mercoledì 31 ottobre 2012

11·25 jiketsu no hi: Mishima Yukio to wakamono-tachi - 11.25: The Day He Chose His Own Fate

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In memoria di Koji Wakamatsu, scomparso tragicamente lo scorso 17/10 per i postumi di un brutto investimento stradale ad opera un taxi in una trafficata strada di Tokio, affronto con questa rece in suo omaggio il terzultimo splendido film da egli diretto e presentato lo scorso maggio al Festival di Cannes. Estremamente prolifico e dalla carriera cinquantennale e ipertrofica in tutti i generi di successo “popolari” o meno del cinema giapponese, anche produttivamente (tra i tanti produsse persino “L'Impero dei sensi” ['76]di Nagisa Oshima), e aveva presentato un altro film al Festival di Venezia, United Red Army, sull'Armata Rossa giapponese, gruppo del quale fece anche parte negli anni sessanta, oltre ad un terzo film ancora, in uscita a breve.

Il 25 novembre del 1970 avvenne un fatto che stupì ma anche inorridì il mondo intero. Un uomo si dette la morte all'interno del Quartier Generale di comando dell'esercito giapponese, a Tokio. Egli lasciò una lunga lista di incompiuti capi d'opera letterari e una controversia che non si è mai sopita. Quest'uomo si chiamava Yukio Mishima, uno dei romanzieri e dei letterati più celebri e rispettati del Giappone, ma anche internazionalmente. Assieme a quattro giovani allievi del suo ordine paramilitare , la Tatenokai, Mishima prese in ostaggio il comandante del quartier generale. Dopo, dalla terrazza dell'ufficio egli si rivolse ai soldati fatti riunire nella piazza d'armi, chiedendogli di aiutarlo a rovesciare il regime e restaurare il potere dell'Imperatore. Dopo che i soldati cominciarono a berciare e a ricoprirlo di lazzi e contumelie, prendendosi apertamente gioco di lui davanti ai giornalisti accorsi e alle telecamere della tv giapponese, egli interruppe il discorso, si ritirò nell'ufficio del comandante e commise seppuku, il suicidio rituale dei Samurai, offrendosi il ventre allo scorrere della lama, mentre si viene decapitati da uno dei propri servitori/uomini. Che cosa voleva esprimere o avrebbe voluto ottenere Mishima attraverso questo suo ultimo, definitivo atto, preparato e previsto nei minimi particolari fino a sacrificargli la propria vita?

Questo affascinante e con pochi eguali percorso di vita quale è stato quello di Yukio Mishima, anche nei suoi aspetti più cronachistici, legati all'ultimo scioccante atto della sua vita, che fu già portato sullo schermo in forma eccelsa da Paul Schrader alla regia; George Lucas e Francis Ford Coppola alla produzione, con “Mishima -A Life in Four Chapters” (Una Vita in Quattro capitoli) nel 1985. Wakamatsu si concentra maggiormente proprio sull'aspetto cronachistico degli ultimi giorni prima dell'azione, e da grande regista quale egli è sempre stato dona un impegno didattico all'opera senza mai scadere nei risaputi didascalismi di una storia così sensazionale e insondabile. Quel che ne è scaturito è un film pulsante nella ricostruzione di un Giappone ancestrale oramai quasi fantasma di sé nella mente e nei ricordi da bambino e ragazzo di Mishima, il quale si confronta con le realtà del Giappone contemporaneo. Oscillando pericolosamente verso le attrattive del “Beau Gèste” come fossimo quasi in un film di Carax presentato anch'egli contemporaneamente a Cannes.

Wakamatsu aveva 76 anni essendo nato nel 1936, ma conosceva bene il Giappone di prima della guerra e dell'immediato dopo il conflitto. Ancora quale colui che risorge dalle fumanti rovine provocate con le bombe atomiche, così bene illustrate da “Hiroshima Mon Amour” e “Una Tomba per le lucciole”, il terribile prezzo che il Giappone ha dovuto pagare per entrare davvero nella modernità “occidentale”. Alla fine degli anni sessanta il paese era ovviamente ancora occupato dagli Stati Uniti, che lo utilizzavano come importantissima, cruciale base militare verso e per le operazioni militari in Vietnam. Cineasta per tutta la sua vita molto politicizzato a sinistra, Konji Wakamatsu dall'alto dei suoi settantasei anni con questo che è divenuto il suo terzultimo film ritorna su un periodo in ebollizione in fondo poco affrontato dal cinema giapponese. Come detto, questa può essere tutto fuorché una biografia didattica di Yukio Mishima, nel giorno che, quale recita il titolo originale “11/25 The Day He Chose His Own Fate”, come avrebbe detto Racine, scelse il proprio destino. Wakamatsu dipinge una violenza costante d'una società esplorata in quei giorni con la massima virulenza che è la costante della cifra stilistica che gli è quasi sempre stata propria. Portandola sullo schermo, con le armi, gli scontri fisici di quegli anni tratti dalle immagini d'archivio che illustrano le manifestazioni contro la La Guerra in Vietnam e le repressioni poliziesche, sulle quali la conoscenza del regista, tra le tantissime cose della sua vita, anche anziano ex-affiliato alla Yakuza, ci restituisce uno sguardo e un impatto figlio di un'indignazione frontale al massimo grado. Pur non ricercandola, la potenza de “11/25 The Day Mishima Chose His Own Fate” si ritrova proprio grazie a questa sua grandezza. La guerra ha sempre fagocitato le opere dei più grandi realizzatori, che fosse sotterranea o meno, Mishima come Wakamatsu, che proprio tra le sue ultime opere ci aveva dato lo splendido “United Red Army” (2010) e anche il non da molto meno “Caterpillar” (2009). Anche per Mishima nella sua vita c'erano stati una moltitudine di conflitti, che fossero armati e pubblici o solamente privati, i quali hanno tessuto la tela del suo destino. Egli come Wakamatsu, di undici anni più giovane, visse l'occupazione americana, e subito dopo la minaccia sovietica durante la guerra fredda. Così come il forte trauma della Seconda Guerra mondiale e i ricordi del codice cavalleresco dell'epoca dei Samurai, il Bushido. Arrivati a questo punto la vita di Mishima si potrebbe anche riassumere così: uno scrittore adulato nel suo tempo, certo più all'estero che in patria, sempre tra coloro che potevano vincere il Nobel della letteratura per il Giappone, il quale salvo pochi intimi aveva cambiato bruscamente l'assetto della propria vita: Nostalgico de l'Ancien Régime Imperiale, egli si spinse fino a fondare grazie al suo indiscutibile ascendente e carisma culturale e personale, -e grazie al suo molto denaro-, delle “Forze di autodifesa del Giappone”, una sorta di milizia nazionalista dalle bellissime uniformi da cadetti di color ocra, disegnate personalmente sempre da lui. Prima ancora negli anni '50 incominciò ad avere una cura rigorosa del proprio corpo attraverso lo sport e la pesistica in palestra, egli divenne pure un autentico economista e fondò la “Società dei difensori”, un gruppuscolo di oltranzisti restauratori della gloria dell'Imperatore.

Riesumando la traiettoria della sua vita, Wakamatsu ha la competenza e il savoir-faire necessari come e più di Schrader 27 anni fa che comunque confezionò anch'egli un capolavoro, per darci un ritratto veramente soddisfacente nella moltitudine di aspetti evocati dalla vita di Mishima, come per le tracce nascoste. Wakamatsu utilizza il didatticismo solamente per rovesciarlo come arma di una messa in scena quanto mai potente, quasi al livello di quella di Schrader -Glass -Okada- Ogata -Tavoularis -Roos del 1985.

Egli dimostra contemporaneamente tutta l'assurda follia e la grandezza del comportamento dello scrittore. Non può che aderire al discorso che egli lascia scritto per il figlio, ben al contrario rispettandone profondamente il suo pudore e rivelandone una forma comunque di rispetto per l'impegno tanto gravoso e portato in fondo, fino alle estreme conseguenze, da Mishima.

11/25 The Day Mishima He Coice His Own Fate” gioca infatti sui paradossi, i contrasti. Il Giappone appare moderno, ma anche ribollente e non soltanto d'idee, ma di rivolte e risvegli politici. Mishima si ritrova tirato dentro per il suo amore verso l'autorità de l'Imperatore, come per l'interesse verso i giovani di sinistra, con i quali si ritrova in quanto vorrebbero cacciare l'occupante americano. Quando questi due poli si affrontano, lui vorrebbe con la calma trovare una posizione di lotta comune per entrambi gli schieramenti. Da scrittore e autore engagè egli diviene una sorta di guru. La sua milizia si formò attraverso dei Metodi militari tradizionali. Il film ritorna sovente sui medesimi ambienti. In una sequenza eminente, presente anche nel film di Schrader, egli si reca nel 1968 ad un dibattito all'Università di Tokio, -anche fra mille contestazioni e a rischio propriamente fisico-, con gli studenti di sinistra durante un'occupazione, senza riuscire a decidere alcunché possa portare ad un vero orientamento politico. L'occhio della cinepresa effettua un piano a schiaffo, mentre la cinepresa va a inquadrare rimpicciolendo l'inquadratura sulla cattedra, una piccola tavola rotonda che serve da punto di fuga dal resto del quadro dell'inquadratura. Questa è sempre la potenza del guru Mishima che si esprime, poiché l'attore Arata mostra una calma olimpica di fronte al viso del figlio, nella scena seguente. Wakamatsu va moltiplicando gli angoli e gli aspetti più selvaggi della personalità anche omoerotica del grande scrittore. Nelle saune, centri nevralgici di discussione, ove non possiamo non rammentare le immagini degli Yakuza dal corpo tatuato. Il cerimoniale, gli intrattenimenti con le sciabole o le katana, tutto ciò che ricorda i Samurai. Come dice, ci dice lo stesso Mishima, egli vorrebbe poter ricordare, sognare, una “Società di guerrieri con lo Scudo”, modellati su questi modelli cavallereschi dell'antico Giappone. Così fu, che i suoi luogotenenti gli giurarono fedeltà fino alla morte diventandone dei mercenari al servizio del suo onore (La scelta di destino che viene invocata già dal titolo), rivelando la devozione totale che non potrà passare con la morte dello scrittore, ma devota ad una concezione antica dell'onore giapponese.

Questi gesti e segni rispondono alla “beltà del gesto”, presente in un altro straordinario film presentato a Cannes, e che ho già citato sopra, “Holy Motors” di Leos Carax, per la stessa devozione dei personaggi interpretati dagli attori per il Maestro Carax, i quali si fanno scorrere addosso qualunque cosa possa comunque essere positiva poiché risulti essere per l'illusione del cinema.

