mercoledì 30 novembre 2011

Lo Strano Vizio della Signora Wardh (aka: The Strange Vice of Mrs.Wardh)

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E' un bel film questo "The Strange Vice of Mrs. Wardh". Non un capolavoro e nemmeno, per chi scrive sia chiaro, il miglior film di Martino. Ma funziona. O meglio, riesco ancora a vederlo con grande piacere. Paga probabilmente il fatto di essere stato il prototipo delle filiera di thrilling settanteschi di grande successo (uscì il 15 gennaio 1971) diretti da Martino a inizio decennio, per cui si ha come una sensazione di "già visto" nel riguardarlo, ma sono questioni di lana caprina. Basterebbero le sequenze oniriche con protagonisti la Fenech ed il grande Ivan Rassimov ad assicurare alla pellicola una nicchia nell'empireo del bis nazionale.

Sceneggiatura del fido Ernesto Gastaldi e la solita, impeccabile, elegante regia di Martino, che apprezzo molto, da sempre, anzi, pregio in modo particolare i suoi poliziotteschi, in primis "Milano Trema: La Polizia Vuole Giustizia" (1973) con Luc Merenda/Caneparo, un capolavoro, nonchè "La Città Gioca d'Azzardo" (1975) e "La Polizia Accusa: Il Servizio Segreto Uccide" (1975) sempre con Luc e con un insolito e fumoso Tomas Milian, per non parlare del tardo-western "Mannaja" (1977) con Maurizio Merli.

Grande cura registica riscontrabile pure in questo "Mrs. Wardh", con una splendida (ma che ve lo dico a fare) Edwige Fenech persa in una spirale di paranoia, ricatti, violenze e sesso, con le belle facce di George Hilton e di Ivan Rassimov a riempire i fotogrammi della pellicola. Che risulta più efficace quando gioca la carta della sexploitation con picchi di violenza e sadismo, specialmente nelle sequenze in cui la Fenech rimembra il morboso rapporto che la legava a Jean (Rassimov), suo ex-amante e torturatore, rispetto all'impianto thrilling che sembra scricchiolare un poco. Ripeto, questione di gusti, come al solito, ma preferisco il successivo "Il Tuo Vizio è una Stanza Chiusa e solo Io ne ho la Chiave" (1972, titolo "telefonato" da uno dei biglietti recapitati alla Fenech) anche se poi, stringi stringi, giochiamo sempre nello stesso campo, campo che comunque Martino conosceva e gestiva da par suo, sempre giocando con violenza esibita e nudi strategici della Fenech, che ancora fanno tremare i polsi dell'appassionato, sia sotto la canonica doccia (materiale osceno deputato ad un'altra branca del bis) sia sotto le cure di Rassimov o di Hilton (gran piacione del nostro cinema, che ho recentemente apprezzato durante l'ennesima visione di "Testa t'ammazzo, Croce... sei morto... Mi chiamano Alleluja", 1971 di Giuliano Carmineo).

Gli amanti del giallo italico anni settanta, apprezzeranno senza meno, questione di atmosfere, locations, costumi e inquadrature che costituiscono l'impalcatura dei thrilling martiniani, abbiamo lasciato fuori "La Coda dello Scorpione" (1971), "Tutti i Colori del Buio" (1972) e "I Corpi Presentano Tracce di violenza carnale" (1973), si, proprio il famigerato "Torso", conosciuti e apprezzati anche e maggiormente all'estero, in particolare "Lo Strano Vizio..." molto amato da Quentin Tarantino che ha utilizzato un brano della colonna sonora orchestrata da Nora Orlandi, Dies Irae, in alcune sequenze di "Kill Bill Vol.2", per poi riuscire a convincere la Fenech a ritornare in un cameo (brevissimo) in "Hostel 2" del compagno di merende Eli Roth. Come dargli torto, Edwige è ancora oggi visione ottundente, abbacinante, capace di dare quadratura ad un progetto anche solo con un primo piano o con qualche centimetro di pelle mostrata alla cinepresa, vedi nel film in questione, la bellissima scena in cui fugge da Rassimov nel bosco, sotto la pioggia, con la cinepresa sadica di Martino che sembra promettere la visione di quel corpo glorioso, bagnato e percosso, per poi mostrare giusto un capezzolo che sfugge dalla giacca. Magnifico.

Consigliatissimo. E poi, Ivan Rassimov, Ivan Rassimov, Ivan Rassimov, meglio ripeterlo tre volte, mai abbastanza citato e ricordato, il vecchio Cjamango (fratello di Rada) nonchè protagonista de "Si può essere più bastardi dell'Ispettore Cliff?" (1973) di Massimo Dallamano, tra le altre, tantissime cose. 7 maggio 1938 - 14 marzo 2003. Ci sono pure Alberto De Mendoza, Bruno Corazzari e Cristina "Conchita" Airoldi.

Buona visione.

Belushi

martedì 29 novembre 2011

One flew over the Cuckoo's nest - Qualcuno volò sul nido del cuculo

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Ve lo presento, ammesso che al mondo ci sia qualcuno che non conosce questo film, con l'inizio della pagina wiki:
"Ha segnato la storia del cinema nella trattazione innovativa di un argomento molto delicato come il disagio relativo agli ospedali psichiatrici, denunciando in maniera drammatica il trattamento inumano cui sono sottoposti i pazienti ospitati nelle strutture ospedaliere statali, verso cui vige un atteggiamento discriminatorio alimentato dalla paura dell'aggressività dell'alienato mentale.
E' tratto dal romanzo omonimo di Ken Kesey, pubblicato nel 1962 e tradotto in italiano nel 1976 da Rizzoli Editore. L'autore scrisse il libro in seguito alla propria esperienza da volontario all'interno del Veterans Administration Hospital di Palo Alto, in California.
E' uno dei pochi film nella storia del cinema (insieme a "Accadde una notte" di Frank Capra e "Il silenzio degli innocenti" di Jonathan Demme) ad aver vinto tutti e cinque gli Oscar principali (miglior film, miglior regista, miglior attore, miglior attrice, migliore sceneggiatura non originale).

Trama in formato indegno:
Randle Patrick McMurphy (Jack Nicholson) dovrebbe stare in prigione, ai lavori, ma in qualche modo riesce ad ottenere un internamento in manicomio. Ha una personalità vulcanica. Presto comprenderà che i "matti", quelli almeno con cui lui viene aggregato, non sono poi così matti, potrebbero fare molto di più che star lì internati a condurre vite ripetitive, a prendere farmaci, a fare noiose ed inutili sedute di gruppo. Lo scontro con Mildred Ratched (Louise Fletcher), l'arcigna infermiera responsabile del reparto, sarà inevitabile, e partirà con piccole schermaglie, per poi procurare al povero Randle prima un trattamento con elettroshock e poi... basta qua, ve l'ho detto, trama indegna, ma per chi ha visto il film è inutile procedere oltre, chi no invece se lo deve godere.

Godimento che non risparmia un solo secondo delle oltre 2 ore di film, qua siamo veramente nell'Olimpo degli Olimpi. Dalla prima all'ultima scena ci si dovrebbe fermare un attimo, vuoi per godere delle grandiose immagini, altre per la splendida colonna sonora composta da Jack Nitzsche, o per le "facce" espressive di Randle, ancora, per le battute e i dialoghi che sono dei distillati di significato mai difficile da comprendere, sempre diretti, chiari. Formidabile miscellanea di qualità filmiche, contenuti pregni ed espressi in modo assolutamente comprensibile e popolare, recitazioni leggendarie, in particolare sicuramente quelle di Jack Nicholson e di Louise Fletcher (oscar "per acclamazione" ad entrambi, e pensare che non furono nemmeno le prime scelte per le parti), ma anche quelle dei "picchiatelli" (così li chiamava Randle) sono da celebrare. Credo di averlo rivisto oggi per la decima volta e non mi stancherò mai di vederlo.

Film che nasce da un libro e un altro libro ci vorrebbe per spiegarlo pezzo a pezzo. Le altre volte che l'ho visto mi sono sempre, e comprensibilmente, fatto trasportare dalla vicenda e dalle interpretazioni dei due protagonisti, oltre che dalla figura di Bromden (Will Sampson), il "Grande Capo", l'indiano ciclopico, grande amico di Randle. Non mi posso biasimare per questo, ma stavolta mi concentro "solo" su 2 aspetti che voglio sottolineare.

Il primo è una contestualizzazione storica del film, perlomeno dalle nostre parti. E' del 1975. All'epoca in Italia c'erano i manicomi, ed erano molto simili a quello descritto nel film, nel migliore dei casi però. L'Ospedale Psichiatrico di Stato (State Mental Hospital) di Salem (Oregon) dove è stato girato il film era un resort a confronto dei nostri. Musica diffusa, campo di basket, aree ricreative, cose che nei nostri manicomi non erano consuete. Parlo a ragion veduta, miei parenti hanno a lungo lavorato nel manicomio che serviva la provincia di Salerno, il "Vittorio Emanuele II" di Nocera Inferiore (SA), poi diventato più semplicemente ospedale psichiatrico. Ero piccolo quando li sentivo raccontare aneddoti, episodi, o descrivere i reparti dove lavoravano e no, proprio non somigliava nemmeno alla lontana al set del film... Il manicomio cessò d'esistere (formalmente, richiese qualche anno l'attuazione completa) con l'entrata in vigore della famosa Legge 180 o "Legge Basaglia", della quale il grande psichiatra e neurologo italiano Franco Basaglia fu illuminato ispiratore.
La Legge 180 è del 1978. Il film uscì 3 anni prima. Il libro invece è del 1962 ma in Italia uscì sull'onda del grandioso successo del film, nel 1976, quindi ancora 2 anni prima della legge. Quale esperienza sconvolgente fu la visione di "Qualcuno volò sul nido del cuculo" qui da noi, o la lettura del libro? Io ero piccolo, e ne sentivo parlare del film, figurarsi. Fu una spinta quest'opera, sia film che libro, all'avvento della legge che abolì i manicomi? Ipotesi affascinante che non mi sento di escludere. Non mi risulta venne mai nominato in alcun dibattimento per la promulgazione, ma una cosa è sicura: questo film colpì il mondo della "psichiatria tradizionale" come un meteorite preistorico la terra, e spazzò via i brontosauri come i t-rex della scienza in questione senza troppi giri di parole. Potenti inibitori, elettroshock, lobotomie, sono ora dei tristi ricordi. Ritengo sia importantissimo capire il valore di un film che ha denunciato qualcosa con grande forza essendo coevo alla situazione e non a posteriori. E' più facile farlo a distanza di molti anni, quando l'opinione pubblica s'è evoluta. Se venisse fatto oggi, "Qualcuno volò sul nido del cuculo" resterebbe un grande film ma non avrebbe lo stesso valore, e poi... dove lo vai a trovare un Randle Patrick McMurphy come Jack Nicholson? Impossibile pensare a un remake di un film del genere, impossibile fare più di quanto s'è fatto.

