io una volpina piccina piccina :P

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  18. grande film, Altman è uno dei registi più influenti per la nuova generazione dei registi americani degli anni novanta ...

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  19. ..C'è purtroppo poco ancora da poter aggiungere, per chiunque, su un capolavoro di questa portata, e di questa importanza, per gli anni'70 del migliore cinema della "nostra" vita. Il miglior film di Altman. Insieme a "California Poker"(California Split)('74), "Gang"(Thieves Like Us)('73), "Anche gli uccelli uccidono"(Brewstew McCloud)('71), eh però me ne vengono già in mente ancora tanti altri. Cineasta troppo immenso e persino prolifico, Altman, tra i massimi autori americani almeno nei '60-'70. Ha prodotto e coniato,i topòi stessi di uno stile, polifonico ed espanso dai suoni ai sentimenti e alle emozioni, dei suoi personaggi certo, ma anche le nostre cristo, come ha saputo sempre coglierle bene,stile che è,inconfondibilmente il suo.
    Per tutti gli altri, -"Don't worry, it's too late. Take it easy. I'm Easy."-

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  20. Splendida la rece di Unwise, comunque, l'ho già riletta due volte.

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  21. Altman ha sempre anche ben rappresentato un mondo di solitudini infernali e immeritate, tema proprio e congeniale delle grandi distanze e escludenti "modernità" americane foriere di solitudini parallele che come di morotea memoria, sono destinate a correre parallelamente senza mai incontrarsi,immancabilmente per una vita intera, lo stesso personaggio di Keith Carradine e quello di Lori Singer la violoncellista suicida di "Short Cuts"(America oggi)('93), visto che si fa sempre il parallelismo tra queste due opere altmaniane massimamente corali e panteistiche, sono comunque personaggi che sono destinati a rimanere esclusi dagli altri, anche sotto la patina di successi comunque effimeri e destinati al fallimento. E in questo Altman è sempre stato molto bravo, anche nei suoi film come il grande capolavoro sui "Gambler", "California Poker"('74)con i magistrali Elliott Gould e George Segal,dove il tono generale pareva di partenza più "pretty", ha sempre avuto l'occhio umano e di riguardo ai perdenti e agli esclusi, "I Compari"(McCabe and Miss's Miller)('71) è un'altro capolavoro in questo,unito a un potente racconto drammatico sulla disumanità rapace del capitalismo americano. Ecco, l'opera di Altman nel suo insieme, ed è un "corpus" veramente "magnum", è anche questo, un grande amore oltre che simpatia d'autore per i suoi "disadattati" come i meravigliosi Shelley Duvall e Keith Carradine di "Gang". Personaggi per cui nessuno riesce mai a fare nè a prestare un vero e consapevole aiuto in tempo, prima della loro inevitabile e già prevista "autodistruzione"; e anche laddove come detto il tono generale pare più "pink", senza contare i suoi titoli veramente cupi, come il capolavoro "Il Lungo addio"(The Long Goodbye)('73),l'amarezza di fondo è sempre tanta, persino ambientata fra gli astronauti,topòi della solitudine persino astrale certo, ma mai prima di allora addirittura dei "losers", carichi come sono di fallimenti personali e frustrazioni emotive, affettive, professionali,in quel suo magnifico e più misconosciuto film di fantascienza realizzato su commissione per la Warner-Seven Arts nel 1968, "Conto alla rovescia"(Countdown)('68)con James Caan e Robert Duvall.

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  22. "Quintet"('79)con Paul Newman, Bibi Andersson, e Vittorio Gassman, per la seconda volta con Altman dopo lo splendido "Un Matrimonio"(A Marriage)('78)dell'anno precedente (e c'era pure Gigi Proietti), è il film altmaniano paradigmatico di questo che cercavo di esprimere sopra, attraverso un singolarissimo e unico film rientrante solo parietalmente nella fantascienza.

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  23. va be' Napoleone, ho capito... me li devo vedere tutti quelli di Altman. non finirò mai di vedere film, è una condanna a vita :(

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  24. Bèh, non è male come condanna dai, c'è ben di peggio, pensa a supremo primigenio esempio solamente a chi è anni, che non chiava.

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  25. ahah! scelgo i film, sicuramente :D
    tu invece sei condannato a commentare il film di oggi eh...

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  26. Non chiavando, sublimre recensendo. Oggi, domani.Mai la prima cosa, sempre la seconda.It's a stinky stinky life.

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  27. caro Napoleone, da qualche tempo non ho più "prime cose". ho "alcune cose" e basta... e come dice Keoma, "il mondo è marcio", bisogna farsene una ragione con un po' d'ottimismo ;-)

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