Con Wakamatsu, il gesto ci prepara a nefasti azioni. I soldati ripetono i loro esercizi con le sciabole del Kendo, mentre al contempo e all'inverso le riverenze nei confronti dell'autorità si moltiplicano e tutto che qui si annuncia è la distruzione. Nei confronti delle bottiglie con cocktail da Molotov, per una ribellione all'antitesi, Mishima e suoi sbirri rispondono attraverso uno stoicismo di matrice oramai arcaica. La logorrea, arma prediletta di un autore di libri ma anche attore come Mishima, diventa nel momento della massima importanza figlia inutile per la costruzione di un mito che oramai non potrà assolutamente evitarne la sua caduta, tragica ma anche venata onustamente di ridicolo. Questo perchè le parole che venivano così sonoramente disattese, parendo ai più senza senso, nella magnifica sequenza del monologo ai soldati, diventano fattore scatenante della scena nella quale essenzialmente e in senso letterale, Mishima prende in mano il suo destino. Questo, attraverso il suo ultimo gesto, con il quale lui e l'allievo -”figlio” prediletto che poi si suicidò assieme a lui, (ri) trovano assieme sé stessi in una tradizione, un punto tale della pellicola che ci mostra la sua emozionante sincerità, tale che pare di poter credere che lui stesso abbia messo in scena la sua vita, così come quella dei protagonisti del suo ultimo romanzo -capolavoro, “Cavalli in Fuga”, pubblicato nel 1969. Il figlio di Mishima intanto diventa un personaggio proprio del romanzo sulla vita del padre. La raffinazione e la violenza estrema infine si ottundono attraverso l'essenza che riesce a profondere in loro questo film appassionante, e appassionato. Egli potrà apparire forse “sovraparlato”, di sguardo accademico in alcuni passaggi, ma è comunque un film che permetterà a chiunque ne sia abbastanza versato, di arrivare davvero ad entrare sotto forma di una illustrazione anche lineare, in un destino al contempo e nella stessa volta magnifico e patetico

Festival di Cannes Anno 2012 Nominato al Premio Certain Regard a Koji Wakamatsu.

Napoleone Wilson

martedì 30 ottobre 2012

On the road

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Da wiki: "... adattamento del romanzo di Jack Kerouac, Sulla strada (On the Road). Protagonisti del film sono Sam Riley e Garrett Hedlund, che interpretano rispettivamente Sal Paradise e Dean Moriarty. La storia si basa sugli anni che Kerouac trascorse viaggiando attraverso gli Stati Uniti con il suo amico Neal Cassady e altri personaggi che sarebbero diventate figure di spicco della Beat Generation, tra cui William S. Burroughs e Allen Ginsberg. 
Un viaggio nell'America del dopoguerra al ritmo della musica jazz, alla continua ricerca di un nuovo stile di vita, puro e folle. Sal Paradise e Dean Moriarty, fraterni amici, intraprendono un lunghissimo viaggio per gli Stati Uniti da est a ovest. Senza soldi, senza meta, percorrono le strade vivendo di quello che trovano, incontrando le più stravaganti e folli persone. Tra amori, orge, sbronze, amicizie e rancori questa esperienza stupisce ed emoziona, facendo riscoprire la bellezza della semplicità e della spensieratezza. Solo vita selvaggia e pura."

Purtroppo, nel senso dell'obbiettività di giudizio, chi scrive non ama per nulla Jack Kerouac. Provai più volte a leggere il romanzo ma niente da fare, quello stile non mi andava giù e di quelle storie non me fregava niente. Ben altra opinione ho di William S. Burroughs e del suo Naked Lunch dal quale David Cronenberg ha tirato fuori un film anch'esso capolavoro. Diamo atto a Kerouac perlomeno di averci permesso di leggere quel romanzo, ché senza di lui Burroughs probabilmente non l'avrebbe mai pubblicato.

Dobbiamo sempre a Kerouac riconoscere di aver coniato, proprio nel titolo del suo libro, una locuzione che è diventata anche simbolo di una generazione e identificativa spesso di opere sia letterarie che cinematografiche. Allora ci ho provato col film e devo dire che invece, a differenza del romanzo, tutto sommato è andato liscio fino alla fine, senza farmi gridare dalla gioia ma anche senza annoiarmi. Le storie dei protagonisti in sé continuano a dirmi poco, in fondo sono vite inutili buttate nel cesso e tirando forte la catena, ma c'è uno svago, una voglia d'evasione, di rompere gli schemi che può essere positivamente contagiosa.

Bella la qualità di riprese e fotografia, sgranata ad anticare e inseppiata come le foto ricordo dei nonni, ma quello che a me ha dato veramente godimento è stato sentire tanto jazz di quegli anni, quel Be-Bop ad alta frequenza che avrebbe fatto scatenare anche un bradipo con l'encefalite letargica. Ah!, che musica che era quella, che periodo è stato e come contaminava in un solo dharma bianchi e neri indifferentemente! C'era tutto in quella frenesia, protesta e voglia di gioire, si reagiva al dolore con la risata che seppellisce.

No, non è un ritratto dell'America di quegli anni secondo me. E' il ritratto di una gioventù che praticava una sorta di "nichilismo di frontiera", e basta. Non riesco a dargli importanza più di questo. Il film è comunque gradevole, diciamo anche interessante per certi aspetti, e quando i protagonisti entrano in un locale, quando sgranano gli occhi solo a nominare Duke Ellington, be', quello è il momento che li sgranerete anche voi.

Nè Best né Worst, diciamo un "normale" MoviesOnTheatres che si può ben guardare.
Robydick

Hope Springs - Il matrimonio che vorrei

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Un po' di trama da wiki: "Kay e Arnold Soames sono una coppia sposata da lungo tempo e nonostante il passare degli anni sono ancora innamorati e reciprocamente devoti e fedeli. Tuttavia Kay si rende conto che la passione tra i due non è più quella di un tempo, così, quando sente parlare molto bene di un esperto di relazioni sentimentali e sessuali, il dr. Bernie Fields, cerca di convincere lo scettico e abitudinario marito ad intraprendere una terapia volta a trovare la scintilla che riaccenda la fiamma nel loro rapporto."

Mi son fatto attirare dalla presenza di due miti per me, Meryl Streep e Tommy Lee Jones, ho pensato che anche se il film era vietato ai minori d'insulina la loro presenza in qualche modo lo avrebbe reso degno di una visione in leggerezza che ogni tanto mi garba, e invece... chissà se son mai caduti così in basso questi grandi attori.

Volendo si poteva speziare bene. Il sesso degli anziani è un po' come quello degli angeli, dei bambini. Esiste ma guai a parlarne con sincerità. Sempre a menare il torrone con questo "amore", la pillola che deve rimbambire. Le sedute di psicanalisi sono veramente ridicole. Freud? Groddeck? ma figuriamoci, sembra di parlare con un prete al confessionale. Adesso, non è che ce l'ho su coi "romanticismi", solo che porca pupazza, se mi fai vedere una seduta psicanalitica di coppia, almeno che sia realistica, almeno un minimo!

Parlato fin troppo di 'sta roba.
Monnezza, perlomeno riciclabile nell'umido.
Robydick

lunedì 29 ottobre 2012

B-Movie Festival, 14-18 novembre 2012, Palazzo Morando a Milano

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L’Associazione Aftersix e il Comune di Milano presentano

B-Movie Festival - Milano e il poliziottesco anni ‘70”
la prima rassegna cinematografica interamente dedicata ai B-movies di genere poliziottesco, ambientati nella Milano degli anni ‘70.

Il genere poliziottesco nasce sulla scia dei generi poliziesco e noir, di cui riprende intreccio, scene d’azione e violenza esplicita, accentuandoli all’interno di una narrazione fortemente ispirata dai fatti di cronaca dell’epoca: sparatorie, rapine, omicidi rendono il poliziottesco il filone popolare per eccellenza nel cinema italiano degli anni Settanta.

Il Festival si svolgerà da mercoledì 14 Novembre a domenica 18 Novembre 2012 presso Palazzo Morando, location d’eccezione che apre le sue porte ad un evento assolutamente originale e nuovo all’interno del panorama cinefilo milanese. L’obiettivo principe dell’evento è ridare il giusto spazio ad una parte importante del patrimonio cinematografico del territorio, spesso dimenticata o bistrattata: attraverso i film si scoprirà una Milano piena di sfumature e sfaccettature, ben diversa dalla città odierna, in piena trasformazione. Una città fatta di storie e di Storia, di vita e di morte, di lotta tra criminalità e giustizia.

Il programma del Festival propone un percorso che punta a far emergere tutto il valore dei film selezionati, riscoprendone anche sfumature e retroscena attraverso le voci di alcuni dei protagonisti che hanno contribuito alla realizzazione dei lungometraggi.

Ciascuna proiezione sarà infatti accompagnata da un incontro in cui registi, attori, sceneggiatori, docenti universitari, scrittori e giornalisti dialogheranno con il pubblico, raccontando cosa è stato il poliziottesco e cosa ha rappresentato per la storia del cinema, per la città di Milano, per la vita artistica dei suoi protagonisti e per la vita sociale del paese.

L’ingresso al Festival sarà libero e gratuito (a meno del costo della tessera associativa valida per tutta la manifestazione, pari a € 3,00).


PRIMA EDIZIONE

La rassegna nasce da un’idea di Monica Papagna, socio fondatore dell’associazione Aftersix che ha coordinato ed organizzato il festival insieme a Elena Cappelletti. Il progetto si inserisce all’interno delle attività istituzionali dell’associazione, intenta a sviluppare e creare momenti di condivisione del patrimonio culturale, in tutte le sue forme.


I PARTNER

Il Festival è sostenuto a livello istituzionale dal Comune di Milano, Settore Spettacolo, Moda, Design.

Si ringrazia Mediaset per la gentile concessione del film “Mark il poliziotto”.

L'evento ospita nelle giornate di sabato 17 e domenica 18 Novembre incontri con gli autori di noir, nell'ambito di BookCityMilano, un progetto a favore della lettura e del libro, che il B-Movie Festival sostiene.

Bloodbuster e Fulvio Fulvi hanno collaborato alla supervisione del programma. Bloodbuster ha reso possibile la mostra di locandine a tema che si svolgerà nell’arco della rassegna.

Media Partner dell’evento è Paper Street.


I FILM

Cinque lungometraggi e due documentari saranno proiettati durante la rassegna.

Ad inaugurare la kermesse è Mark il poliziotto, film del 1975 diretto da Stelvio Massi e con protagonista Franco Gasparri. Sergio Martino presenterà il suo Milano trema: la polizia vuole giustizia, del 1973. Banditi a Milano di Carlo Lizzani consentirà di aprire lo sguardo sul decennio Sessanta in cui affondano le radici del poliziottesco. Sabato è la volta di Umberto Lenzi con Milano odia: la polizia non può sparare del 1974, mentre la chiusura di domenica è affidata a Milano calibro 9 del regista Fernando Di Leo.

Dedicato alla vita artistica e privata dell’attore Franco Gasparri, protagonista di “Mark il poliziotto”, Un volto tra la folla sarà proiettato durante la prima serata e presentato dalla regista Stella Gasparri.

La proiezione di “Milano odia: la polizia non può sparare” sarà accompagnata dal documentario Italia 70 - Il cinema a mano armata, diretto da Max Croci in collaborazione con Steve Della Casa.


GLI OSPITI

Max Croci, regista.

Stella Gasparri, figlia dell’attore Franco Gasparri, attrice e doppiatrice.

Umberto Lenzi, regista, sceneggiatore e scrittore.

Danilo Massi, figlio di Stelvio Massi, regista e sceneggiatore.

Sergio Martino, regista.


B-Movie Festival - Milano e il poliziottesco anni 70

Inaugurazione: Mercoledì 14 Novembre Ore 18.30 14 / 15 / 16 Novembre : dalle ore 18.30 alle ore 23.30 17 Novembre: dalle ore 16.30 alle ore 23.30
18 Novembre: dalle ore 10.30 alle ore 23.30
Ingresso libero (tessera associativa valida per tutta la manifestazione € 3,00)

Palazzo Morando
Via Sant'Andrea, 6 - 20121 Milano


Aftersix Organizzazione e coordinamento:
Elena Cappelletti: +39 333 95 69 858, elena@bmoviefestival.it
Monica Papagna: +33 340 288 66 50, monica@bmoviefestival.it

Babylon A.D.