Il secondo aspetto è la scrupolosa attenzione ad ogni singolo "picchiatello" che questo film, in primis il regista, ha riservato. Non c'è trucco né inganno, solo studio e qualche spettinatura ad arte, per il resto è recitazione, vera, di persone che hanno messo se stesse al servizio del film, veramente difficilissime. Tra di loro, ancora giovani, ci sono Brad Dourif, Christopher Lloyd, Denny DeVito. Non c'è alcunché di caricaturale in loro, s'è ottenuto un grande realismo curando gesti, espressioni, manie ripetitive, tic, visitando e frequentando luoghi e persone da rappresentare. E' questa Impronta Morale che ci rimane potente alla fine. Chiaro che Randle e Bromden, con quel che poi accadrà nel finale, saranno le immagini più persistenti nella nostra memoria ma, inconsciamente forse, assimiliamo la tollerabilità dei picchiatelli grazie al fatto che tutti, uno ad uno, verranno mostrati, valorizzati, descritti. Di ognuno di loro percepiremo un'evoluzione che la scheggia impazzita Randle ha provocato. Nessuno guarirà, sia chiaro, semplicemente acquisirà una consapevolezza diversa della propria malattia e di sé. Memorabili i momenti in cui, mantenendo le stesse gestualità e modi di esprimersi, alcuni di loro faranno valere propri diritti, cercheranno di "replicare" alla dispotica situazione che subiscono. Pochissimi i film così precisi nei personaggi secondari, che quindi secondari cessano d'essere e anzi, in ultima analisi, e anche per le considerazioni fatte prima sulla Legge 180, sono i "veri protagonisti" del film.

Altri trivia assortiti, sempre grazie a wiki:
  • Kirk Douglas aveva inizialmente destinato a se stesso il ruolo del personaggio protagonista fin da quando acquistò i diritti per la produzione del film. Suo figlio Michael, dopo che il padre gli ebbe ceduto la produzione, decise che Kirk era troppo vecchio per quella parte. Il ruolo di McMurphy venne inizialmente offerto a James Caan, che rifiutò. Si pensò anche a Marlon Brando e a Gene Hackman, prima di assegnare definitivamente la parte a Jack Nicholson.
  • Il ruolo della protagonista femminile venne rifiutato da cinque attrici (Anne Bancroft, Colleen Dewhurst, Geraldine Page, Ellen Burstyn e Angela Lansbury) finché Louise Fletcher l'accettò appena una settimana prima dell'inizio delle riprese.
  • Ellen Burstyn rifiutò il ruolo poiché all'epoca doveva prendersi cura del marito malato mentalmente. Il ruolo, cucito per la Burstyn, ha portato gli inesperti a confondersi con le due attrici (Fletcher e Burstyn) tanto da elogiare in prima persona Ellen Burstyn per una parte appunto non interpretata. La stessa Fletcher dichiarò che fece del suo meglio in uno dei ruoli di Ellen Burstyn, tuttavia la Fletcher riuscì magnificamente nella prova recitativa.
  • La pellicola ha continuato a vincere un totale di ventotto premi.
  • Attualmente, la pellicola è considerata come uno dei migliori film americani ed è al 33º posto sulla lista dell'American Film Institute; l'infermiera Ratched è al 5º posto sulla lista dei 50 grandi cattivi e il film si pone al 8º posto nell'Internet Movie Database.
  • Dal 1975 al 1987, per dodici anni, la pellicola è stata proiettata nei cinematografi svedesi, ottenendo un ulteriore record.
  • Malgrado il film sia per la maggior parte svolto nel dormitorio/soggiorno di un reparto psichiatrico, vengono dibattuti temi universali e fondamentali della vita, come la contestazione, i diritti dell'individuo, la violenza sessuale sui minori, i Nativi Americani, le intolleranze etnico culturali, la letteratura americana, il disagio psichico, la follia, l'handicap e la malattia mentale in rapporto con la società.
  • La gita di pesca nella Baia Depoe (Oregon), è stata aggiunta alla fine e inserita a metà, forse per interrompere la ripetitività della descrizione delle sedute di psicoterapia di gruppo...
  • Molti critici hanno visto nel romanzo da cui è stato tratto il film una metafora della vita che anticipa il 1968, l'anno della contestazione giovanile. Il Signor McMurphy e la Signora Ratched sarebbero le due facce della stessa medaglia, come McMurphy rappresenta lo scontro violento contro l'autorità, così Ratched rappresenta quell'autorità al potere che non si può scalzare.
Letto che roba? I "grassetti" ai trivia li ho messi a mio gusto...
E' un film drammatico, molto. Con quella musica che l'accompagna difficile contenere i magoni e in quel finale vorresti gridare tra il proditorio e il liberatorio!, ma strappa ben più di un sorriso ed anche alcune risate. La partita di basket, la "fuga" col pulmann e la successiva battuta di pesca in mare, la festa nel finale con tutti ubriachi, per fare qualche esempio. Altro punto a favore, dimostrazione di capacità e intelligenza, per cui ho messo anche il tag "commedia", lo considero una forma di riconoscenza.

Buona visione, e ri-visione, e ri-visione, e... cerchiamo anche noi, nelle nostre vite personali, di sputare da qualche parte le "pillole" che ci fanno ingoiare senza che ce ne accorgiamo.
Robydick

lunedì 28 novembre 2011

L'angelo di Alfredo

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Lo scorso mese ho fatto un promo di questo film. Presentato al Festival di Roma, è in attesa di commercializzazione. Trascorsi i "tempi tecnici" necessari, il regista Fabio Marra mi ha messo in condizione di poterlo ammirare, quindi anzitutto lo ringrazio per la cosa. E' tra i miei Cult per i contenuti straordinari, una delle più belle storie, anche se drammatica, del nostro paese. Narra la vicenda di un italiano di cui andare estremamente orgogliosi: Angelo Licheri.

Non sto ancora a ripetere quanto scritto nel promo. Leggetevelo lì, è interessante ed è tutto materiale preso dall'ottimo sito ufficiale. Riporto solo le mie personali impressioni.

Io avevo 15 anni all'epoca, ricordo la vicenda come fosse ieri:
"Alfredo Rampi, detto Alfredino (Roma, 11 aprile 1975 – Vermicino, 13 giugno 1981), fu la vittima di un fatto di cronaca dei primi anni ottanta: intorno alle 19 di mercoledì 10 giugno 1981, cadde in un pozzo artesiano in via Sant'Ireneo, in località Selvotta, una piccola frazione di campagna vicino a Frascati, situata lungo la via di Vermicino, che collega Roma sud a Frascati nord. Dopo quasi tre giorni di tentativi falliti di salvataggio, Alfredino morì dentro il pozzo, a 60 metri sotto la superficie.
La sua vicenda fu seguita in diretta dalle telecamere per le ultime 18 ore, e questa copertura giornalistica rese il fatto di vastissima notorietà presso l'opinione pubblica." (fonte wiki).

Ricordo come fosse ieri, anche se i dettagli ovviamente col tempo poi sfuggono. Sono trascorsi 30 anni precisi. Tra le immagini che ho nella memoria quelle del Presidente della Repubblica più amato di sempre, Sandro Pertini, che si recò sul posto e al solito portò la sua grandissima umanità. Ricordavo anche che ci furono diversi tentativi di calarsi nel pozzo, partendo da quello che la perforatrice scavò di fianco e che poté arrivare però fino a un certo punto. Dei tentativi di calarsi il più importante fu quello di un uomo minuto, non uno speleologo come gli altri né uno addestrato dei pompieri o della protezione civile, un uomo "qualsiasi" che comprese di poter fare qualcosa, ma non ricordavo il nome, non avevo più memoria dell'impresa che compì anche se fu coronata da una sconfitta. Questo meraviglioso documentario me l'ha ricordata, o meglio insegnata, illustrata in dettaglio con testimonianze, immagini di repertorio e non, tutto quanto occorre.

E' storia, non è uno spolier, e ci tengo un minimo a raccontarla.
Angelo Licheri era un uomo dal fisico perfetto, per quanto minuto. Di origini sarde ma residente nelle vicinanze di Vermicino, si recò da solo sul luogo. Alla moglie disse il classico "vado a prendere le sigarette", proprio così, e invece, superando anche con qualche astuzia tutti i posti di blocco, arrivò fino all'imboccatura del pozzo parallelo. Aveva le spalle large 30 cm, nessuno come lui era adatto a quel tentativo disperato. Alla fine gli diedero fiducia e lo calarono, a testa in giù, con una fettuccia per imbragare Alfredino. Giù dal pozzo parallelo, poi attraverso il pezzo orizzontale che lo collegava al pozzo artesiano, e lì comincia l'impresa. Stiamo parlando di un uomo dentro un budello dove scorre a fatica, a decine di metri di profondità. Non ha mai fatto nulla di simile, mai s'è allenato alla claustrofobia, in una postura dove bastano pochi minuti perché ti arrivi tanto di quel sangue alla testa da rendere la situazione insostenibile. Ma Angelo (che nome, certe volte capitano a proposito...) aveva un cuore ed una determinazione indescrivibili.
C'erano punti che nemmeno lui poteva passare indenne, il pozzo si stringeva mano a mano che si scendeva. Era coperto di abrasioni, le braccia protese in avanti. Ogni tanto urlava "alzatemi un po' e ricalatemi!", occorreva slancio per superare certi punti. Pensava che poi avrebbe potuto non risalire? Ho brividi e magoni anche ora mentre scrivo solo a pensare ad una simile situazione. Questa è Storia Vera, non fiction. Alle abrasioni si aggiunsero piccole fratture, rotture varie a causa delle strettoie, il suo corpo pareva modellarsi al budello che stava percorrendo. Alla fine arrivò da Alfredino, e... vorrei raccontarlo tutto questo documentario, minuto per minuto, ma forse non è il caso.

Il povero Alfredino è morto, il corpo venne poi recuperato. Se chiedete ad Angelo quale premio avrebbe voluto per la sua impresa la risposta è ovvia. Rifiutò la maggior parte dei riconoscimenti, tranne pochissimi. Non voleva essere definito eroe, ma lui lo è stato, è un EROE con tutte le maiuscole. Un'ora circa è durata la sua discesa, quando è risalito era in condizioni terribili, fisiche e morali. Ha toccato Alfredino, ci ha parlato, poi l'imbragatura per motivi successivamente analizzati non poté salvarlo. Lo aveva davanti, comprese che non poteva far nulla, lo salutò e si fece sollevare in superficie. Non è nemmeno possibile immaginare il suo dramma interiore... Eroe popolare, Eroe perdente, ha però fatto vincere all'umanità l'acquisizione di un Grande Uomo che ha dimostrato cosa sia il vero coraggio, la vera umanità, la determinazione.

Come dice wiki, fu il primo grande evento televisivo, oggi diremmo di "real-tv", con dirette che durarono giornate intere, tutta l'Italia era attaccata al televisore. Non fu, come si potrebbe pensare, una banale e morbosa voglia di vedere il dramma in diretta, io perlomeno non la ricordo così. Grazie alla televisione potemmo tutti vivere una vicenda incredibile da vicino. Certo, avremmo voluto un finale diverso, come spesso avviene nei film. Che foto quelle di Angelo appena torna in superficie, che dramma, tutta Italia pianse, si capì che altre possibilità non ce ne sarebbero state. Un solo altro tentativo di calarsi, ma Alfredino non emetteva più alcun suono...