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Se è vero che la critica cinematografica non ha mai cambiato né in meglio né in peggio la storia delle pellicole fino ad ora prodotte, collocandosi essa ai margini di ogni trattazione, procedimento, revisione, è anche vero, però, che la settima arte ha da sempre annoverato, tra le sue bobine di materiale stoccato e immagazzinato, una serie di teoremi, trasformatisi nel tempo in principi logici e pratici privi di un'esigenza dimostrativa ed empirica. Il più importante, ai fini dell'argomento quivi discusso, seppur meno noto a chi non è strettamente del mestiere (e cioè coloro che, fortuna o sfortuna loro, non hanno mai dovuto dare un esame di storiografia underground) è il vecchio adagio di Jonas Mekas, regista e indirettamente critico e teorico, ovvero non si possono trapiantare gli stili come fagioli. Intercalare che, si consenta le jeu des mots botanico, cade proprio a fagiolo perché, appunto, speculazione assiomatica quanto mai azzeccata di un vezzo ormai saldamente ancorato alla cultura americana: Mathieu Kassovitz, regista francese de L'odio, l'ha capito con tardiva cognizione, e nel tentativo un po' casereccio di cambiare le carte in tavola ai distributori della Fox, disponibili al dialogo quanto un feticcio Zuni a fumarsi il calumet della pace, s'è presto rassegnato a mediare tra le due (complementari) necessità: artistiche le sue, economiche quelle dei perfidi aborigeni incravattati. Non sappiamo come siano andate di preciso le cose, se Kassovitz sia rimasto abbarbicato al timone mentre l'equipaggio s'affollava sulle scialuppe sviolinando nenie come nel film di Cameron, o se invece, facendo yoga e respirazione addominale, abbia mantenuto salda la mano su quel poco che ancora poteva controllare. Fatto sta che se anche il baldanzoso parigino ha poi definito la sua creatura “un pessimo episodio di 24”, Babylon A.D., ciambella senza buco e con lo zucchero a velo un po' gelatinoso, è a suo modo un piccolo capolavoro di genialità tanto contingente quanto involontaria, determinata più che dall'inclinazione dal contesto, e a esso puntualmente sussumibile.

Siamo in un futuro a noi non troppo distante (non vi sono definite coordinate cronologiche, tranne un unico riferimento a metà film, il 2017, anno dell'estinzione della tigre bianca, qui clonata in alcuni esemplari circensi, il che ci fa supporre che la pellicola sia ambientata non tantissimi anni più in là); in effetti è un futuro un po' picchiatello, quello di Kassovitz e dei suoi sceneggiatori (Éric Besnard, regista di Cash, Joseph Simas, diciamo pure esordiente al lungometraggio, nonché Maurice D'Antec: è da un suo romanzo, Babylon Babies, che il film è tratto): le automobili sono cimeli della nostra epoca, l'architettura bene o male è sempre quella, le armi anche, e se non fosse per una cartina stradale che funge da navigatore satellitare touch screen (davvero innovativo palpeggiare questa carta pieghettata ma user friendly, e vedere città, tracciati e percorsi aggiornarsi come per magia al tocco delle dita) parrebbe una pellicola dei giorni nostri. L'ouverture balcanica sembra quella di un film bellico, con il mercenario Toorop (Vin Diesel) in tenuta mimetica, mitragliatore in mano e vettovagliamento in spalla, che nel mezzo di qualche non meglio specificato conflitto militare serbo, viene ingaggiato dal pappone russo Gorsky (un Gérard Depardieu dal setto nasale siliconato) per scortare in America una bella donzella cresciuta fino ad allora in monastero: Aurora (Mélanie Thierry). Lui non sa perché la debba traghettare nel paese dello zio Sam, ma nonostabnte il viscido Gorsky, ciccione bivaccante nella sua lussuosa limousine abitabile (incredibilmente simile a quella di Cosmopolis), non dia né garanzia né fiducia, l'affare frutta troppi quattrini perché le palle quadre di Toorop ci rinuncino. Così il nostro accetta di buona lena (anche perché in questo modo otterrà un passaporto falso grazie al quale rimettere piede liberamente negli USA), non prima però di aver sistemato per le feste un “collega” sulla cui testa pendeva un contenzioso di vecchia data (e al quale Gorsky aveva affidato l'incarico di rintracciare il nostro protagonista): Toorop, entità muscolare quasi mitologica, se ne sta seduto bello paciarotto nella sua cucina, quando l'appartamento viene invaso da membri di reparti speciali armati fino ai denti, e tutti col mirino puntato sulla di lui persona. Ovviamente il ricercato non manifesta il minimo segno di alterazione, e solo quando l'oggetto delle sue attenzioni, Karl (Radek Bruna), si identifica portandosi innanzi al suo occipite rasato, Toorop lo disarma e lo giustizia col discorsetto degno di un dialoghista della Fox, che subito ci rende felici dell'anzidetto aspro dissidio da dietro le quinte: “Karl, is that you? I thought you were in Sudan killing babies; remember the last time we met? I told you if you ever point that gun at me again, I'd kill you” e subito dopo, “You need two things to live in this business: your balls and your word. You don't have either. Know the difference between you and me, Karl? I still got both!”).

Il Vin Diesel di questo film è un concentrato ormonale di tamarraggine a stelle e strisce, una specie di prodotto della mascolinità cinematografica che tutte le donne sognano nelle loro più invereconde fantasie di stupro, e tutti gli uomini, con irrimediabile fatalità, finiscono per invidiare. La sua figura è posta aldilà della morale, e se anche lo spettatore volesse rintracciarvi dei parametri etici, essi si collocherebbero nella robusta planimetria dell'individualismo al suo livello filosoficamente più ineccepibile: le polarità concettuali, bene e male, esistono nella loro fisicità nella misura in cui arrecano danno o beneficio a Toorop, il quale, smorfia incurvata, muscoli esibiti con sfacciata malagrazia, un'arma carica sempre a portata di mano, è uno dei pochi (nella Serbia dell'immediato futuro, come nel mondo intero) a dire ancora pane al pane e vino al vino. Se gli vai a genio, buon per te, ma se gli fai uno sgarbo, ti ritrovi a sorridere con la gola senza che la tua mente abbia il tempo necessario a recepire il messaggio. La scena in cui si ritrova a “fare la conoscenza” di Aurora e della sua custode, la monaca Sister Rebeka (Michelle Yeoh) è da manuale del cinefilo buzzurro, immancabile in ogni (contro)videoteca che si rispetti: “I just want to bring three simple rules to your attention, before we start our journey” spiega la Yeoh, “wherever she goes, I go, that's rule number one. Rule number two: the less contact she has with the outside world, the better”. “Ok, shit, what's your third rule?” “No foul language. Do we have an agreement?” A quel punto Vin Diesel fa un sorriso da finto-ritardato che la sa più lunga di quanto vorrebbe far credere, e le risponde: “You listen to my one and only rule: don't fuck with me, or I'll leave you standing in the middle of nowhere, with nothing but your ass to sell to get back here. Do we have an agreement?” Quante donne meritano una siffatta risposta, e quante effettivamente la ricevono?

Il viaggio che dovrà consegnare le due signore alle altrimenti ignote mani di qualche americano (qualche magnaccia, pensa Toorop, conoscendo d'altronde il losco figuro che l'ha assunto) comincia a dipanarsi per una Russia livida e immiserita da anni di guerriglie e vessazioni, in treni bestiame (comunque messi meglio di Trenitalia) che si ramificano tra mercati del pesce, incontri selvaggi di wrestling all'ultimo morso e sperduti avamposti lunari tra picchi e ghiacci siberiani. Quello che in origine avrebbe dovuto essere una semplice peregrinazione di sola andata si trasforma presto in un'odissea inenarrabile, con bande armate interessate a mettere le mani sulla giovane Aurora, sparatorie, pestaggi e via discorrendo. I tre saranno persino costretti a inabissarsi come clandestini a Lampedusa, questa volta però lungo le frastagliate distese ghiacciate poste sullo stretto di Bering, per poi riemergere in Alaska, territorio americano. E lì combattere droni mitraglianti posti a mo' di guardia di confine.


Fino a questo punto, Babylon A.D. è in grado di sostenere il ritmo serrato delle sue premesse, sarà per lo scenario balcanico ricostruito con gusto spiccatamente europeo per il particolare, sarà per la fattibilità dei suoi stralunati personaggi, e soprattutto per quella di vicende militari e sociali così simili alle attuali che spesso viene da chiedersi se si tratti di un film (di che genere, poi?) o della narratizzazione di quanto siamo soliti seguire al telegiornale. Anzi, si potrebbe essere più audaci come metro di paragone, e scomodare persino un che di fiabesco che, nelle notti stellate delle ex-repubbliche socialiste, nelle vicende di giganti (quasi) buoni, ragazzine indifese e sagge monache zen, getta sulle relative peripezie una nube di epicità moderna. Kassovitz ha l'indiscutibile merito di avvincere le nostre difese, di farcele abbassare per inondarci con un zampillo di acida violenza, per trascinarci nell'impeto di una regia barocca e assolutamente compiaciuta, fatta di denaro sonante, quello di Hollywood, la grande babilonia del titolo, con i suoi lustrini, i tappeti rossi e le rutilanti luci di posizione, nonché di bruta forza muscolare. Peccato però che al termine di questo viaggio intercontinentale, proprio quando lo spettatore tenta di terminare il puzzle, ricucendo assieme tracce fino a quel momento più disseminate che disegnate, la sceneggiatura non conclude un bel niente, lasciando le intuizioni libere di perdersi in un dedalo interpretativo e le più astute finezze risolversi in un pastrocchio curiosamente scanzonato. Le qualità registiche, appena decantate a dispetto della macchina americana e delle sue (spesso aberranti) logiche produttive, galleggiano alla deriva, e il castello a stratificazioni che prima ne puntellava l'organigramma implode su se stesso per mancanza di serietà processuale: una trave casca in testa al nostro Toorop, che tolta la sicura, spara per inerzia e segue la gravità galileiana, una colonna portante si sgretola tra personaggi d'improvviso fattisi ridicoli e, come un effetto domino, implica nella bolgia gli archi rampanti che con delicatezza contornavano le aperture a bifora nei soppalchi. Tutto crolla, si sfascia, sprofonda nel magma lutulento dell'improvvisazione e dell'incompetenza. Crisi di panico tra gli sceneggiatori, minacce di suicidio in cabina di regia, rischio di querele nelle sale gremite di spettatori un po' costipati da cotanta cafonaggine di modi.

Toorop porta la ragazza in un albergo, un medico la visita per monitorarne le condizioni di salute, quindi informa i garanti che presto una limousine verrà a prenderla in custodia. A quel punto la missione di Toorop è finita, tra i due potrebbe (e si sottolinea potrebbe) nascere qualcosa (c'è un momento in cui quasi si stanno per baciare, subito interrotti da Sister Rebeka, appena rincasata), ma ovviamente la parentesi resta tale e non capiamo bene perché. Quindi Toorop accompagna alla macchina Aurora, lei non vuole andare con quella gente, Toorop fa il diavolo a quattro e decide di stare dalla parte presumibilmente dei buoni, cominciando una bella sparatoria nel mezzo della strada. I proiettili e le bombe paiono però un diversivo narrativo, giusto un concentrato alcolico ad alta gradazione esplosiva per indirizzare l'ormai calata concentrazione in un qualche luogo che non sia l'ufficio reclami della biglietteria; infatti Toorop viene colpito da un missile (!), e finisce per forza di cose ammazzato. L'aspetto inquietante è che il suo corpo si conserva alla perfezione (non si disintegra, non esplode, né si graffia), e una volta portato all'obitorio, clinicamente deceduto da ore, l'uomo resuscita in perfetta forma. Che vorrà mai dire? Il mistero permane, nulla spiega niente e niente viene fatto per aggiungere qualcosa. Sembra che Aurora, e questa era un'intuizione davvero interessante, fosse reclamata da una potentissima organizzazione americana teocon (ovvero cristiani conservatori liberali, americanisti, interventisti, attivisti e chi più ne ha più ne scriva), capitanata proprio da una Charlotte Rempling in tailleur bianco che non so perché ricorda la Merkel (anche se il modello forse dovrebbe richiamare più la Tatcher, questione di punti di vista). Anzi, senza spoilerare troppo (pur considerando che lo sgangherato copione di Kassovitz & Co, anziché tirare le fila del discorso, ne allenta le falde già sbottonate), è necessario precisare che Aurora è una creazione genetica dell'ex-marito della simil-Merkel, il dottor Newton (Joel Kirby), creduto morto, quindi resuscitato pure lui per quanto ridotto come Patricia Arquette in Crash e costretto a condurre i suoi esperimenti in gran segreto. La Merkel vuole Aurora perché è vergine ed è incinta, quindi è un ottimo miracolo da esibire ai numerosissimi seguaci della setta di cui è rappresentante e che negli ultimi tempi sta calando di audience (qui c'è una scena divertentissima, quando Sister Rebeka torna in albergo, sorprende Vin Diesel e la ragazzetta in atteggiamenti decisamente intimi, e subito dopo viene informata che la sua protetta è incinta. Lei è sotto choc, e con lo sguardo nel vuoto, esclama: “It's not possibile, I watched over you all your life; no one's ever touched you”, e la giovinetta visitata nottetempo dallo Spirito Santo risponde: “And nobody has!” A quel punto abbiamo una carrellata su Vin Diesel, che esprime massimo disappunto con una faccia da cane bastonato: “Shit!” Si spera che un battibecco da tragedia famigliare riscaldi un po' gli animi, gettando il sospetto addosso all'uno e indirizzando la diffidenza alla controparte, invece l'altrimenti morigerata Sister Rebeka, anima pia, non sospetta del voglioso autista nemmeno per un istante, preferendo lasciarsi suggestionare dai fantasiosi racconti di immacolate gravidanze. Succede una volta ogni duemila anni, eppur succede).

Purtroppo il senso della pellicola cade dalla padella alla brace, perché i rapporti tra i numerosi personaggi non si saldano né si risolvono se non in minima parte e solo secondo soluzioni di comodo: per esempio, il bavoso Gorsky ricompare un istante in video-collegamento dalla sua automobile roulotte poco prima che la Rampling lo faccia esplodere (ma perché? Forse per giustificare il “bitch!” che si porterà nella tomba?); la stessa Rampling, che pure ci saremmo aspettati gettata sul ring con Vin Diesel in un duello decisivo, scompare di punto in bianco; la sorte di Aurora non la si svela per pietà, come si tace su quella di Toorop. Basti dire che Babylon A.D. parte quasi come film d'autore, si sviluppa secondo i dettami del buon cinema statunitense, e si conclude come un caravanserraglio di fuochi d'artificio rubati da una fabbrica abusiva del salernitano: la baruffa è garantita, ma gli unici che si diletteranno degli scoppiettii saranno i boccaloni da piano bar, sempre propensi a ingozzarsi anziché assaggiare. Alla fine della sua visione, l'amaro in bocca è soltanto una delle numerose sensazioni che, senza ordine apparente, si amalgamano in una contorsione culinaria a base di effluvi deviati, stranezze bruciacchiate lungo la scorza ma croccanti nel ripieno, sbuffi di odorifera bellezza capaci di sintetizzare tanto le fragranze burrascose delle bettole quanto i profumini deliziosi dell'haute cuisine américaine. È come se gli impavidi screzi tra regista, produttori e distributori avessero ben occultato il sapore di marcio oltre la crema, e che in qualche modo, dalla ribollente fucina di talenti creativi, fosse uscita una qualche panna colloidale, irsuta di un rivestimento ammuffito, in grado però di aromatizzare senza stridere, di ripugnare ma in modo seducente e a tratti aggraziato.

Ne resterete inappagati, parola del dottor Marchetti, ma la delusione vi strapperà una risata dalla bocca e una scoreggia dal culo, la prima per giustificare la stravaganza di una sceneggiatura (e di una regia) che piantano baracca e burattini per bighellonare in un misterioso altrove, la seconda per favorire una digestione che, tutto sommato, i buchi della fame li sa ancora tappare.
Marco Marchetti

sabato 27 ottobre 2012

Planet Terror

11

Planet Terror, portata principale di un piatto tex mex rigorosamente di confine, condivide con il suo padre putativo, Deathproof (al quale avrebbe dovuto accompagnarsi in un unico drive-in double feature show di oltre tre ore) la medesima qualità cinematografica, soltanto di intensità altrettanto rigorosamente opposta: sarà perché le più imperscrutabili connessioni del fato stabiliscono, a cadenza più o meno regolare, che gli epigoni superino in qualità e prestigio i maestri (benché al “nostrano” Quentin spetti più il dubbio onore del secondo termine che la gloria imperitura del primo), ma se di sicuro Deathproof era un arzigogolo onanista, intriso di un amour cinéphilique gettato in pasto ai cani per arrotondare il metraggio e far quadrare i conti, Planet Terror è invece un'esplosione canterina e parecchio maleducata di sofisticata sfacciataggine. Mentre il regista del Tennessee sgomitava cialtronescamente nel tripudio di un pubblico “d'essai”, che riusciva a coccolarsi la sua defecatio pur di non inimicarsi l'ideatore di Pulp Fiction, il texano Rodriguez si dava un gran daffare a montare un'impalcatura al vetriolo composta da tutto ciò che ogni seguace del “tarantinismo ortodosso” si sarebbe aspettato da un film di Tarantino; ma che invece ha poi ritrovato, con una compiaciuta strizzatina d'occhi e di cojones, nel baldo seguace.

Planet Terror inizia con uno scambio “equo e solidale” lungo la frontiera, soldi in cambio di armi di distruzione di massa, che però finisce in apocalisse causa problemi di public relations tra il brillante biochimico Abby (Naveen Andrews), un rustico ispanico che si diletta a sgusciare le gonadi dei malcapitati dai loro involucri epidermici altrimenti detti testicoli, e il tenente Muldoon (Bruce Willis); il quale, capeggiando un piccolo esercito di sedicenti ribelli guerrafondai, tra cui, tra i faccendieri, un sessuomane Quentin Tarantino (si vocifera onnipresente sul set), è stato irrimediabilmente contaminato dalle fuoriuscite gassose della summenzionata sostanza virale, nell'ambiente nota come DC-2. Detto virus, che trasmuta le vittime in zombi, infetta presto l'inerme popolazione della zona, fino a quando, nel generale pandemonio epidemico a base di carne triturata, gente resuscitata, budella versate e arti amputati alla bisogna, le storie ordinariamente folli di personaggi ordinariamente insani si intrecciano tra loro trasformando la sceneggiatura in un campo di battaglia per intuizioni di totale demenza. C'è per esempio la dottoressa Dakota Block (Marley Shelton, la dame en rouge di Sin City), che occultando una tresca clandestina a base di amori saffici (beneficiaria la conturbante Stacey Ferguson, destinata quindi a divina punizione per aver violato la sacralità del talamo), rischia le botte più che il divorzio dall'integerrimo marito (Josh Brolin). I due medici fanno entrambi il turno di notte all'ospedale locale, lei con una bella giarrettiera orlata di siringhe psicotrope a impugnatura sagomata, lui che si ritrova per le mani, prima di rinchiudere la consorte nell'armadio sotto l'effetto di anestetici, un caso da manuale del bizzarro, con questo tizio pustoloso che pian piano si muta in zombi cannibale. La diagnosi sarebbe asportargli il braccio onde evitare il propagarsi della cancrena, ma quando l'insolente poveraccio, subodorata la minaccia, inverte i ruoli e sega gli arti del chirurgo addetto alla sutura, il dottor Block è troppo impegnato a enumerare cadaveri, nel frattempo stipati nei corridoi del nosocomio per penuria di spazio, per accorgersi del fattaccio. È a questo punto che viene ricoverata la bella Cherry (Rose McGowan, tra l'altro fidanzata del regista), un'ex strip dancer che, licenziatasi, si fa dare un passaggio dal moroso El Wray (Freddy Rodriguez, a quanto pare il cognome è un semplice caso di omonimia) per poi capitombolare incidentata ai margini della carreggiata e farsi sbranare la gamba da un branco di mostri assatanati. Fortuna che El Wray, ragazzaccio donne e motori più pratico di un medico del pronto intervento, le sostituisce la zampa con il supporto in legno di un tavolo, consentendole di scappare quando il numero dei morti resuscitati supera di gran lunga quello dei vivi.


Rodriguez non ci risparmia nulla, dalle ulcerazioni pustolose palatali che scoppiettano come il grasso bituminoso di una grigliata, alle dita da auguri affamati che, ruspando fra viscere e toraci scoperchiati, sbobinano metri di intestina portandosele alla bocca e sminuzzandone gli scampoli tra borbotti bavosi al sapor di catarro. Tutto è squadernato in bella mostra, in un gioco al ribasso dove vince chi vomita con maggior enfasi e scoreggia con più fine scortesia. Ce n'è davvero per tutti i gusti, dalle facce limacciose dei mutanti, un pastrocchio vischioso in bilico tra un piatto di spaghetti all'amatriciana e una secchiata di rigurgito ai frutti di mare, alle deformità polpettose di corpi rigonfi di materiale infetto e sieroso, che secernendo purulenze assortite, omaggiano e sbugiardano tutta la lezione cinematografica da Brian Yuzna e Stuart Gordon in poi. La coralità di Rodriguez, come in Machete (curiosamente qui citato in apertura, a mo' di fake trailer), raggiunge solo in chiusura la sua epitome, momento di sublime idiozia in cui tutti questi beceri individui senza arte né parte, poliziotti e puttane, ballerine e papponi, gerenti di rosticcerie messicane, soldati e spacciatori, intavolano la resa dei conti tra bombe, esplosioni, massacri senza alcun perché tranne l'esigenza di concludere e conchiudere in qualche modo il farneticante copione. Quando Tarantino tenta di stuprare la McGowan (da psico-Oscar il dialogo: “I'm going to get my dick wet”; “She's got one leg”; “Easier Access”; “You got a point”), andando prima incontro a una degenerazione dei tessuti che lo rende uno slime venereo di somiglianza vagamente pulpesca, quindi finendo impalato dalla gamba di lei, allora capisci che c'è una strategia sottile ma palese. E che questa strategia, fregandosene di ogni rimando logico, di connessioni decodificabili o di qualsiasi altra congiuntura semantica sufficientemente comprensibile, occhieggia alla mattanza generale, al di là di una causa o motivazione specifiche. Così, soltanto come sfida al buongusto. Il contorno pepato di citazioni colte insaporisce certo la pietanza (ma nessuno s'è accorto che l'attacco-zombi sul ponte è la ricostruzione manifesta dell'altrettanto simile carneficina in Zombi 3?), eppure ciò che resta, alla fine, è un tripudio torcibudella più inebriante del mezcal al gusano del maguey (la tequila col verme, giacché siamo in tema, e anche questa scrupolosamente messicana). Nel momento in cui la bella danseuse sostituisce la gamba di legno con una potente mitragliatrice, sparando a tutti coloro ai quali punta l'arto artificiale, il film di Rodriguez, fino a quel momento pazzo e ilare, si fa soffusa poesia, ovvero delicato delirio in versi che, inanellando una strofa diabolica a una terzina allucinata, solfeggia a colpi di mitraglia e teste impallinate una partitura che ormai procede per geniale improvvisazione. A quel punto non te ne frega più niente di nessuno, te ne stai lì spaparanzato in poltrona, le patatine imburrate che ti colano dalla bocca, una refrigerante bottiglia di birra a stento sorretta in mano, a goderti lo spettacolo senza che un barlume di razionalità o uno spicchio di rigore ti lampeggino per il cervello ormai in sovraccarico sensoriale.