Ci fu chi dubitò del fatto che Angelo riuscì a raggiungere veramente Alfredino. Persino un processo ne derivò. L'Italia è anche questa: processa i suoi eroi e mette al governo indagati e condannati per mafia. Stendiamo l'usuale velo, più che pietoso lo definirei schifato. Fortunatamente tutto si risolse positivamente. Quelli che, senza cognizione ed esibendo inutile perizia, si permisero di dubitare dell'impresa di Angelo sono stati messi a tacere dai fatti alla fine comprovati. Già da qualche anno nessuno più osa dubitare di quanto avvenne. Oggi con questo documentario gli viene reso definitivo Onore.

Guardatelo appena sarà possibile, una visione che cambierà la vostra vita. Se poi eravate già in "età cosciente" all'epoca a maggior ragione. In ogni caso, una storia e un personaggio che vanno tramandati anche a chi non c'era, ai nostri figli, nipoti. In quest'epoca, soprattutto per il nostro imbruttito paese, dove il successo arride a gentaglia che nemmeno mi perito di nominare, sapere che tra noi ci sono Uomini come Angelo Licheri è una ventata di gioia ed orgoglio.

Con l'occasione segnalo un link che mi ha fornito lo stesso regista dove si trovano le indicazioni per effettuare una donazione ad Angelo Licheri, che vive in condizioni fisiche ed economiche difficili.
http://www.langelodialfredo.it/donazioneperangelo/ .

Robydick

domenica 27 novembre 2011

Fantasm comes again

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Altro giro, altra corsa sull'ottovolante dell'Ozploitation settantasca che ci regala il seguito del precedentemente affrontato "Fantasm" (1976) di Richard Franklin. Questa volta dietro la macchina da presa troviamo un altro eroe della filmografia australiana, il grande Colin Eggleston (qui come Eric Ram) che fu regista del celeberrimo "Long Weekend" (1977).

La ricetta non cambia rispetto all'illustre prototipo, quindi l'appassionato di sexploitation può sedere tranquillo in poltrona e lasciarsi sommergere da una cascata di nudi integrali femminili e maschili e scene softcore filtrate da un sottotesto ironico che male non fa, anzi. Viene a mancare la figura del professor Jurgen Notafreud (John Bluthal), sostituito da una coppia di redattori che leggono le fantasie erotiche dei lettori di una rubrica sull'educazione sessuale intitolata "Dear Collette". E' uno sporco lavoro, ma qualcuno dovrà pur farlo. E allora via con tette, culi, cazzi, fighe e chi più ne ha più ne aggiunga, il tutto a costruire un erotismo gioioso e liberatorio in cui i protagonisti sfogano le proprie fantasie libidinose. Ne abbiamo per tutti i gusti, dalle bibliotecarie amanti del Kamasutra (ep. "Silence Please") alle ginnaste vergini spalmate d'olio d'eucalipto (ep. "Workout"), massaggiate e deflorate dall'allenatore, fino alle vogliose ragazze che rimangono bloccate in ascensore con un timido impiegatuccio al quale faranno passare una piacevole mezz'ora di pausa (ep. "Going Up?").

Tanta carnassa esposta e tanti episodi piacevoli con picchi di grande sexploitation-cinema specialmente nel magnifico lesbo con protagoniste Dee Dee Levitt (già nel primo episodio del capostipite, "Beauty Parlour") e la superwoman Uschi Digard (anche lei già vista in "Fantasm" in un altro lesbo, superba, incontenibile, chissà l'effetto su grande schermo, con quelle tette che sembrano sparate fuori in 3D) nude in mezzo al fieno nell'episodio "Straw Dolls" e nel segmento "Double Feature" in cui due coppie di giovani vanno al drive-in a vedere il primo "Fantasm" (sullo schermo scorrono le immagini di "Nightmare Alley", l'episodio sulla violenza sessuale con Rene Bond e Al Williams); mentre la coppia sul sedile posteriore ci dà dentro di brutto, i due ragazzi davanti sembrano avere qualche problema, a causa del disinteresse della biondocrinita e spettacolare Cheryl "Rainbeaux Smith" ("The Swinging Cheerleaders", 1974 di Jack Hill, che altro aggiungere) la quale, andata a comprare del popcorn, attirerà le attenzioni di un arrapato giovanotto che la prenderà con la forza, ma non troppa, mentre il di lei ganzo (Urias S. Cambridge) si sollazzerà con gli amici direttamente in automobile. Grande episodio, splendidamente fotografato dal "solito" Vincent Monton (qui come William Lyndigan) in cui la violenza che sembra scatenarsi subdolamente si trasforma in sorriso liberatorio, o almeno chi scrive la vede così.

Non potevano mancare le forme ottundenti di Mary Gavin/Candy Samples (ep. "Family Reunion"), al lavoro anche nel film precedente, abbonata al ruolo di madre con una predilezione per l'incesto, là il figlio reduce di guerra, qui la figlia minorenne Virginia (la bella Nancy Mann, già vista in "Laffing Time", "Night Fright" e in "Ridere per Ridere" di Landis nell'episodio"Catholics High School Girls in Trouble") coinvolta in un menagè à trois con il vecchio zio Fred (Al Ward) e il cane di peluche Fluffy (come il mostro nella cassa di "Creepshow" di Romero), così come non poteva mancare l'orgia capitanata questa volta da Con Covert (altro interprete del film di Franklin) che irretisce una povera dattilografa, spogliata e goduta da tutti i convitati durante un farlocco colloquio di lavoro (ep. "The Good Old Gang at the Office"). Partecipazione straordinaria di John Cash Holmes, che si vede a bordo piscina per pochi secondi (vestito) mentre più in evidenza risulta essere un altro campione della Golden Age of Porn, William "Bill" Margold che si fa tre ragazze contemporaneamente in vasca, ma non allarmatevi, nessun cimento hardistico, membro esposto e manipolato ma non turgido, quindi no penetration (ep. "The Kiss of Life). Partecipazione di altri due hardisti conclamati nell'episodio "Overdrive", in cui Christine De S(c)haffer (tra i tanti titoli in ambito hard impossibile non citare "Hot & Saucy Pizza Girls" di Bob Chinn) fa un pompino al buon Jesse Adams (oltre 135 titoli, c'è solo l'imbarazzo della scelta, attivo fino al 2004) mentre sta guidando, spedendolo direttamente contro una staccionata.

Come da copione, la chiusura spetta alla nostra amatissima Serena Robinson, una delle attrici hard più belle di tutti i tempi, che va in chiesa a confessare i suoi pensieri impuri, trovando un paio di orecchie, ma non solo, disposte ad ascoltare le sue fantasie sessuali (ep. "True Confession"). Semplicemente stupenda, da cecità immediata, incommensurabile. Un solo fotogramma con Serena protagonista e ci si ritrova nel tunnel hardistico a vita. Imprescindibile. Così come imprescindibile é la visione di questo caposaldo del cinema exploitation che non può mancare nella videoteca di ogni appassionato e cinefilo degno di tale nome. C'è il Dvd Synapse, non ci sono scuse. A proposito, nel Regno Unito il film non è stato distribuito fino al 2010, a causa della benemerita BBFC che ha pure imposto dei tagli pari a 2 minuti e 41 secondi nel Dvd citato, tagliando di fatto l'aggressione sessuale nell'episodio "Double Features" e tutti i riferimenti all'incesto e al sesso con minorenni nel segmento "Family Reunion" con Mary Gavin.

Consigliatissimo. Starring: Lots of actors. Serena per sempre. Buona visione.

Lista episodi:

  • Silence Please
  • Workout
  • Double Feature
  • Going Up?
  • Straw Dolls
  • The Good Old Gang at the Office
  • The Kiss of Life
  • Family Reunion
  • Overdrive
  • True Confession
Belushi

sabato 26 novembre 2011

Le Gitàn - Lo Zingaro

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“Lo Zingaro” (Le Gitàn)
('75) del grande Josè Giovanni, è un film alla maniera di Giovanni e delle sue eccellenti qualità di narratore, sceneggiatore e romanziere, piacevolmente amorale. Una delle motivazioni principali che spinge il protagonista Alain Delon è in primo luogo, una sorta di guerra personale contro l'autorità, la legge e la polizia in particolare. Oltre all'assunzione tipica di quell'atteggiamento tanto verso il crimine che verso la polizia. Se qualcuno è alla ricerca di una sorta di film pro-polizia, questo certamente non lo è. Come certamente tutti i film di Josè Giovanni, e leggendo al seguito alcuni cenni della sua incredibile biografia, non sarà difficile coglierne le motivazioni. In secondo luogo, il finale farà semplicemente infuriare coloro che hanno bisogno di un senso chiaro e definitivo di chiusura di un film. Nessuna di queste cose mi ha mai dato particolarmente fastidio, ma purtroppo quando questo grande noir uscì al cinema in Francia nel 1975, molti vi ravvisarono perciò delle gravi mancanze e trascuratezze.

Il film ruota intorno a due protagonisti criminali di professione le cui storie non si intersecheranno mai fino alla fine. “Le Gitàn” ("Lo Zingaro") è interpretato da Alain Delon a cui basta inarcare il sopracciglio alla maniera di Gregory Peck per essere una presenza di enorme magnetismo e carisma, un uomo che fin dall'infanzia ha sentito e vissuto sulla sua pelle i diversi perché la società non ha alcun rispetto o posto per gli zingari (che è uno, la prima motivazione), e che quindi non ha né sente alcun obbligo nei confronti della società. Non è un arrembante assassino, tutt'altro, ma è di più un uomo che non si sente in colpa dei furti e delle rapine compiute, viste e mostrate come ciò che egli vede come un giusto risarcimento autoprocuratosi, da un sistema irrimediabilmente corrotto. Paul Meurisse, uno dei più grandi e storici interpreti del cinema e del teatro francesi interpreta Yan Kuq. Lui è più di un criminale professionista - uno a cui potrebbe interessare ancora di meno la società, in un modo o nell'altro – che si è semplicemente chiamato fuori dal sistema di vita borghese, dedicandosi solamente a prendersi ciò che vuole e a vivere la vita di un criminale gentiluomo.

Per quanto riguarda il film, non va in profondità sui criminali o sulla polizia. Ma invece, mostra il loro approccio e i loro modi nel "fare le loro cose" senza commenti o posizioni apparenti su chi è nel giusto o nello sbagliato. Questo approccio amorale, anche se insolito, effettivamente funziona bene perché aggiunge notevole realismo del film. Questo è un mondo in cui il crimine potrebbe pagare ed i malfattori possono vivere felici e contenti! In molti modi diversi, è un po' come nei classici film noir del cinema del “Fronte popolare” aggiornati però agli anni settanta e senza le stesse convenzioni e luoghi comuni. E' invece un film inflessibile e poco romantico, dall'inizio fino alla fine.
La seconda parte del film è di gran lunga la più interessante anche per l'eccellente qualità e costruzione di alcune sequenze d'azione da parte del solito Remy Julienne, e quando mostra la condizione degli zingari, costretti a vivere in discariche, emarginati perpetuamente da una società che non li accetterà mai e che sembra loro stessi non accetteranno mai. Tutto il film di Giovanni e di Delon è eloquente e avrebbe potuto avere un maggior successo anche fuori dalla Francia, se solo gli fosse stato dato un adeguato supporto, cosa che quasi mai viene data ai film francesi in Italia: soltanto le scene di Delon quando si incontra con la sua gente sono indimenticabili.