Planet Terror è una fatica immersa nel chili fino alle pudenda, caliente come le salsicce di facocero arrostite a fuoco lento e le bellezze messicane (e non) che pullulano lungo i crinali precocemente invecchiati del suo metraggio. E pur non essendo mai il tentativo di ricostruire, né con perizia filologica né con amore per il pastiche iperrealista, un'idea di cinema settantesco, che come ognuno di noi sa era cosa del tutto diversa, non migliore o peggiore, ma soltanto altra rispetto ai suoi eccessi visivi, esso riesce comunque a rendere un'ipotesi plausibile di una filmografia (e soprattutto di un'epoca) definitivamente tramontata. Se alla morte dei drive-in fosse sopravvissuta almeno la cultura del “trash”, nel senso più nobile e riabilitante del termine, forse oggi la laudatio di Rodriguez potrebbe rinunciare ai cascami d'antan, alle bruciature pellicolari, alle gelatine (il miele, in linguaggio tecnico) che lentamente corrodono e fanno tremolare immagini troppo manipolate e troppo insudiciate per essere credibili. Forse, se il processo digestivo cui va incontro il pubblico fosse aiutato da tutt'altro ricettario dietetico, quelli che oggi sono considerati i bijoux per spettatori al gusto nostalgico del nerd da videoregistratore avrebbero una visibilità, e quindi un sostegno produttivo, di gran lunga più capillare. Invece, terminata la visione di Planet Terror, non già nel caravanserraglio sudaticcio e appiccicoso di un vecchio cinema all'aperto, bensì nel salotto imborghesito e così rispettabile di casa propria, ecco che resta soltanto l'inizio di una nera fiaba per adulti, un venerabile epitaffio da leggere alle discendenze che tanto, per cause e concause tra le più varie, hanno già debellato il sacro timor (profano) del cinema dalle menti di giovani virgulti cresciuti a pane e televisione: c'era una volta, tanto tempo fa, nel magico regno della celluloide, uno sperduto villaggio di mostri gommosi, lucertolose creature degli abissi, serpentoni loricati, zombi dalle facce plastificate e discinte vestali che al sorgere della luna si riunivano attorno al fuoco evocando arcani spiriti ecc ecc...
Peccato che ormai alle favole, persino a quelle serie, non creda più nessuno.

Marco Marchetti

venerdì 26 ottobre 2012

Fantastic Voyage - Viaggio Allucinante

14


Quasi una spy-story, decisamente un classico del cinema e della letteratura fantascientifica. La sua trama semplice e intrigante. L'agente Grant (Stephen Boyd) lavora per la CIA ed è incaricato per conto di una base militare segreta di sorvegliare una operazione chirurgica nei confronti dello scienziato Jan Benes (Jean Del Val), miracolosamente scampato ad un attentato, ma non ancora salvo del tutto, giace infatti in coma a causa di un embolo cerebrale. Benes è fuggito in Occidente superando la Cortina di Ferro e si sospetta che tra i medici che dovranno operarlo ci sia una spia sovietica incaricata di dargli il colpo di grazia. Quel che Grant scopre – suo malgrado – è che non si tratta di una operazione canonica; infatti dovrà essere rimpicciolito all'interno di un sommergibile a livello di microbo ed iniettato dentro il corpo di Benes per distruggere in loco il suo embolo. 

La squadra di cui fa parte è formata dal Capitano Bill Owens (William Redfield), e dai medici Michaels (Donald Pleasence), Peter Duval (Arthur Kennedy) e la sua bellissima e giovane allieva, Cora Peterson (Raquel Welch). Chi di loro è la spia?

Ma in questo viaggio i nostri eroi incontreranno ben altri problemi, il tempo stringe: la miniaturizzazione dura solo 60 minuti – per questo la CIA vuole salvare Benes, lui ha scoperto il modo di prolungare il fenomeno a tempo indeterminato – inoltre non mancheranno contrattempi e colpi di scena, con tanto di sosta per ricaricare la riserva di ossigeno in un alveolo polmonare o la caduta di un bisturi nella sala operatoria mentre l'equipaggio sorvola l'interno dell'orecchio, il cui rumore causa un terremoto che rischia di ucciderli. Degna di menzione anche l'interpretazione di Edmond O'Brien, (il Generale Carter) che dimostra essere un grande caratterista, attraverso pochi e semplici gesti ci comunica una genuina gamma di emozioni e ansie per la buona riuscita dell'operazione, sempre sul punto di fallire. Stiamo parlando di un film del '66, che non ha niente da invidiare a quelli moderni; i suoi effetti speciali sono all'avanguardia per l'epoca, a parte gli aloni scuri attorno alle silhouette degli attori, che comunque palesano un lavoro ti pazienza e grande abilità (oggi si fa tutto al computer utilizzando maschere cromatiche e teli verdi o blu dietro le scene) da parte di montatori e tecnici degli effetti speciali. 

Gli sviluppi di questa storia sono davvero interessanti. Tutto parte da un racconto a quattro mani di Otto Klement e Jerome Bixby di cui la 20th Century Fox acquista i diritti. Sottoposta la sceneggiatura ad Isaac Asimov questo la passa ai raggi-x lamentando alcuni errori, soprattutto nel finale quando il sommergibile viene fagocitato dai globuli bianchi. «Come mai – si sarebbe chiesto Asimov – dopo 60 minuti i suoi atomi non tornano a grandezza naturale? facendo quindi esplodere il corpo di Benes». Così il grande maestro della fantascienza accetta di scrivere una novelisation, che finisce per essere pubblicata prima del film, così tutt'oggi molti pensano che il lavoro dello sceneggiatore David Duncan sia un adattamento del romanzo di Asimov e non del racconto dei meno noti Klement e Bixby. Intanto il grande maestro della fantascienza ci prese gusto scrivendo un sequel ambientato in Russia, Destinazione Cervello, dove leggiamo una trama ancora più accurata scientificamente. Voto in stelle: 4/5 (per la trama, gli effetti speciali, il cast, e la fotografia). Unico difetto, a nostro avviso, un montaggio frenetico, che doveva stare (?) entro i 100 minuti, che toglie ai personaggi la profondità dovuta. 

Nonostante la scarsa credibilità di un viaggio simile, tanto più che costerebbe decisamente meno usare la microtecnologia o i laser (cosa ch'è, del tutto o in parte, già una realtà) Viaggio Allucinante resta una pietra miliare del cinema fantascientifico di sempre e dato il soggetto possiamo anche considerarlo un pezzo di Cultura, quella con la “C” maiuscola. Da vedere, e rivedere, assolutamente.

Giovanni Pili










giovedì 25 ottobre 2012

Killer Joe

9

Mai assaggiato un omicidio così buono.”.
Disponibile per il noleggio. Si applicano termini e condizioni.”.
Frasi di lancio originali del film.

La filmografia del celebre regista William Friedkin è davvero eccezionale. E' da principianti della cinefilia solo ricordarla, naturalmente, l'imbarazzo è solamente nella scelta, fra classici come “Il Braccio violento della legge” (The French Connection)(1971) e “L'Esorcista” (The Exorcist) (1973), mentre il più esperto e veramente ossessionato cinefilo non potrebbe che snocciolare adorante titoli come “Il Salario della paura” (Sorcerer/Wages of Fear) (1977),Cruising” (1980) , Vivere e morire a Los Angeles” (To Live and Die in L.A.) (1985), fino ai minori e più recenti, ma non meno dettati dalle ossessioni del regista e appassionati “Basta vincere” (Blue Chips) (1994), Regole d'onore” (Rules of Engagement) (2000) e Bug” (2006); - i completisti veramente preparati non possono esimersi dal citare anche “Festa per il compleanno del caro amico Harold”(The Boys in the Band) (1970), “Pollice da scasso”(The Brink's Job)(1978), Rampage -Assassinio senza colpa?” (1987-1992), eThe Hunted -La Preda” (2003). L'unico titolo sul quale non è stata ancora applicata una giusta attenzione è l'horror invero un poco anodino e forse solitario titolo veramente “minore” della filmografia friedkiniana (assieme a “L'Affare del secolo” [Deal of the Century] [1983]) ovvero “L'Albero del male”(The Guardian), all'epoca (1990) difeso solamente dal buon Franco La Polla. Come e d'altronde, non amare i singoli film di colui che è stato e ci dimostra ancora di essere uno dei più grandi registi della contemporaneità per almeno due decadi riconfermatosi con questo suo ultimo grandissimo film, e senza poter negare che, nel loro insieme, le sue opere rappresentano un narratore estremamente eclettico. La maggior parte dei registi trova chi prima chi dopo un ambito proprio ma più o meno dalla narrazione confortevole (come Oliver Stone dimostra con il suo attuale “Le Belve” [Savages]) e lì vi si adagiano. Ragazzi di 76 anni come William Friedkin ci gratificano come spettatori del loro provato piacere a sperimentare ed osare cose ancora diverse.

Tutto questo è solo per mettere semplicemente in chiaro purtroppo inevitabilmente in modo arido rispetto allo splendore noir di questo suo film, che con questa fatica Mr. Friedkin ha istituito ad onore del recensore l'ennesimo tipo di genere e filone mai da lui prima affrontato. Killer Joe” è qualcosa che egli non ha mai fatto prima, e forse nessun altro. Sulla base del lavoro teatrale di Tracy Letts (i due avevano già realizzato insieme il kammerspiele ossessivo e schizofrenico “Bug” nel 2006), “Killer Joe” è uno di quei oramai rarissimi film che ti colpisce dallo schermo come il pugno sudato dell'agghiacciante Matthew McConaughey/Killer Joe nel finale, ma anche come figlio bastardo di Raymond Chandler, Quentin Tarantino e dei fratelli Coen. (In un certo senso, la trama e la presentazione di Killer Joe” si sentono un po' come una versione empia e terribile di quelle analoghe in “Arizona Junior” e “Fargo”, e ovviamente è un complimento data la cristallina riuscita dei titoli citati.) Una commedia tagliente e davvero mooolto dark, un thriller contorto, e ancora più contorto nell'immoralità del racconto e di ognuno dei personaggi,Killer Joe” è uno dei film più sfacciati, imprevedibili e audaci sicuramente almeno per quest'anno, ma questi aggettivi non significano neppure più di tanto se il film non fosse stato anche così oscuramente e costantemente divertente.

La trama è meravigliosamente folle: volendo intascare i 50'000$ d'assicurazione sulla vita a favore della figlia, Chris (Emile Hirsch) e suo padre Ansel (Thomas Haden Church), assoldano un assassino professionista (Matthew McConaughey), che è anche un poliziotto, per uccidere la madre di Chris ed ex-moglie di Ansel ma purtroppo la moglie attuale di Ansel ovvero Sharla (Gina Gershon) farà uno sporco doppio gioco e la sorella di Chris, Dottie (Juno Temple), prenderà centralmente parte senza volere allo squallido piano e non causando carenza di problemi per i subdoli maschi protagonisti. Praticamente ogni personaggio, oltre e a parte "Killer Joe" (l'assassino), è un manifesto su due gambe di scarsa intelligenza e ambizioni penosamente piccole, ma Letts e Friedkin non li dipingono come semplici “White trash” di quelli che vivono nei parchi roulotte ecc. Insomma, anche all'interno dello sporco mondo, sudato, e conchiuso di “Killer Joe”, c'è ancora un codice distinto di semi-morale tra i suoi squallidi abitanti.
Ironia della sorte Friedkin confeziona un film che un momento è quasi di stampo letterario da “kammerspiel”e scandalosamente (quasi ironicamente) violento in altri momenti subitanei, “Killer Joe” è un esempio realmente spesso scioccante e casualmente crudele di narrazione neo-noir, e se si tratta di personaggi abietti, meschini e spregevoli che per primi sono così disegnati e tratteggiati, è il loro comportamento ad essere stranamente affascinante e che bene ci illustra l'intelligenza della scrittura di Tracy Letts : in pratica, non c'è bisogno di scrivere o di rispettare una serie di personaggi e del relazionarsi con loro, da lettori o spettatori tutti gli attori di cui sopra si immergono, e vengono immersi con gioia e grande mimesi professionale in questo pantano immorale di omicidio e delle sue varie complicazioni, e i realizzatori (“grazie al Dio delle buone sceneggiature”) non sentono mai la necessità di spiegare o chiedere scusa per il codice chiaramente contorto dei loro personaggi e della loro moralità. Questo non è un film che prende in giro i “White trash” che abitano nei parcheggi per roulotte, o per il cui eccesso e i suoi effetti semplicemente scende sopra una storia folle e criminale in una parte del Texas; che qui aggiunge un sacco di sapore regionale per una storia già di per sé contorta incentrata su spietati criminali seppur di piccolo cabotaggio..

Killer Joe” vanta difatti anche un pedigree piuttosto impressionante per un film indie "Sporco e a basso costo". La rilevante colonna sonora di Tyler Bates aggiunge molto ad un film potenzialmente “teatrale” e altrimenti come fu “Bug”, piuttosto prosciugato dalla musica, la fotografia di Caleb Deschanel mantiene il film sempre bello da guardarsi nel suo stile dai colori brillanti e liquidi, e un poco granulosi, mentre il montaggio di Darrin Navarro è l'arma segreta del film.
Perfettamente in mimesi con il personaggio assoluto della sua carriera, si cala in un lavoro davvero eccellente Matthew McConaughey nel tour de force interpretativo di Killer Joe, Famiglia, Tempio Chiesa o quel che sia sono qui radunati nuovamente insieme eppure completamente imprevedibilmente per un risultato fatto anche di cosce di pollo fritto del sud(ne vedremo tutta la loro importanza) nel trarre da un presunto fatto di cronaca vera quel che è riuscito, in qualche modo, come uno dei film più originali dell'anno.

Festival di Venezia Anno 2011 Ha Vinto l'Osella d'Oro a William Friedkin
Nominato al Leone d'Oro per William Friedkin

Killer Joe” è stata la prima opera che Tracy Letts abbia scritto, nel 1991.

Spoiler
Le voci di trivia e curiosità seguenti possono svelare importanti punti della trama.

Anche se sono i personaggi che fanno partire tutta la storia, né Rex Adele sono mai fatti vedere in qualsiasi contesto significativo: Adele è vista solo per brevissimo tempo nel bagagliaio dell'auto dopo che è stata assassinata, e Rex è visto brevissimamente in due scene con il suo volto un po 'oscurato. Né si sentono parlare.
Napoleone Wilson

mercoledì 24 ottobre 2012

C'era una volta in America - Once Upon a Time in America

8

“Crimine, passione e sete di potere – La saga esplosiva di Sergio Leone sulla malavita in America.” [Frase di lancio per l'uscita cinematografica australiana]

“Come ragazzi, hanno fatto un patto per condividere le loro fortune, i loro amori, le loro vite. Come uomini, hanno condiviso un sogno per sollevarsi dalla miseria e raggiungere il potere. La loro storia è ora un immagine "C'era una volta", e un'unica esperienza cinematografica.” [Frase di lancio per l'uscita cinematografica australiana]

“Tre ore, quaranta minuti di un capolavoro epico con Robert de Niro.” [Frase di lancio per l'uscita cinematografica australiana]
Come ragazzi, si sarebbero detti che sarebbero morti per l'altro. Come uomini, lo hanno fatto.”

“Come ragazzi, hanno fatto un patto per condividere le loro fortune, i loro amori, le loro vite. Come uomini, hanno condiviso il sogno di sollevarsi dalla miseria al potere. Fondando un impero costruito su avidità, violenza e tradimento, il loro sogno sarebbe finito come un mistero che si rifiuta di morire.”
Frase di lancio originale del film



Perché alcuni film possono essere considerati con ogni ragione "senza tempo"? Forse perché coloro che sono stati veramente grandi quale che fosse la loro arte, vivono negli archivi veri e come archiviati in quelli che sono i nostri cuori e le nostre menti? Forse, ma preferisco far pendere la percezione verso l'idea di come essi si adattino dettando attraverso la loro grandezza, ogni stile e atmosfera. I film, in sostanza, rimangono gli stessi, ma la nostra percezione di essi cresce e si espande nel tempo che cambia. Vecchi e più “saggi” possiamo guardare indietro su alcuni dei film della nostra giovinezza che più abbiamo amato e trovarne dei difetti, pur rimanendo verso di loro massimamente affettuosi. Diventati adulti o ancora più maturi, invecchiati che sia, si è più astuti per le strade del mondo e si può valutare meglio la profondità interiore di un narratore al di là delle etichette artificiali di carattere e di trama. Poi ci sono quelle rare occasioni in cui vedere due volte lo stesso film è come guardare due film completamente diversi. Per il capolavoro della vita di Leone, a nove anni dalla sua ultima visione, non può essere come negli entrambi casi menzionati. Distribuito nei multiplex della catena “Space Cinema” e in altre 70 sale cinematografiche per quattro giorni da venerdì 19 ottobre, nella versione “Extended” con ca. 40 minuti inediti in più e già presentata in anteprima mondiale a maggio al Festival di Cannes, rimane il film assoluto in tutti i sensi del cinema italiano degli anni ottanta, come quando fu distribuito sugli schermi cinematografici la prima volta, nell'ottobre del 1984.

Ben pochi film rientrano a pieno titolo nella categoria degli “immutabili”, nella mia mente ripenso sempre e per primo a “Once Upon a Time in America” per questa categoria, e una tristezza enorme che è quella che riesce a trasmettere questo immenso capolavoro di malinconie, rimorsi e rimpianti, mi assale. Ironia della sorte, una tale Opera è stata oggetto all'epoca della sua prima distribuzione e per anni successivi a delle decisioni più che controverse che ne provocarono uno sconciamento idiota di tagli asportativi per ben un'ora e mezzo, nella copia distribuita cinematograficamente negli Stati Uniti, traviando la sua labirintica linea temporale riorganizzandola in ordine cronologico, e sfasciando la suggestiva e insondabile struttura a flashback che Leone aveva immaginato e realizzato. Troppo, per mantenere integro il racconto di un grande sogno americano andato terribilmente storto, quale Leone ha dato la statura e l'essenza del mito, e di ciò del quale sono fatti i sogni stessi.
Adesso, ai 229 minuti dell'originale versione europea, sono stati aggiunti un'altra mezz'ora di girato, l'ultima che Leone escisse prima della uscita nelle sale, e Leone nella sua magistrale lezione e canto del cigno registico ci dimostra già nella sua prima mezz'ora originale come,e anche in questa aggiunta con Louise Fletcher direttrice del cimitero in cui sono sepolti tutti gli amici di Noodles ed ex-complici della banda, e soprattutto quanto egli fosse il vero e proprio padrone e maestro dell' ipnosi cinematografica. Egli permea come ho detto l'aria di mistero e di un'atmosfera tali che per ogni spettatore è praticamente impossibile non venirne permeato egli stesso, coinvolto in ciò che sta succedendo, in cosa è già successo e chi sono questi personaggi che popolano lo schermo. Aprendo con un brutale omicidio e una tortura-pestaggio molto sanguinosa e brutale, ci siamo spinti alla fine di un'epoca in cui il sopravvissuto gangster "Noodles" (Robert De Niro) è in fuga dall'ultima di una serie di scelte di vita calcolate male e che alla fine hanno trasformato l'amicizia in tradimento.

Come da quando erano semplici ragazzi di New York, Noodles e la sua banda di amici svolgono commissioni di strada per il boss locale. Con il nuovo arrivo di Max (interpretato da adulto da James Woods), i ragazzini italiani e gli ebrei formano una fratellanza un legame che lo vedremo, in un vero spirito imprenditoriale, arriverà a creare un invenzione dalla quale potrebbero trarre vantaggi non certo l'uomo comune, ma i contrabbandieri di alcoolici durante il Proibizionismo nella paura di ispezioni della guardia costiera. Quando la concorrenza si trasforma in una progressiva tragedia, Noodles finisce in prigione uscendone solamente una dozzina di anni più tardi per vedere i suoi amici oramai con un fiorente commercio e un grande successo ma senza essere stato da loro dimenticato.


Leone, co- adattando il romanzo di Harry Grey (“The Hoods”, in Italia “A mano armata”), non si occupa della criminalità dei grandi boss (anche se il film contiene una sua solida parte tra cui una comica sequenza di scambio di neonati dalle incubatrici di un ospedale, in una sequenza che è più di una citazione di “Arancia Meccanica”[A Clockwork Orange]), ma di storia e del trascorrere del tempo. I suoi stessi gesti mostrano in modo rigido tematiche che manifestano ancora una volta come un orologio rubato diventi il simbolo dell' amicizia di Max e di Noodles, del tempo perduto e del passaggio degli stessi personaggi e avvenimenti in una grandezza dickensiana. Altri registi possono aver a provare a tirare fuori parallelismi tra i personaggi e le azioni che inconsciamente influenzano coloro che li circondano in periodi successivi, ma pochi e viene naturale pensare per molteplici aspetti al consimile e sempre accostatogli Visconti, hanno raggiunto il lirismo di Leone come in questo film e a noi spettatori avviluppati in una lenta nebbia composta da languidi movimenti di macchina e dal commento musicale di livello altissimo di un Ennio Morricone virtuoso più di sempre. Si tratta di un tipo di cinema che proprio non esiste più (anche Scorsese, un adoratore di Leone, oramai ama montare più velocemente) e che al contempo vanifica ogni spettatore che creda di dover guardare il proprio orologio durante la tale prima mezz'ora già menzionata. Questo è un film che adesso dura dalle già lunghe 3hr. E 40' originali ben 4hr. E 19' ma senza mai annoiare o aspettare ansiosi il suo termine, ma rimanendo piuttosto molto rattristati e con un gran senso di vuoto al suo termine che mai si vorrebbe arrivasse davvero, come appunto accade, per i veri capolavori.