Il cast è eterogeneo per un intento che voleva raccogliere nel film gli attori dagli anni Quaranta / Cinquanta (Paul Meurisse di appunto "Diaboliques" (I Diabolici) ('51) di Henri-Georges Clouzot che è qui come un fantasma del passato), quelli alla moda “corrente” degli anni settanta (Delon e Annie Girardot in una parte piuttosto scomoda ma anche piuttosto di supporto, ma anche l'immancabile, grande Marcel “The French Connection” Bozzuffi, oltre al nostro Renato Salvatori) e le future glorie degli anni ottanta fino al cinema francese contemporaneo presenti qui con Bernard Giraudeau (nella parte di un giovane poliziotto ed ex amante della moglie di un gangster).

Gli anni settanta erano ancora uno splendido momento per Giovanni, basti citare titoli come "Deux hommes dans la ville" (Due contro la città) ('74), con Delon e Jean Gabin: le sue opere migliori però rimangono i suoi primi lavori come "La Loi du survivant" (La Donna per una notte) (1967) con Michel Constantin, "Le Rapace" (Il Rapace) (1968) e "Dernier domicilio connu" (Ultimo domicilio conosciuto) (1969), entrambi con Lino Ventura.

Qui di seguito non ho potuto esimermi dall'apporre dei doverosi cenni biografici alla figura e alla vita incredibile di Josè Giovanni, prendendo a prestito la  sinossi biografica a mio parere migliore, tra quelle scritte in italiano, firmata da Roberto Rippa che ringrazio per la bella pagina.


(presente articolo è stato pubblicato suRapporto Confidenziale n°24 (aprile 2010), pag. 36)
José Giovanni, vero nome Joseph Damiani (Parigi, 22 giugno 1923, Losanna, Svizzera, 24 aprile 2004) è stato autore di romanzi, sceneggiatore, dialoghista e regista.
Franco-svizzero di origine corsa, conclude gli studi superiori prima di dedicarsi ai lavori più disparati, tra cui quello di minatore, boscaiolo e oste.
Nel corso dell’Occupazione e fino alla Liberazione frequenta il quartiere Pigalle e la sua varia umanità composta in gran parte di gangster. Qui incontra Abel Danos, assassino su commissione e membro della resistenza poi fucilato con l’accusa di collaboraziosmo, ed entrerà a fare parte di un gruppo criminale composto anche da suo zio e suo fratello maggiore. Nel corso di un’azione con loro, tre persone rimarranno uccise.
Condannato a morte nel 1948, malgrado il suo coinvolgimento negli omicidi non sia diretto, scampa alla ghigliottina grazie alla grazia concessa dal presidente Vincet Auriol. La sua pena viene convertita in lavori forzati. Uscirà di prigione nel 1956 e verrà riabilitato nel 1986, dopo un nuovo processo.
Scrive il suo primo romanzo all’età di 33 anni, appena uscito di prigione. “Le trou”, che narra del suo tentativo di evasione dal carcere, viene fatto leggere dal suo avvocato a Antoine Blondin et Albert Camus grazie all’interessamento dei quali verrà pubblicato nella collana Série noire dell’editore Gallimard. Nel 1958 pubblica ben tre romanzi: “Classe tous risques” (da cui Claude Sautet trae il film omonimo ), “L’excommunié” (da cui Jacques Becker tratta il suo film Un nommé La Rocca) e “Le Deuxième Souffle”, da cui Jean-Pierre Melville trarrà il film omonimo nel 1966.
Dai romanzi al cinema il passo è breve e Jacques Becker gli propone nel 1959 di lavorare con lui alla trasposizione cinematografica del suo romanzo “Le trou”.
Da qui avrà inizio una carriera come attore, sceneggiatore, dialoghista, regista, che lo porterà a dedicarsi alla scrittura di romanzi con minore frequenza.
Tornerà all’attività letteraria nel 1995 con “Il avait dans le coeur des jardins introuvables”, dedicato alla memoria di suo padre, da cui trarrà nel 2001 il film Mon père, il m’a sauvé la vie.
Ha scritto venti romanzi, due libri di memorie, trentatre sceneggiature, diretto quindici film e cinque telefilm.
Prima di morire, ha dedicato una parte del suo tempo a visitare giovani carcerati per incoraggiarli a reinserirsi nella società.
Roberto Rippa

ROMANZI 
1957 – Le Trou (portato al cinema nel 1960 da Jacques Becker con lo stesso titolo – in Italia Il buco) • 1958 – Le Deuxième Souffle (portato al cinema nel 1966 da Jean-Pierre Meléville con lo stesso titolo – in Italia Tutte le ore feriscono, l’ultima uccide! • 1958 – Classe tous risques (portato al cinema nel 1960 da Claude Sautet con lo stesso titolo – in Italia Asfalto che scotta) • 1958 – L’excommunié (portato al cinema nel 1961 da Jean Becker con il titolo Un nommé La Rocca (Quello che spara per primo) e quindi rifatto da lui stesso nel 1972 con il titolo La Scoumoune – in Italia Il clan dei marsigliesi) • 1959 – Histoire de fou • 1960 – Les Aventuriers (portato al cinema nel 1966 da Robert Enrico con lo stesso titolo – in italia I tre avventurieri – e quindi rifatto da lui l’anno seguente con il titolo La Loi du survivant) • 1960 – Le Haut-Fer (portato al cinema nel 1965 da Robert Enrico con il titolo Les Grandes Gueules – in Italia Una vampata di violenza • 1964 – Ho ! • 1964 – Meurtre au sommet • 1983 – Le Ruffian • 1983 – Le Musher • 1995 – Il avait dans le coeur des jardins introuvables (portato al cinema dall’autore stesso nel 2001 con il titolo Mon Père, il m’a sauvé la vie) • 1995 – La Mort du poisson rouge • 1995 – Chemins fauves • 1995 – Comme un vol de vautours • 1995 – Le Pardon du grand Nord

CINEMA 
1960 – Le trou (Il buco, Jacques Becker) – sceneggiatura, autore del romanzo alla base del soggetto • 1960 – Classe tous risques (Asfalto che scotta, Claude Sautet) – sceneggiatura, dialoghi, autore del romanzo alla base del soggetto • 1961 – Un nommé La Rocca (Quello che spara per primo, Jean Becker) – dialoghi, autore del romanzo alla base del soggetto • 1962 – Du rififi chez les femmes (Rififi fra le donne, Alex Joffé) – sceneggiatura • 1963 – Symphonie pour un massacre (Sinfonia per un massacro, Jacques Deray) – sceneggiatura • 1963 – Du rififi à Tokyo (Rififi a Tokyo, Jacques Deray) – dialoghi • 1965 – L’Homme de Marrakech (L’uomo di Casablanca, Jacques Deray) – sceneggiatura • 1965 – Les Grandes Gueules (Una vampata di violenza, Robert Enrico) – dialoghi, autore del romanzo alla base del soggetto • 1966 – Avec la peau des autres (Sciarada per quattro spie, Jacques Deray) – sceneggiatura, soggetto originale • 1966 – Le Deuxième souffle (Tutte le ore feriscono, l’ultima uccide!, Jean-Pierre Melville) – autore del romanzo alla base del soggetto • 1967 – Les Aventuriers (I tre avventurieri, Robert Enrico) – sceneggiatura, dialoghi, autore del romanzo alla base del soggetto • 1967 – La Loi du survivant – Regia, sceneggiatura, autore del romanzo alla base del soggetto • 1968 – Le Rapace (Il rapace)– regia, sceneggiatura • 1968 – Ho ! (Robert Enrico) – sceneggiatura, autore del romanzo alla base del soggetto • 1969 – Dernier Domicile connu (Ultimo domicilio conosciuto) – regia, sceneggiatura • 1969 – Le Clan des Siciliens (Il clan dei siciliani, Henri Verneuil) – sceneggiatura • 1970 – Un aller simple (Solo andata) – regia, sceneggiatura • 1971 – Où est passé Tom? – regia, sceneggiatura • 1972 – La Scoumoune (Il clan dei marsigliesi) – regia, sceneggiatura, autore del romanzo alla base del soggetto • 1973 – Deux Hommes dans la ville (Due contro la città) – regia, sceneggiatura, soggetto originale • 1975 – Le Gitan (Lo zingaro) – regia, sceneggiatura, soggetto originale • 1976 – Comme un boomerang (Il figlio del gangster) – regia, sceneggiatura • 1979 – Les Égouts du paradis – regia, sceneggiatura • 1980 – Une robe noire pour un tueur – regia sceneggiatura • 1983 – Le Ruffian – regia, sceneggiatura, autore del romanzo alla base del soggetto • 1985 – Les Loups entre eux – regia, sceneggiatura • 1988 – Mon ami le traître (L’amico traditore) – regia, sceneggiatura • 1991 – L’Irlandaise (film per la TV) – regia • 2000 – Mon père, il m’a sauvé la vie – regia, sceneggiatura, dialoghi, autore del romanzo alla base del soggetto • 2007 – Le Deuxième souffle (Alain Corneau) – autore del romanzo alla base del soggetto (rifacimento del film del 1966 diretto da Jean-Pierre Melville)

Napoleone Wilson


venerdì 25 novembre 2011

Laura - Vertigine

14

Giallo, Noir, Poliziesco... io ho messo Thriller semplificandomi la vita, troppe altrimenti le etichette da assegnare a questa meraviglia che non conosce il passare del tempo. Alcuni film, che hanno più che ragion d'essere, sono legati al loro tempo mentre altri, come questo, superano i confini oggettivi delle quattro dimensioni. Se poi come me si ama il bianco e nero e non la si considera una tecnica superata, allora si capisce perché "Laura - Vertigine" entra nell'Olimpo.

Una pubblicitaria di successo di nome Laura Hunt, donna bellissima (Gene Tierney), viene trovata morta e sfigurata dalle ferite inferte nel suo appartamento. Subito partono le indagini e ad occuparsene è Mark McPherson (Dana Andrews), un apparentemente cinico detective della polizia. Sospettati principali 2 uomini sentimentalmente antagonisti nei confronti di Laura, il giornalista Waldo Lydecker (Clifton Webb) e un personaggio poco chiaro, playboy e opportunista che puzza tanto di "cacciatore di dote", Shelby Carpenter (Vincent Price, diventerà un mito dell'horror). Carpenter sarebbe diventato presto sposo di Laura, e questa sarebbe dovuta partire per un week-end in campagna proprio per riflettere sulla sua decisione. Proprio mentre McPherson è in casa della vittima una sera, da solo, a riflettere sulle indagini, Laura si presenta viva e vegeta. Allora chi è la donna morta? Chi è stato ad ucciderla e perché? Devo fermarmi a poco più di metà film con la trama, di spoiler direi che ne basta uno.