Dalla musica di Morricone passando all'eccezionale utilizzo di sottili e penetranti rumori ambientali, Leone utilizza tutti i suoni come un compositore nel Giardino dell'Eden. Sequenze piazzate interamente e sviluppate senza suono, a partire dagli squilli del telefono che si permeano su scene diverse fino a quando si scopre la sua esatta destinazione. E anche la paura dei rumori serali di New York non si può paragonare alla tensione di un cucchiaio che gira il caffè in una tazzina, a prodigiosamente tendere allo spasimo l'agitazione presente in una stanza piena di foschi sospetti.

L'impostazione "in America" non è un incapsulamento completo del paese più di quanto "il West" era nel classico western leoniano. E' una storia di un tempo nel quale risplendeva maggiormente l'amore per il cinema che quello attualizzato agli anni '80, un fatto che Leone ha confermato. Come la Hollywood che ha cercato negandolo di celebrare i gangster nei film degli anni '30, quando il proibizionismo è stato abrogato (o il box office che si è poi prosciugato) lascia il personaggio di Noodles e si incarna in quello di Max che esce da ogni business ancora illegale per entrare accolto a braccia aperte in quelli legali, della politica e dell'alta finanza speculativa, è il momento quindi per una nuova era di ladri che come quella che ancora prima spazzò via Butch Cassidy e Clyde Barrow, si ripete in una tradizione che gli anti-eroi dell'epica leoniana sono fin troppo pronti ad aiutare a replicarsi nuovamente, come nello splendido finale della ”grande indifferente forma o modo di superiore vendetta” o forse solo consapevolezza stoica della propria infinita e irrimediabile sconfitta, da parte di Noodles al senatore Bailey .

Con una storia di classici anti-eroi che include Barrow, Henry Hill e i Corleone, De Niro/Noodles può essere sia il più semplice che il più difficile personaggio da compatire dell'intero affresco criminale compiuto e immaginato da Leone. Certo che rubare, mentire e uccidere è sbagliato, ma pochi possiedono la qualità ribollente e animalesca che consente di risparmiare a Noodles fino alla fine le occasioni speciali che la vita può presentare, e per un motivo o l'altro non essere colte.

Noodles non si è mai vantato come potrebbe un genitore per l'affetto verso il suo bambino, eppure la costante della sua vita, e la nuova sequenza di dialogo tra i due ambientata nel 1968 introdotta in questa “Extended Edition” lo esplica ancora di più, era il suo amore per Deborah (interpretata splendidamente da Jennifer Connelly ragazzina al suo debutto come bambina dal luminoso avvenire, e da Elizabeth McGovern, come adulta e poi matura ma “non invecchiata” nel 1968.) Lei rappresenta per tutta la vita di Noodles, un altra strada; quella che lui sarebbe stato felice di prendere insieme, cosciente però della sua impossibilità e del di ella rifiuto. Ma la scelta di mettersi al volante e sterzare dunque fuori strada nell'autodistruzione con il suo stupro è tutta sua e Max è lì caso a trovarsi come dall'inizio a coglierne semplicemente l'occasione.

La libido sovraccarica di Noodles come anche lo scrivente ben sa, può essere attribuita (e perdonata) per una scoperta adolescenziale di essa troppo potente e subito dopo il suo soffocamento è per la permanenza in prigione di ben 12 anni. Una tale repressione, frustrazione e anni di rifiuto, hanno però alla fine la meglio su di lui, come non comprenderlo, e per non etichettarlo, in mancanza di un termine migliore quale quello di uno stupratore seriale che egli certamente non è né sarebbe mai stato. Nonostante le elucubrazioni compiute sul racconto a riguardo delle donne e di come Leone si sia posto verso i loro personaggi nel film, “C'era una volta...” di certo non è il film “misogino”, quale termine che qualcuno all'epoca ha voluto applicare al film. Una donna (si potrebbe argomentare) ma non tutte quelle del film, e non ci dovrebbe nemmeno essere bisogno di -appunto- argomentarlo, altro non è che una ninfomane, o almeno una di esse “in formazione”, secondo quella che può essere la corrente definizione clinica delle stesse, ma la terza della triade (Darlanne Fluegel, bravissima) è anzi un bellissimo personaggio, inquietante e triste come e più di ogni abbrutimento che abbiamo mai visto sullo schermo, e questo includendo anche la suddetta sequenza di stupro ai danni di Deborah (e anche includendo a termine di paragone la ininterrotta sequenza di stupro dalla durata di 9 minuti in “Irreversible” [2002] di Gaspar Noè).

Leone è sempre stato perseguitato dalle accuse di misoginia nei confronti dei suoi personaggi femminili, ma dopo lo stupro e come si fa a non notarlo, egli qui ci fa ben vedere il senso di devastante colpa e invincibile idiozia che pervade Noodles dopo la sua azione di idiota distruttività, attraverso le riflessioni malinconiche di un attore come De Niro, che in qualche modo ci rende il personaggio sempre sopportabile oltre un qualsiasi punto di odio totale. Le donne minori nella storia hanno i loro seni tenuti sotto il tiro della gelida canna di una pistola o sono uccise a sangue freddo prima che lo spettatore possa scoprire quanto in realtà siano prive di senso rispetto alla storia generale. Per tre volte Noodles perde uno dei personaggi femminili che avrebbe potuto fargli avere un tipo di amore che egli non potrà mai sperimentare, quale quello che Max otterrà proprio da Deborah, seppur solamente nella forma (simboleggiato potentemente in questo dalla incapacità di Noodles di riuscire mai a girare la fortuna a sua fortuna nei momenti chiave della storia, soprattutto per la sua intrinseca ed evidente ingenuità e mancanza di calcolo rispetto allo spietato e gelido personaggio di Max).

Uno dei momenti più grandi in assoluto che Leone abbia realizzato non solo in questo film ma per l'intera sua carriera, in questa prospettiva è tutto contenuto durante una sequenza che tratta di un personaggio di supporto che non è in seguito neppure rilevante più di tanto per la storia oltre il fatto che è solo uno della banda. La promessa di gratificazione sessuale gli è offerta dalla ragazza più “sveglia” del brulicante caseggiato di emigrati italiani ed ebrei a N.Y., in cambio di nulla più di un bignè. Mentre ne compra orgogliosamente uno è poi costretto dalla ragazza ad aspettare che lei “finisca” prima un altro “cliente”, si siede sulle scale con il bignè incartato pensando alle sue opzioni. Egli ne prende un po' di con un dito giusto per sentirne il sapore, gli piace troppo, con le dita toglie la crema in eccesso sulla confezione, ma lascia la ciliegia per lei. (Ricordare sempre, la sottigliezza splendida di questa sequenza leoniana). Infine non può aspettare più a lungo, mangia la guarnizione e aspira letteralmente il tutto, quasi dimenticandosi completamente perché ha comprato la cosa, in primo luogo. Chi non può apprezzare tutti gli strumenti tematici che giocano in questa scena che Truffaut se avesse fatto in tempo a vedere avrebbe certamente adorato, per me non dovrebbe neppure avere il diritto di far finta di essere un appassionato di cinema.
Quello che mi ricordo prima dell'altra sera di nuovo al cinema con la “Extended” è di aver visto “C'era una volta in America”, oltre che direttamente in sala nell'ottobre del 1984 allo splendido Cinema Teatro La Gran Guardia di Livorno, oggi ovviamente non più esistente, c'è un H&M (ancora non c'era la crisi di adesso e l'ultimo spettacolo iniziava alle 22:30, pur durando il film 3hr. E 49', in pratica la proiezione finì alle 02:20, oggi impensabile), e poi ovviamente nella vhs da nolo della De Laurentiis/Ricordi del 1986 con il doppiaggio originale; come in una storica prima TV per i “Lunedì Film” su Raiuno che fece un'audience da record di milioni di spettatori. Poi venne il bel dvd doppio Special Edition della Warner con un bel packaging cartonato per la prima uscita, ma non troppi ed esaustivi extra quanti avrebbe certamente meritato, pubblicato nel 2003, purtroppo e colpevolmente senza la traccia audio originale ma ri-doppiato per avere un audio in 5.1.
Rivisitare esso per la prima volta in una sola visione come lo scorso venerdì sera mi ha ricordato quello che fu stato nel 1984 per me come recensore, e dopo ventotto anni avere a rivederlo finalmente nella visione e nella versione che Leone avrebbe definitivamente voluto in tutta la sua gloria. Come quel fermo immagine finale ha ricominciato a tormentare i miei sogni prima ancora di andare a dormire (la proiezione è durata dalle 21:00 a ca. le 01:20), e non mi è stato quasi possibile iniziare a scrivere di nuovo su di esso senza che provassi un grande desiderio di scrivere una tesi su ciò che l'immagine finale potrebbe esplicitare. L'interpretazione dell'epoca che dette la stura a tutte le altre, da parte del celeberrimo Richard Schickel sulle pagine di Time, di un sogno oppiaceo compiuto nel 1933 e proiettato nel futuro del 1968, è troppo semplicistico per rendere la giustizia e l'esperienza che Leone ha profuso e donato in questo suo capo d'opera. Potremmo stare assistendo alla soddisfazione di Noodles che finalmente prorompe in un sorriso, alla “vendetta” che egli ha compiuto, e che finalmente espone la sua vulnerabilità al mondo a noi spettatori, avendo fatto la cosa giusta, o semplicemente è l'unico sguardo possibile dopo una fuga dall'inferno che egli ha creato per sé stesso. Dal momento che l'inquadratura finale di un film di 228 minuti, adesso di ca. 308,, può farci pensare di avere allora soltanto assistito ad un sogno durato quattro ore; potendo tornare al suo inizio, allora quindi sì, si sarebbe assistito ad un sogno, un cinema che non viene più raggiunto né realizzato abbastanza spesso.

Per la sua uscita cinematografica negli Stati Uniti teatrale il film è stato tagliato di 90 minuti a partire dalle 3 ore e 47 minuti originali, a 2 ore e 19 minuti dopo un selvaggio riesame da parte dei produttori e distributori americani a seguito della premiere del film a Cannes. Molti critici cinematografici hanno dato due recensioni separate per il film. Mentre la versione completa europea è stata molto apprezzata al di fuori degli Stati Uniti (e vista all'epoca da molti critici americani quando poi venne distribuita pochi mesi dopo appunto una versione per gli Stati Uniti pesantemente tagliata) la versione modificata per l'uscita nelle sale cinematografiche statunitensi venne massacrata dalla critica.

La versione cinematografica U.K. e le versioni video sono state ridotte di 10 secondi dalla BBFC per rimuovere le immagini di una pistola che viene premuta contro il seno di una donna e di abbreviare brevemente la scena dello stupro in macchina. Il DVD del 2002 è contiene ancora questi brevissimi tagli..

Quando il film ''completo'' è stato pubblicato in Laser disc in America, doveva ancora essere tagliato leggermente da 229 minuti a 227 minuti, per garantire la valutazione di un 'R'. I tagli sono stati fatti per le due scene di stupro, e alcune delle violenze all'inizio. La finale sequenza di flashback e il montaggio di Max e Noodles bambini è stato eliminato dalla loro scena finale.