Alcuni indizi si capisce, a posteriori, che potevano essere interpretati per anticipare qualcosa, altri piomberanno improvvisi. Film intenso, ci mostrerà in flashback l'ascesa di Laura da semplice disegnatrice ad imprenditrice della pubblicità, pigmalione di turno il fine parlatore Lydecker. Quest'ultimo svilupperà un amore possessivo nei suoi confronti, provvederà in qualche modo a mettere in cattiva luce agli occhi di lei ogni possibile rivale, manovra che però fallirà l'intento con Carpenter. In pessimi rapporti tra loro, sia Lydecker che Carpenter hanno quindi plausibili ragioni per essere autori del delitto.

Bello anche il titolo italiano "Vertigine", che però può in qualche modo ingannare, facendo pensare ad una suspance in stile Hitchcock. Il film regge invece la tensione più sulle figure abbastanza oscure dei due sospetti che sui colpi di scena ed è completamente privo di ogni genere di violenza. Particolare la personalità del detective che svilupperà un attaccamento morboso, diciamo sentimentale per quanto possibile, nei confronti di Laura quando ancora questa è considerata morta. Eccezionali le scene in cui lui solo in casa si ferma a più riprese ad ammirarne il ritratto. Quando poi se la ritroverà davanti viva...

Cinema da manuale nel senso buono del termine e grandi prove di recitazioni impostate, da scuola di teatro. Opere con cui le seguenti di genere devono fare i conti. Vinse solo l'oscar per la fotografia, a Joseph LaShelle, con nomination anche per regia, scenografia in bianco e nero, attore non protagonista (Clifton Webb) e sceneggiatura.

Qualche trivia da wiki è interessante riportarlo:
  • Il film è tratto dall'omonimo romanzo popolare del 1943, scritto da Vera Caspary, autrice anche di altre sceneggiature quali Lettera a tre mogli (A Letter to Three Wives) e Les Girls.
  • Il ritratto di Laura appeso sul camino, che nel film ha una funzione chiave, era stato realizzato a olio dalla pittrice Azadia, moglie del regista Mamoulian. Quando Preminger assunse la direzione del film, al ritratto a olio venne sostituita una gigantografia ritoccata da un esperto di effetti speciali degli studios.
  • Le copie circolanti sono state accorciate di qualche minuto per problemi di diritti musicali. La versione originale durava 88 minuti.
  • Il personaggio di Waldo Lydecker è basato sulla figura del giornalista, opinionista radiofonico e critico teatrale per il New Yorker Alexander Woollcott, che come Waldo, è affascinato dagli omicidi. Woollcott cenava spesso al Algonquin Hotel, dove Laura si incontrò per la prima volta con Waldo.
  • Il film venne rigirato per la televisione, questa volta con Vincent Price (che nel film interpretava Shelby) nel ruolo di Waldo Lydecker. Price recitò il possessivo Lydecker come un damerino.
  • Il film ha anche dato il nome a Laura Palmer, dalla cui morte prende il via la serie televisiva Twin Peaks.
Imperdibile.
Robydick

giovedì 24 novembre 2011

La Cina è vicina

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Film del progetto "100 Film italiani da salvare".

Con il romanzo omonimo di Enrico Emanuelli condivide solo il titolo. Questo secondo lungometraggio di Marco Bellocchio (dopo quel capolavoro di opera prima che è "I pugni in tasca") è un suo soggetto. Alla sceneggiatura ha collaborato anche Elda Tattoli. Un gran film a mio parere, che ho messo nei Cult solo perché appena un filo sotto l'Olimpo.

La trama, scarna e distaccata, me la risparmio e la prendo da wiki:
"Vittorio Gordini Malvezzi, professore di scuola media superiore ed uomo politico trasformista, si appresta a diventare assessore ed assume come factotum Carlo, giovane ragioniere militante del Partito Socialista Unificato, il partito con cui Vittorio intende schierarsi.
Avendo l'opportunità di frequentare quell'importante famiglia (i Gordini Malvezzi sono di nobili discendenze), Carlo entra in intimità con la sorella di Vittorio, Elena, e ne diventa l'amante pur essendo già fidanzato con la sua segretaria Giovanna. Quando lo scopre, Giovanna decide di vendicarsi e si mette insieme proprio con Vittorio. Elena nel frattempo resta incinta e cerca di abortire ma Giovanna glielo impedisce, così come Carlo: i due ex fidanzati infatti si alleano e ne approfittano per migliorare la loro condizione sociale. Fanno intrecciare una serie di intrighi che si concludono solo con un doppio e forzato matrimonio: Carlo ed Elena, Giovanna e Vittorio.
Il film finisce con il maoista Camillo che aizza una muta di cani e gatti contro il fratello Vittorio proprio nel palco ove il docente sta svolgendo il suo comizio."

Queste le vicende in breve, ma il film, quello che ti lascia, è ben diverso, e bisogna tenere in considerazione il fatto che parliamo di un'opera del 1967. Palmiro Togliatti è morto da 3 anni e il P.C.I. comincia a manifestare al suo interno i primi dissensi, che sfociano all'esterno dove il cordone ombelicale con l'Est s'incrina, tanto che nel 1968 condannerà l'invasione della Cecoslovacchia da parte dell'Unione Sovietica. Fu una presa di posizione d'importanza storica per il Partito Comunista Italiano (che poi occhetto getterà alle ortiche nel 1991 alla Bolognina, parere personale).

Difetti del film? Togliamoci subito il sassolino, proprio piccolo: a tratti manifesta discontinuità tra un evento e l'altro. Per me non ce ne sono altri.
I maoisti hanno tratti grotteschi? Ritengo la cosa in parte voluta, in parte coerente con una realtà che, anche se non conosciuta di persona ma molto spesso raccontata da conoscenti stimati, vedeva manifestazioni d'eccesso ideologico nei più giovani. C'era una volontà di ribelle contrappasso. Non a caso Camillo (Pierluigi Aprà) frequenta un collegio cattolico e si toglierà persino lo "sfizio" di comunicare da lì la presenza di una bomba che coi suoi amici hanno messo presso la sede del partito. Quello che oggi ci sembra grottesco allora non lo era in certi ambienti, e grande onore ancora a Bellocchio di averlo ritratto. Le "libertà" sessuali erano una realtà, i giovani di oggi se le sognano secondo me. Così come si sognano, e anche questo è un punto a sfavore, tanta passione politica che, per quanto sfociasse in cose assurde come le "copule antiborghesi", aveva dalla sua una ferma volontà di non subire passivamente l'altrui volontà. I maoisti, tra i quali spicca anche un giovanissimo Alessandro Haber, daranno anche occasione a più di una risata, è soprattutto grazie a loro che questo film merita il tag di "commedia".
A dare il tono "drammatico" è la, moralmente, tristissima vicenda dei due giovani fidanzati Carlo (Paolo Graziosi) e Giovanna (Daniela Surina), che daranno via ogni dignità, ed anche il loro amore, per opportunismo nei confronti dei fratelli Gordini Malvezzi, Vittorio (Glauco Mauri) ed Elena (Elda Tattoli). Una vicenda talmente penosa nel suo squallore da dar disgusto, eppure sono convinto che sia una delle cose più "comuni" possibile, credo che ci siano ancora oggi tante persone che non esitano, in favore di facili agi e ricchezze, a sputtanarsi completamente, a non aver vergogna di nulla. Difficilissimo vivere coerenti con le ideologie, piantano paletti alle vite personali da non fare invidia alle religioni.

Premi: Festival di Venezia 1967: Leone d'argento; Nastro d'Argento al miglior soggetto originale e alla migliore fotografia.

Motivi per metterlo in carnet ce n'è molti.
A parte i contenuti, il film è girato e recitato stupendamente, le immagini sono sempre molto belle sia negli interni che in campo aperto. Marco Bellocchio da subito si rivelò uno bravissimo con la macchina da presa e oggi è ancora tra i nostri migliori registi.

Curiosità:
Ci sono delle scene girate in un poligono di "tiro al piccione", sport ignobile la cui pratica venne vietata nei primi anni '80, grazie all'impegno degli animalisti. Ora si può praticare solo il "tiro al piattello". Me li ricordo bene, manifestavano ai confini del poligono con striscioni, rischiando di beccarsi dei pallini vaganti. Quelli che sparavano non eran gente da farsi troppi scrupoli, era un "ambientino" proprio raccomandabile, certe facce, mica gente che andava a lavorare per guadagnarsi da vivere, e ci siamo capiti. Scommesse da capogiro, mai più ho visto tanti soldi in contanti muoversi brevi mani.
Le scene ritraggono lungamente quello che facevo io per dare robuste arrotondate alla scarna paghetta paterna. Non sparavo, facevo o "il vivo", cioè quello che metteva il piccione "spiumato" nella gabbietta, o "il morto", quello che lo andava a recuperare impallinato. Ai tempi (avevo 14-16 anni) li maledivo questi "comunisti di merda" (questa la locuzione che usavamo tra colleghi e tiratori). Io con quei schifosissimi volatili ci facevo un sacco di grana, ci pagavano bene. Si tornava a casa sporchissimi di sangue, puzzolenti, ma quanti scudi in tasca. Quando facevi il morto spesso ti urlavano "mancia!" per recuperare il piccione solo ferito prima che uscisse dal poligono. A ripensarci oggi, a quel che facevo... facile che finirò all'inferno quando sarà, nel girone degli "Scagazzati dai piccioni", condannato a vivere in un mare di guano.
Le carcasse dei piccioni ufficialmente finivano in discarica, ufficiosamente e anche con una certa probabilità in omogeneizzati, questa una voce che circolava. Mi sa che mezza italia s'è svezzata coi piccioni impallinati.

Robydick

Bullitt

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Dal romanzo "Mute Witness" di Robert L.Fishun un film che ancora oggi è un riferimento del genere poliziesco. Bullitt, interpretato da Steve McQueen, è un ufficiale di polizia al quale viene affidata la protezione di un testimone chiave per un processo di mafia, il quale verrà ucciso da dei sicari già la prima notte di sorveglianza, troppo facilmente. E' chiaro che c'è una talpa da qualche parte. In realtà morirà in ospedale, ma Bullitt per risalire ad assassini e mandanti occulterà la cosa. Quasi un uno-contro-tutti... finale eccezionale, con colpo di scena.

Oggi la trama essenziale di "Bullitt" è fin abusata, ciò non toglie che questo rimane e sempre sarà un grandissimo Cult la cui visione è ancora estremamente coinvolgente, sia per il semplice appassionato di film d'azione e di genere che per il cinefilo più attento anche alla tecnica.

Non per la trama però questo film è entrato e risiede nella Storia del Cinema, ma per il leggendario car-chase che compare in locandina insieme al protagonista. Non è un caso se scelsero Steve McQueen per questo film, appassionato di motori e pilota di alto livello sia di auto che di moto. Un inseguimento tra 2 macchine, entrambe del 1968, diventate leggendarie anche grazie a "Bullitt". Quella che fuggiva, con a bordo i killer, era una Dodge Charger da 375 hp con cambio automatico 3 marce. L'inseguitrice, con a bordo Bullitt/McQueen, una Ford Mustang 390 GT da 325 hp con cambio manuale a 4 marce. Per entrambe le auto ci fu una consegna curata dalle stesse case madri. La Charger fu mantenuta originale con sole modifiche alle sospensioni, mentre la Mustang ricevette attenzioni anche al motore.

Un lavoro maniacale e dispendioso. Due settimane di riprese per ottenere circa 10 minuti di film (alcuni dicono 3 settimane). Scene di altissima pericolosità, tanto che persino McQueen dovette lasciare spazio agli stunt per guidare in alcuni momenti. A guidare la Charger un grande stunt driver, Bill Hickman, storico amico di James Dean e tra quelli che lo tirò fuori dalla Porsche nel tragico incidente in cui morì. A sostituire McQueen quando necessario un altro grande nome, Bud Elkins.

San Francisco sembra disegnata apposta per essere il set di film polizieschi e/o d'azione. Le zone dell'inseguimento vennero chiuse al traffico, e si svolsero in ogni caso con le macchine normalmente parcheggiate (una verrà danneggiata da un errore di guida). Si può solo guardare per capire il senso di vertigine pazzesca che daranno queste riprese. Le auto in discesa, con la macchina da presa interna, paiono tuffarsi nel vuoto. Velocità altissime, pezzi girati a tempo reale tra i 110 e i 180 km/h simulandone anche di più elevate, ma mai immagini accelerate in studio. Fino a 6 angoli di ripresa che poi in montaggio hanno dato il risultato eccezionale che si può ammirare. Molto importante: in questo film venne introdotta una macchina sportiva molto bassa, che correva di fianco alle 2 in disputa, per effettuare riprese da cardiopalmo, che richiesero un altro grande pilota ed anche un cameraman piuttosto ardito, è quella che chiamarono "cameracar", poi utilizzata in futuro ed anche in un capolavoro che a breve metterò qua. La cameracar di "Bullit" fu una Chevrolet Corvette del 1966 guidata da Pat Hustis, scoperchiata e modificata per ospitare pilota ed operatore di macchina. Quest'ultimo aveva a disposizione due sedili, per sedersi fronte marcia o inversamente, legato con cinture.

Film che, ripeto, ha fatto Storia. Quell'inseguimento mi mette i brividi solo a pensarlo, uno di quei rari casi che non potrà mai passare "di moda" per le tecniche usate, semplicemente perché è di un realismo totale. Steve McQueen diventò testimonial della Ford, la quale produsse la serie speciale Bullitt del suo mitico modello Mustang, auto ancora oggi in produzione, molto diversa ovviamente ma perlomeno con lo stesso nome.

E poi, non c'è "solo" l'inseguimento... è tutto un gran bel film.
Robydick

credits: ringrazio le seguenti fonti
http://en.wikipedia.org/wiki/Bullitt
http://www.classicmustang.com/bullitt_motor_trend.htm
http://www.hottr6.com/triumph/BULLITT.html


mercoledì 23 novembre 2011

Caddyshack - Palla Da Golf

8

Cosa si può chiedere di più ad un film? Puro distillato di comicità targata "National Lampoon's" che sfodera un trio di protagonisti impagabili come Chavy Chase, Bill Murray e il grande Rodney Dangerfield, stand up comedian di assoluto valore, praticamente sconosciuto in Italia che si inventa letteralmente sul campo il ritratto di un imprenditore edile arricchitosi con le speculazioni e pronto a fare il suo trionfale ingresso nella società che conta. "Si inventa" perchè sul set di "Caddyshack" l'improvvisazione è all'ordine del giorno, tanto che Bill Murray non ha una sola battuta scritta nel copione, anzi, nei sei giorni in cui è richiesto sul set improvvisa il 90% del materiale su cui costruirà la figura cultuale di Carl Spackler, l'aiuto giardiniere ossessionato dalla talpa (gopher, in originale) che sta distruggendo il green del Bushwood Country Club.

Dopo il successo di "Animal House" (1978) di John Landis, secondo le parole di Harold Ramis, sceneggiatore del film insieme a Brian Doyle-Murray e Douglas "Doug" Kenney, i produttori "ci stavano letteralmente aspettando fuori dalla porta", pronti ad investire dollari e risorse su questi anarchici umoristi rivelatisi pure una fonte di sicuro successo al botteghino. Il primo a proporre un'offerta seria a Ramis e Kenney è Jon Peters, forte di un contatto con Mike Medavoy dell'Orion Pictures. Naturalmente, ad una prima riunione di sceneggiatura per il nuovo progetto, Kenney se ne esce con una cosa su una "fantasia acida Buddhista da intendersi come parodia della spiritualità New Age", mentre Ramis si controlla proponendo una satira sociale sul Partito Nazista Americano in marcia su Skokie, Illinois. I due produttori rimangono basiti. Fortunatamente a Kenney vengono in mente gli aneddoti dell'amico Brian Doyle Murray (fratello di Bill) sulle sue esperienze come caddie presso l'Indian Hill Club a Winnekta in Illinois, in cui cominciò a prestare servizio dall'età di 11 anni (il "caddieng", cioè l'accompagnare il giocatore di golf lungo tutto il tragitto del campo, trasportando le mazze e fornendo assistenza tecnica, è una pratica piuttosto diffusa tra i giovani americani). Medavoy accetta e il contratto è pronto (una cosa ora impensabile nell'industria cinematografica statunitense); Ramis dirige, Kenney produce e Doyle-Murray viene accreditato in sceneggiatura e partecipa nel ruolo del Caddie Master.

Tutto bene. Ci vuole comunque una star che richiami il pubblico, ma è cosa che si risolve in un batter d'occhio. Chavy Chase, amico di Kenney, accetta con grande piacere il ruolo del playboy-campione-filosofo Ty Webb, che gli permette di portare sullo schermo quello che sa fare meglio, cioè Chavy Chase. Ma il botto Kenney e compagnia lo fanno quando si assicurano la presenza di Rodney Dangerfield (Jacob Cohen, 22 novembre 1921 - 5 ottobre 2004), grande comico di origine ebrea, che cominciò la carriera sostituendo all'ultimo minuto un numero all' Ed Sullivan Show, diventando poi presenza fissa ne "The Dean Martin Show" e nel "Tonight Show". Ecco, Dangerfield è uno di quei comici la cui sola presenza fisica basterebbe a riempire lo schermo, poi comincia a parlare e diventa un fiume in piena di cazzate, insulti, parolacce sciorinate con una naturalezza ed una velocità che si rimane incollati allo schermo a fissarlo nonostante indossi degli abiti che fanno sanguinare gli occhi. Al Czervic è tutto questo e forse anche di più, non a caso Oliver Stone ingaggiò il buon Dangerfield per il ruolo del padre di Juliette Lewis in "Natural Born Killers" in quel magnifico segmento in cui il film si trasforma in una sit-com debosciata. Originariamente previsto come ruolo secondario, Dangerfield davanti alla cinepresa è inarrestabile e Ramis si rende conto che è bene continuare a girare quando Rodney è in palla, specialmente durante la sequenza della cena presso il country club.

Stesso discorso, per il prode Bill Murray, in preda ad una febbre recitativa che gli permette di trasformare il giardiniere Carl Spackler nel suo giardiniere, il giardiniere dei giardinieri, un pazzo drogato, ubriaco, forse pericoloso, con sogni di gloria su un'improbabilissima carriera da campione di golf, una sorta di reduce di guerra ammazzatalpe che brucerebbe volentieri tutto il campo da golf e i suoi soci, donne escluse. Che dire poi della sequenza spettacolare in piscina, zenith della comicità dissacrante del gruppo di Kenney, con l'arrivo dei caddeis che si buttano in acqua come se non l'avessero mai vista prima. Cazzari, sguaiati, irrispettosi. Ad un certo punto salta fuori un Baby Ruth, dolce al cioccolato dall'aspetto inequivocabile; per scherzo un giovane lo butta nella piscina gremita. Colonna sonora tratta da "Lo Squalo" e soggettiva del "corpo estraneo" che si fa strada tra i natanti. Chi lo nota per primo, naturalmente lo scambia per l'unica cosa per la quale potrebbe scambiarlo, un gran bel pezzo di "crap" galleggiante depositato da qualche simpaticone. Segue diaspora con urla di panico e di terrore. Chi se non il prode giardiniere Carl Spackler viene incaricato di ripulire la vasca? E così sia, ma quando il nostro raccatta il corpo del reato non può esimersi dall'annusarlo prima per poi addentarlo con grande soddisfazione. Il tutto davanti agli occhi orripilati del Giudice Elihu Smails (il vecchio Ted Knight di "Mary Tayler Moore").

Non proprio materiale per gli amanti della comicità sofisticata, ma è proprio questo il tratto distintivo di un film come "Caddyshack", andare controcorrente e rivelare i vizi e le ipocrisie dell'American Way of Life, dipingendo un micro-cosmo come quello del Country Club, in cui quotidianamente convivono meschinità, antipatie, invidie e rivalità, in particolar modo tra i ricchi tromboni capitanati dal giudice Smails e il gruppo di perdigiorno "con classe" rappresentati dal playboy Ty Webb. In mezzo il gruppo dei caddeis, vera e propria categoria a parte, che vivono ai margini pur essendo parte integrante e fondamentale della vita del country club. C'è chi è più ambizioso di altri, il Danny Noonan portato sullo schermo dal bravo Michael O'Keefe, chi pensa solo al pelo (Scott Colomby as Tony D'Annunzio), chi solo alle scommesse (Brian Doyle-Murray, tra l'altro nel film partecipano altri due fratelli del clan Murray, John e Ed) e chi se ne frega allegramente di tutto, grazie generosamente esposte dalla nipote del giudice Lacey Underall a parte (una notevole e biondocrinita Cindy Morgan, discretamente mignotteggiante con il parterre maschile).

La sceneggiatura di Kenney, Ramis e Doyle-Murray prevedeva una maggiore esposizione di O'Keefe, Knight e Colomby, letteralmente oscurati sul set dalle improvvisazioni di Chase,Dangerfield e Murray (i produttori chiesero espressamente di dare più spazio alla lotta tra l'uomo e la talpa), creando non pochi dissapori tra gli attori citati. Ramis (che poi girerà il capolavoro "Groundhog Day" sempre con Murray) non è mai rimasto soddisfatto del risultato finale, nonostante lo statuto cultuale acquistato nel corso dei decenni. Probabilmente alcune scene avrebbero potuto essere meglio concepite, secondo il regista che, ricordiamolo, ai tempi era all'esordio su lungometraggio. Si, certo, anzi probabile, ma non ci si dimentichi del set "movimentato" in cui ci si mosse, tra fiumi di alcol e chili di cocaina, con Kenney e Chase a guidare le danze e improvvisazioni a go go, quasi come se il film si scrivesse da solo.

Girato per 11 settimane nell'autunno del 1979 presso il Rolling Hills Golf Club a Davie, Florida e per le scene della cena e del ballo on location al Boca Raton Hotel and Club a Boca Raton, Florida, "Caddyshack" raccoglie storie e personaggi in gran parte ispirati a persone realmente incontrate sui campi da gioco (la coppia di vecchi rincoglioniti, la camerierina interpretata dalla bella Sarah Holcombe), si, anche la scena della piscina. In una produzione talmente "scombinata", le cose migliori saltano fuori per caso. La scena tra Chase e Murray viene decisa un giorno a pranzo con il regista, non essendo presente nello script originario (i due avevano duramente litigato durante una puntata del "Saturday Night Live" in cui Chase ritornava come ospite, Bill Murray aveva infatti preso il suo posto nella seconda stagione dello show sostituendolo di fatto); la scena che ha per protagonisti Cindy Morgan e Chevy nel priveé di quest'ultimo è quasi totalmente improvvisata, vedi la canzone alla tastiera e il momento in cui Chase massaggia la Morgan, visibilmente sorpresa dalla performance del collega; tutto il famoso monologo di Bill Murray "Cinderella story..." mentre colpisce i fiori nell'aiuola è farina del sacco dell'attore. La scena dell'esplosione finale fu girata senza il permesso dei proprietari del campo, convocati dalla produzione ad una fantomatica riunione "aziendale". Una volta partiti, la troupe fece detonare le cariche, che, guarda caso, attirarono l'attenzione di un pilota, il quale prontamente avvertì il Fort Lauderdale Airport pensando ad un incidente aereo.

Le scene con protagonista la talpa (in realtà una specie di marmotta) furono ultimate a riprese ormai finite, con la supervisione di Rusty Lemorande e la marionetta concepita da Jeff Burke, uno dei principali designer del Disney Park. La talpa rimase per diverse settimane nell'ufficio di Lemorande, con Kenney, Peters e Ramis a giocarci come ragazzini. In post produzione l'equipe di John Dykstra si occupò di tutti gli effetti speciali, comprendenti pure tutti i movimenti del pupazzo, nonchè i tunnel in cui lo stesso fugge.Gli effetti sonori utilizzati per la talpa sono gli stessi impiegati per il telefilm "Flipper". Il pezzo portante della colonna sonora, ballato con gusto dalla talpa all'inizio e alla fine è "I'm All Right" del grande Kenny Loggins, ex della premiata ditta Loggins e Messina, avviato pure verso i trionfi di "Footloose" e "Top Gun", sempre nel reparto canzoni.

Sembra che tutto vada liscio. Ma il rovescio della medaglia è proprio dietro l'angolo. Doug Kenney, il talentuoso umorista, il creatore del "National Lampoon's", l'autore di "Animal House", si lancia in una pericolosa gara di resistenza con alcol e droghe. Già durante il montaggio della pellicola, la situazione sembra degenerare. Alla conferenza stampa che segue il primo screening del film, le reazioni non sono delle migliori. In più Kenney si presenta fatto e ubriaco, tanto da mandare tutti a fare in culo. Qualcuno suggerisce una vacanza anti-stress. Chavy Chase porta via l'amico, prima qualche settimana al Vic Braden's Tennis Camp e poi in direzione Hyatt Regency a Maui, Hawaii.
Dopo qualche tempo anche la fidanzata di Kenney, Kathryn Walker (poi si vedrà ne "I Vicini di Casa" di John G.Avildsen con Belushi e Aykroyd) arriva alle Hawaii, ma le cose non sembrano andare tanto bene. Chase deve ripartire, così come poco dopo pure la Walker. Kenney rimane solo. Chiama Brian Doyle Murray, sembra deluso e, soprattutto, si sente in colpa per l'ipotetico insuccesso del film (che insuccesso non sarà alla fine). Chiama la fidanzata, le dice che sarà di ritorno entro il Labor Day. Chiama pure l'amico Chavy Chase, chiedendogli di ritornare qualche giorno alle Hawaii. Tutto bene. Tre giorni dopo l'attore riceve una chiamata che gli comunica che l'amico non si trova.

Non può che finire male. Il 31 agosto del 1980 il corpo senza vita di Douglas Kenney (foto a dx) viene ritrovato in fondo all'Hanapepe Lookout sull'isola di Kauai. Morto sul colpo. Pare che la morte risalga a tre giorni prima. Ha lasciato le scarpe sul ciglio del precipizio, il vecchio Doug, ammiccando ad uno scherzo di Chase che, sul balcone dell'albergo, piazzò i suoi stivali da cowboy, facendo finta di essersi buttato di sotto, lasciando come ricordo solo un paio di calzature. "Questi giorni sono i più felici che io abbia mai ignorato", scrive Doug su un foglietto di carta ritrovato nella sua stanza di albergo.
Un mese prima il 25 luglio 1980, "Caddyshack" era uscito sugli schermi statunitensi in 656 sale, incassando $3.100.000 durante il week-end d'apertura. Ne guadagnerà 39.846.344 complessivamente, non disdegnando di diventare pellicola di culto negli States e oltre, Italia esclusa ovviamente, (in Danimarca, l'unico altro paese in cui effettivamente il film ebbe un grande successo, fu alleggerito di ben 20 minuti per mettere in risalto il ruolo di Bill Murray). Niente male per un filmetto di poco conto, quasi improvvisato e ideato da personaggi che festeggiavano una sera si e l'altra pure durante le riprese. Dopotutto Doug Kenney aveva studiato ad Harvard. Mica cazzi.

Consigliatissimo, come tutta l'opera di Douglas Kenney, ma che ve lo dico a fare. Ah, consigliati pure i film con Rodney Dangerfield, anzi "A Scuola con Papà" ("Back To School", 1986) di Alan Metter con Keith "Christine" Gordon e un giovanissimo Robert Downey Jr., prossimamente su questi schermi. Speriamo. Buona visione.

Douglas Kenney 10 dicembre 1946 - 27 agosto 1980
Rodney Dangerfield 22 novembre 1921 - 5 ottobre 2004
Belushi

martedì 22 novembre 2011

Gastone

9
Nessuno meglio di Mario Bonnard poteva dirigere Alberto Sordi in una delle sue interpretazioni, a mio parere, più straordinarie e rappresentative. Perché il languido, raffinato Gastone, personaggio frutto della geniale inventiva di Elio Petrolini, fu ispirato al grande comico proprio dalla figura dello stesso Bonnard, attore prima e regista poi fin dal muto dei primi del '900. Siamo quindi di fronte ad una sorta di autobiografia caricaturizzata d'eccelso livello.

Dopoguerra della Prima Guerra Mondiale, che Gaston Le Beau accusa d'essergli stata fatale per la carriera, senza la quale lui, al quale persino Rodolfo Valentino s'è ispirato, sarebbe finito a Londra con tutta la sua classe, lui che è il migliore "danseur mondain". Esibisce termini francesi, danza e canta ai café chantant di Roma, si presta ad accompagnare in danze vecchie babbione danarose che svengono per il suo sguardo nobilmente latino. Dei soldi mal si cura e come Il Principe (Vittorio De Sica), tipico viveur decadente, dilapida tutto finendo poi in mano ad Achille (Paolo Stoppa), uno strozzino che però è da lui facilmente abbindolabile, "sensibile" com'è alla bellezza delle soubrette complici di Gastone. Col suo Frac ci parla come fosse un fratello, e quando l'indossa è un Re, nulla può sminuirlo o renderlo incerto, nemmeno Carmencita (Chelo Alonso, gran donnino...) la più caliente ed altezzosa delle ballerine spagnole in tournee in Italia.
Nella scuola di ballo dove arrotonda le entrate scoprirà il talento ancora acerbo di Nannina (Anna Maria Ferrero), una domestica che mostrerà doti di danza e canto a lui subito evidenti. Ne diventerà manager e socio, farà di tutto per lei ma poi la perderà. Nannina farà carriera persino a Parigi, diventerà Anna La Belle, lui rimarrà relegato a Roma in locali di quart'ordine e pure fischiato, vivrà la caduta di quel genere di spettacoli - vedi Gastone? Nessuno indossa più il Frac, i tempi son cambiati - dirà sostanzialmente il principe in un teatro saturo di camicie nere.

Un po' cinico, ma poco in fondo, legatissimo a lussi che ora appaiono stravaganti, rappresenta Gastone anche un modo di essere tutto sommato nobile, personaggio che alla fine farà sorridere, ispirerà anche tenerezza lui come altri, attori e attrici, ex danzatori ed ex soubrette, che una volta sfioriti o passati di moda faticano a far 2 pasti consecutivi. Particolarmente toccante la vicenda di Rosa (Franca Marzi, altro gran bel donnino...), sua amica e una volta sua ballerina, finita a fare la prostituta per poi riprovare con Gastone un improbabile ritorno sulle scene. Nonostante si ritenga lui il vero creatore di Anna La Belle non potrà nulla per rivendicarne paternità e gloria, cosa che gl'ispirerà qualche proposito vendicativo ma... tutto cadrà di fronte allo spettacolo meraviglioso cui assisterà e solo in privato saprà togliersi una pur inutile soddisfazione.

Gaston Le Beau è sostanzialmente un incapace, bravo solo a fare qualche passo di danza, ad ostentare portamento, bellezza, charme, ma anche innocuo, pacifico, simpatico nella sua inguaribile e sfarzosa follia. E poi, soprattutto, un grande amante dell'arte, del far spettacolo, e con questa sua splendida caratteristica voglio chiuderne la descrizione.
Cosa c'è di attuale in questo film? Gastone a parte, anacronistico già ai suoi tempi, tutto è tremendamente attuale. Il mondo dello spettacolo e le sue regole son sempre quelle. Ai tempi descritti non c'era modo di barare con lifting e botux. Oggi vediamo personaggi esteticamente più durevoli anche se, a me perlomeno, appaiono quasi sempre squallidi. Non mi è mai sembrato squallido invece Gastone, e nemmeno Rosa, personaggio minore del film che però m'ha fatto una grande tenerezza.

Petrolini s'ispirò a Bonnard, Sordi a Petrolini con Bonnard a dirigerlo: ricetta perfetta, film bellissimo in ogni aspetto.
Olimpo e visione obbligatoria.

Robydick
Il frameshow non poteva che essere accompagnato dallo stesso Petrolini.

credits: grazie al solito Napoleone che m'ha quasi "imposto" di vederlo.


Cierresse - Centro Recupero Supereroi

0

Un corto "molto" corto, poco più di 8 minuti, che Luca Murri mi ha proposto di vedere. Come detto anche a lui, non è un genere di cui mi occupo normalmente, quello dei corti molto brevi. Sono un grafomane, preferisco cose lunghe, avere di che raccontare e di che consumare la tastiera. Però, a volte ci sono i Però...

Un giovane si reca in uno strano centro, all'infuori un'insegna che dice poco: "C.R.S. - Centro Recupero Supereroi". Non c'è il tempo di mantenere a lungo il mistero. Qualche dialogo surreale e poi è chiaro che ci troviamo in un piccolo centro, una casa-famiglia, per disabili mentali. I minuti finali serviranno a smaltire la sorpresa, che sarà divertita, strapperà un sorriso ed una piccola riflessione.

L'argomento disabilità, toccato con questa eleganza - perché un po' di sano umorismo, misto ad intelligenza, creatività, sensibilità, tutto in giuste dosi, è la Migliore Eleganza possibile di cui si possa degnare qualsiasi argomento - mi ha spinto a parlarne. La disabilità è materia che mi tocca da vicino, conosco molto bene. Ne ho scritto a diverse riprese nel mio altro blog "Fanfare for the Common Man", come esempio vi segnalo solo questa piccola "poesia": Uomini di frontiera. Non poteva che fare centro con me questo micro-film.

Scambiando due parole con Luca per email mi ha detto una cosa che voglio riportare, nemmanco l'avessi scritta io: "Perché i supereroi, cosa sono, in fondo? Uomini diversi, condannati ad essere migliori. Proprio come le persone che hanno qualsiasi tipo di difficoltà.".
Sottoscrivo.

Guardatelo, sono pochi minuti spesi bene.
Trovate altre info sul sito della Zi&Pa Pictures.
Qua invece la loro pagina facebook.

Robydick

lunedì 21 novembre 2011

La guerre du feu - La guerra del fuoco

7

Trentennale quest'anno per questo film originale, sperimentale, che racconta un'immaginaria vicenda accaduta 80 mila anni fa ad uomini primitivi, quando si stava affacciando sul pianeta l'homo sapiens. Meritava celebrazione. Per dare idea dell'importanza dell'opera, comincio ad elencarne i premi: Oscar 1983: miglior trucco; 2 César 1982: miglior film e miglior regista; Saturn Award 1982: miglior film internazionale; 5 Genie Awards 1983: costumi, suono, realizzazioni, attrice principale.

Grazie alla pagina Wiki posso attingere, tradotta, l'introduzione del film: "80.000 anni fa, la sopravvivenza degli uomini nelle immense distese inesplorate dipendeva dal possesso del fuoco. Per quegli esseri primitivi, il fuoco rimase un oggetto misterioso fino a quando non impararono a crearlo. Il fuoco doveva essere rubato alla natura, mantenuto in vita, protetto da vento e pioggia, difeso dai nemici. Il fuoco divenne simbolo di potere e sinonimo di sopravvivenza. Coloro che possedevano il fuoco, possedevano la vita.".
E' esattamente quello a cui si assisterà.

Una tribù, direi di neandertaliani, conserva un piccolo fagotto con all'interno una brace che si premura di mantenere sempre ardente, al fine di poter accendere in ogni momento il fuoco. Disporre del fuoco è vitale, serve certo a cuocere la carne delle prede ma soprattutto, cosa fondamentale, a non diventare preda! Li vedremo quegli animali che ancora risiedono nelle nostre paure ancestrali, e tra queste quella di morire sbranati è ancora la più temuta: lupi, mammuth, tigri dai denti a sciabola, orsi.
C'è però un nemico, ed è il più imprevedibile di tutti, che non viene allontanato dal fuoco, ne è anzi attratto e non esita ad ucciderti per procurarselo. Sono gli altri uomini. Saranno lotte sanguinose. Solo i primi sapiens, capaci di produrselo sfregando legni, usciranno da questa vita nomade, perennemente violenta, e saranno capaci di creare i primi insediamenti stabili. Il film ci mostrerà quel periodo in cui sapiens e neandertaliani (si pensa) hanno convissuto, la fase di passaggio e il finale sarà davvero commovente in questo senso, mostrandoci proprio una metamorfosi, col neandertal legato alla donna sapiens che guarda alla luna dopo essere riuscito ad accendere un fuoco dal nulla. Ci sarà un caldo senso di umanità in questo, nell'uomo che finalmente occupa la sua mente in qualcosa di più alto, che non sia il semplice sopravvivere: si comincia forse a Vivere.

Sempre dal citato wiki altre info molto importanti:
La guerra del fuoco (La guerre du feu) è un film del 1981 diretto da Jean-Jacques Annaud, ispirato all'omonimo romanzo di J. H. Rosny aîné.
Si tratta di un film d'avventura di ambientazione preistorica, la cui caratteristica peculiare è che gli interpreti si esprimono solo tramite gesti e suoni gutturali incomprensibili. Per rendere efficace questa scelta azzardata, Annaud si è servito di illustri consulenti: lo scrittore Anthony Burgess, noto per aver creato una lingua artificiale, il Nadsat, per il suo romanzo Arancia meccanica, ha ideato un linguaggio fittizio per il film, l'Ulam; l'etologo Desmond Morris si è occupato invece del linguaggio gestuale.


Questa del linguaggio, insieme alla ricostruzione ambientale e all'uso estremamente realistico degli animali, è la cosa che alla fine più mi ha colpito, anche e soprattutto dal punto di vista cinefilo. Non preoccupatevi di cercarlo in alcuna lingua o doppiaggio: si sentono solo dei suoni che nella vostra onomatopeica interpretazione, unita alla gestualità che comunque non è assimilabile alla nostra moderna, assumeranno i significati che voi spettatori vorrete dargli. Scoprirete lo stupore di "cominciare a capirli", inteso non in modo testuale ovviamente. Ci si calerà nel contesto del periodo, e il poco che si faceva era brevemente descrivibile. Chiaro che il linguaggio non è una scienza indipendente, s'è evoluta con l'evolversi delle esigenze, ha seguito di pari passo il progresso delle organizzazioni sociali e dell'evoluzione tecnica/tecnologica.

Rappresentazione che raramente indugia sulla bellezza di paesaggi, non punta a commuovere e intenerire, ci sono anche momenti di vero "horror". Bastante però a fornire fin troppe riflessioni in merito ai contenuti, cosa ancora più apprezzata vista la totale assenza di retorica. E' un mini-ciclo virtuoso quello a cui si assiste. C'è un bene primario scarso, le inevitabili guerre, c'è chi ha trovato alternative per procurarsi quel bene senza dover combattere con altri simili, la trasmissione della conoscenza tra individui e individui, l'accrescimento della qualità della vita complessiva. Non è questo, ripeto, un CICLO VIRTUOSO che sempre dovrebbe contraddistinguere la storia dell'umanità?

Già troppe parole scritte per un film "muto", tale lo è rispetto al linguaggio moderno.
Capolavoro notevolissimo per i tempi e ancora molto attuale, per qualità d'immagini, di trucco e di contenuti.
Visione obbligatoria.
Robydick

domenica 20 novembre 2011

La vera storia della monaca di Monza

10

Silenzio là in fondo! Qui si parla della Monaca di Monza, anzi, della "vera" storia della Monaca di Monza, come ci tiene a sottolineare il titolo matteiano. Sull'onda d'urto del successo di Boro "Interno di un Convento" (1978), ecco un bel conventuale fuori tempo massimo che segna l'incontro artistico/produttivo tra Bruno Mattei, qui come Stefan Oblowsky (tanto per non farsi mancare riferimenti a Borowczyc) e Claudio Fragasso (in sceneggiatura), sodalizio che durerà fino al 1989.

Appaltato dalla Stefano Film di Nicolò Pomilia e prodotto per conto della Cinemec di Arcangelo Picchi, "La Vera Storia della Monaca di Monza" offre allo spettatore quello che promette: suore in fregola, punizioni corporali, preti arrapati e congiure di palazzo con annessa atmosfera torbida e cimiteriale a imputridire il tutto. Non si può proprio parlare di erotismo gioioso e solare da queste parti. Niente a che vedere con "La Monaca di Monza" del "nostro" Prandino Visconti, per non parlare dell'epopea manzoniana, il parto di Mattei (che girò in concomitanza con "L'Altro Inferno") va dritto per la sua strada, fregandosene alla grande di ogni tipo di attendibilità storica, piazzando al centro del plot (o delle copule, mejo) la bellezza algida di Ulla Zora Keslerova alias Zora Kerowa nel ruolo di Virginia De Leyva, anche in nudo integrale, irretita dal piacione Gianpaolo Osio, un Mario Cutini da canile, però gran puttaniere e manipolatore che fa un po' quello che gli pare all'interno del convento di Santa Margherita (in realtà si girò a Roma, tra le locations anche Artena, nelle cantine del palazzo Borghese).
Grande squadra di attori che i catecumeni del Bis apprezzeranno senza meno, da Paolina Montenero, Paola Corazzi ("Le Beate Paole" diceva Mattei), Annie (K)Carol Edel (che ne ha fatte di cose in ambito bis de/genere, per fortuna nostra), Tom Felleghy, la bella e nudissima Leda Simonetti, nel ruolo della novizia Margherita, Giovanni Attanasio (prelevato di peso dagli EroSSvastica di Bruno), per non parlare della grande Franca Stoppi di "Buio Omega", presente pure ne "L'Altro Inferno" e di Franco Garofalo, nei panni di Don Paolo Arrigone, che è colui che riesce sempre a dare qualcosa in più alla platea, che sia un gesto, un'espressione, non c'è nulla da fare, Franco buca lo schermo e ruba la scena a tutti, sia in vestale sacra, sia in calzamaglia rossa da diavolo tentatore, sia in mezzo ai morti viventi caracollanti di "Virus". Per il resto, quando un film comincia con la scena della bella Virginia che prende i voti, alternata con immagini di cavalli che scopano (con tanto di membro equino sventolato sullo schermo) si capisce subito dove si andrà a parare, anche se non mancano inquadrature e sequenze riuscite che aggiungono quel qualcosa in più degno di essere ricordato, vedi la suorina che frusta con sommo piacere la compagna, la scena dello stupro di Virginia in chiesa o il ritrovamento del cadavere della madre superiora, divorata dai topi, che rimanda irresistibilmente a quello che si vedrà in "Rats - Notte di Terrore".

Ci manca eccome Bruno Mattei, siamo qui a fare (quasi) sempre gli stessi discorsi, che probabilmente hanno già rotto parecchio le palle, lo so, ma è solo per ribadire che un Colonnello del Bis come Bruno è difficile ristamparlo, ed è giusto ricordarlo sempre, non perchè abbia girato solo capolavori, il che non corrisponde a verità, ma perchè non si è mai fermato di fronte a niente, girando comunque e dovunque (anche cannibalici, W.I.P e pure "Zombie - The Beginning" e "Island of the Zombies" poco prima di morire). Però, dai, cosa si può dire ad uno che senza soldi si inventa una cosa come "Robowar" (1988), un mix atroce tra Robocop e Predator, con Reb Brown e Catherine Hickland? Solo il meglio possibile. Vostro Onore, non aggiungo altro. Consigliato.

Per il ruolo di Virginia, si pensò in un primo momento a Leonora Fani, che per problemi con l'agente dell'epoca non accettò. La scelta cadde così su Zora Kerow(v)a, già ne "Le Evase - Storia di Sesso e di Violenze" (1978) con la Carati, Marina Daunia e Ines Pellegrini."Lei ce la portarono...", disse Bruno ai nocturniani. Prodotto da Arcangelo Picchi. Fotografia di Giuseppe Bernardini. Montaggio di Liliana Serra. Musiche di Gianni Marchetti. Con Zora Kerowa, Mario Cutini, Franco Garofalo, Franca Stoppi, Paola Montenero, Paola Corazzi, Leda Simonetti, Giovanni Attanasio, Annie Karol Edel, Mario Novelli, Tom Felleghy, Ornella Picozzi.
Buona visione.

A proposito delle produzioni italiane d'epoca:
"La Monaca era stato appaltato dalla Stefano Film. Praticamente noi eravamo i produttori esecutivi. Ci doveva essere un utile sul budget e io proposi di investire quest'utile su un secondo film, che diventava tutto nostro al 100%. E quindi reinvestimmo l'utile su "L'Altro Inferno". Li abbiamo girati parallelamente. Quando si girano due film in uno, il risparmio è notevole" Bruno Mattei.
Gomarasca e Pulici, Nocturno Dossier N.45, "Il Sopravvissuto", aprile 2006.

Belushi