La famigerata versione americana di 139 minuti è stata la versione che ha avuto la più ampia diffusione cinematografica in Nord America . Così Pesantemente tagliata dalla Ladd Company contro la volontà di Leone, la storia del film è stata riorganizzata in ordine cronologico, che ha avuto l'effetto di rendere il tutto ancora più difficile da seguire. La maggior parte dei tagli, ha riguardato le sequenze d'infanzia, facendo delle sezioni nel 1933 la parte più importante del film. Tutte le scene nel 1968 con Deborah sono state escisse, e la scena con il "Segretario Bailey" si è conclusa con lui che si spara (anche se fuori scena), piuttosto che la famosa conclusione con il camion della spazzatura della versione da 229 minuti. La versione ridotta, uscita su VHS negli anni ottanta, è ben poco richiesta e quasi impossibile da trovare.

Una versione televisiva di tre ore (senza pubblicità) è stata brevemente disponibile nei primi anni a metà dei '90, mantenendo il film in ordine non cronologico, ma ancora lasciando fuori diverse scene chiave. Questa versione è stata recentemente riutilizzata in passaggi del film per il canale AMC TV.

Il DVD brasiliano (Warner) è fortemente censurato sfocando e re-inquadrando la scena di una donna nuda che finge di essere morta nel retro di un carro funebre sfocando e e togliendo dei frame. Questi tagli sono stati originariamente compiuti anche nella versione coreana. La prima versione brasiliana della Flashstar è invece uncut.

Per l'uscita del DVD in Germania come in Italia, il film è stato completamente ridoppiato. La ragione di questo è sconosciuta in quanto l'uscita in VHS conteneva il doppiaggio originale e venne distribuita dalla stessa etichetta la Warner Home Video.

Un nuovo montaggio è stato presentato in anteprima al Festival di Cannes 2012 - il nuovo montaggio è di 255 minuti.

Premi dell'Accademia giapponese Anno 1985 Ha Vinto il Premio dell'Accademia giapponese per Il Miglior Film Straniero BAFTA Awards Anno 1985 Ha Vinto il BAFTA per i Migliori Costumi Gabriella Pescucci
Miglior Colonna Sonora OriginaleEnnio Morricone
Nomination al BAFTA per la Miglior Fotografia Tonino Delli Colli
Miglior regia Sergio Leone
Miglior attrice non protagonista Tuesday Weld
David di Donatello Anno 1985 Nominato al David come Miglior regista straniero (Migliore Regista Straniero) Sergio Leone
Golden Globes, USA Anno 1985 Nomination ai Golden Globe Miglior Regista – Miglior Film Sergio Leone
Miglior Colonna Sonora Originale per un FilmEnnio Morricone
Sindacato Italiano Nazionale dei Giornalisti Cinematografici Anno 1985 Ha Vinto il Nastro d'Argento per la Miglior Fotografia (Migliore Fotografia) Tonino Delli Colli
Miglior Regista (Regista del Miglior Film) Sergio Leone
Miglior Production Design (Migliore Scenografia) Carlo Simi
Colonna Sonora (Migliore Musica) Ennio morricone
Migliori effetti speciali (Migliori Effetti Speciali)
sconosciuto Kinema Junpo Awards Anno 1985 Ha Vinto il Premio Kinema Junpo per Il miglior film straniero aSergio Leone
Los Angeles Film Critics Association Awards Anno 1984 Ha Vinto LAFCA Award per la Miglior Musica Ennio Morricone
2 ° posto LAFCA Award Miglior Regista Sergio Leone
Miglior Film Sant Jordi Awards Anno 1986 Ha Vinto il Sant Jordi per il Miglior attore straniero (Attore Mejor Extranjero) Robert De Niro
Anche per “Innamorarsi” (1984).

Le scene a Miami Beach vennero effettivamente girate al Don Cesar resort a St. Petersburg, in Florida.

Le riprese durarono continuativamente dal 14 giugno 1982 al 22 Aprile 1983.

In questo film interpretato da De Nito e Joe Pesci, Treat Williams interpreta un personaggio di nome Jimmy Conway. De Niro e Pesci hanno recitato nel film di gangster “Quei bravi ragazzi -goodfellas” dove De Niro ha interpretato un personaggio di nome Jimmy Conway.

De Niro ha suggerito che James Woods avesse una serie di denti perfetti, luminosi e bianchi per dimostrare la ricchezza e la vanità del Segretario Bailey. I produttori esitarono per il costo, per cui De Niro pagò lui stesso.

Il bar in cui i cinque giovani membri della banda dibattono se prendere il dollaro che il barista offre loro per bruciare l'edicola mentre rotola lì ubriaco, è la Birreria McSorley al 15 E. 7th St. vicino a Saint Mark Place. Ha aperto nel 1854 ed è il più antico bar continuativamente aperto negli Stati Uniti. L'edificio all'uscita dei ragazzi non è, tuttavia, l'esterno della McSorley.

Leone era stato originariamente intenzionato di realizzare il film tratto dal romanzo autobiografico di Harry Gray “The Hoods " in un modo normale di narrazione lineare, ma durante gli anni settanta ha iniziato a espandere la storia con una serie di sceneggiatori tra cui Norman Mailer e Stuart Kaminsky in un racconto epico e semi-surreale.

Da quanto riferito ci sono voluti molti anni affinchè Leone potè garantirsi i diritti del libro di Harry Grey sul quale il film è stato basato, perché un altro e famoso produttore, Dan Curtis, ne deteneva i diritti e non era disposto a rinunciarvi. Quindi, nel 1976 Leone si rivolse al Principe Alberto di Monaco, che convinse Curtis a rinunciare ai diritti in cambio del finanziamento dei Grimaldi a “Ballata macabra” (Burnt Offerings), un film in sostituzione interpretato da Oliver Reed e Bette Davis.

Secondo un'intervista con Stuart Kaminsky (sull'edizione speciale in DVD), il contorno della storia che gli era stato dato constava di circa 200 pagine. A Kaminsky venne chiesto da Leone di riempire i dialoghi in 200 pagine da ultimare. Kaminsky è tornato con un progetto che era di 400 pagine e Leone lesse tutte le 400 pagine della bozza di fronte a Kaminsky, non appena gli vennero date.

Il distributore americano di riferimento, non è riuscito a presentare la documentazione corretta in modo che lo score di Ennio Morricone, considerato uno dei suoi migliori, potesse essere inserito nelle nomination per un Academy Award.

Questo fu il primo ruolo cinematografico di Jennifer Connelly.

Quando le riprese furono completate, il materiale filmato durava per un totale di 8-10 ore. Leone e il montatore Nino Baragli tagliarono il filmato di circa 6 ore, con il piano di arrivare ad un montaggio definitivo del film in due parti di tre ore. I produttori rifiutarono questa idea e Leone dovette tagliare ulteriormente il film fino a 3 ore e 49 minuti.

Mentre la versione di 229 minuti del film è stata sempre propagandata come la versione definitiva del film, Leone voleva che il film avesse una durata di 250-265 minuti. La versione di 229' fu il risultato di un ulteriore taglio finale di 45' che Leone considerava essenziali, andati a finire sul pavimento della sala di montaggio, tra cui: ulteriori spiegazioni per il pubblico dei rapporti di lavoro, Noodles che incontra Carol nel 1968, e una buona dose di filmati di una relazione di Noodles con Eva.

La scena in cui Noodles porta Deborah a cena è stata girata al Lido di Venezia, mentre il fatale ritorno a casa è stato girato a poca distanza dall'oceano sulla costa del New Jersey.

Leone è sempre stato noto per il suo uso dinamico del formato 2.35:1. Questo è stato il suo unico film non girato in formato 2.35:1.

Nelle prime fasi della produzione, Gèrard Depardieu era stato scelto per impersonare Noodles giovane, e Jean Gabin da vecchio. Depardieu si era detto disposto ad imparare l'inglese con un accento di Brooklyn per il ruolo.

Joe Pesci suggerì Larry Rapp per il ruolo di Fat Moe, avendo lavorato con lui in “Dear Mr. Wonderful”.

Gli esterni della scena in cui Noodles adulto visita la cappella -mausoleo che contiene i corpi dei suoi tre amici è stata girata al Woodlawn Cemetery nel Bronx. Il mausoleo era in realtà quella di Jonathan “To bet a million” Gates", uno dei fondatori della Texaco e l'uomo accreditato come l'inventore del filo spinato.

De Niro chiese un incontro privato con l'ancora vivo notissimo boss Meyer Lansky per preparare il suo ruolo di Noodles. La richiesta è gli è stata negata.

Joe Pesci venne originariamente provinato per il ruolo di Max, ma Leone lo convinse che non sarebbe stato del tutto adatto per il ruolo. Come un favore ad un amico De Niro ha detto a Leone che Pesci sarebbe stato adatto per qualsiasi altro ruolo e che avrebbe potuto scegliere uno qualsiasi dei ruoli disponibili, e che lo voleva come attore al suo fianco. Infine Pesci scelse la parte di Frankie, che era molto più grande nel copione originale di quanto non sia nel film finito.

A Leone venne detto di ottenere un film che avrebbe avuto una durata di 2 ore e 45 minuti. Il suo montaggio finale fu di quasi 4 ore. I distributori americani reagirono con l'ablazione un'ora dal tempo di durata (anche se il montaggio finale di Leone è stato visto nella sua interezza in Europa).

Pochi giorni prima della premiere del film nel 1984, Treat Williams scoprì che il film sarebbe stato distribuito in una versione di due ore, e non nella versione di quattro ore, e così sarebbe stato mostrato al cinema. Subito si fece sentire dicendo che nessuno avrebbe capito il film nella versione ridotta. In effetti, il film non fece poi bene nei cinema americani, e venne escluso dagli Oscar non ricevendo nessuna nomination. Quando le versioni di video e dvd furono fatte uscire contenenti la originale versione di quattro ore, il film alla fine ha trovato il successo commerciale e di critica.

Questo è stato l'ultimo film di Leone.

Ci sono voluti sei scrittori, tra cui Leone, per adattare la sceneggiatura del film dal romanzo di Harry Grey.

Anche se non menzionato il tempo trascorso in carcere da Noodles nel film è di 12 anni. Questo può essere arguito quando Deborah (prima che Noodles si riunisca al bar poco dopo che viene rilasciato) gli dice che il conto alla rovescia era partito da 4566 giorni finché non sarebbe riuscita a vedere di nuovo Noodles.

Questo film è uno dei due con protagonista De Niro a finire con la canzone "God Bless America". L'altro è “Il Cacciatore”.

La performance di Jennifer Connelly attirò l'attenzione di Dario Argento, che aveva lavorato a stretto contatto con Leone per “C'era una volta il West”, lanciandola nel suo primo ruolo da protagonista in “Phenomena” .

Nel mese di ottobre 1975, Leone ebbe a dichiarare che il cast avrebbe avuto Gérard Depardieu come Noodles e Richard Dreyfuss come Max, con James Cagney a interpretare il vecchio Noodles e Jean Gabin a impersonare il vecchio Max. Tuttavia, mentre Cagney e Dreyfuss sono stati lusingati dalla proposta, Cagney aveva le mani tremanti e Dreyfuss non si sentiva che per lui fosse il momento giusto di prendere la parte di Max.

Secondo Leone, oltre 200 attori furono provinati per la parte di Max.

Leone aveva rifiutato l'offerta di dirigere”Il Padrino”, occasione perduta che ha deplorato profondamente. Ciò può essere in parte in parte il motivo che l'ispirato a realizzare un film di gangster, Leone ha anche notevolmente utilizzato la tecnica a flashback pionieristicamente provata ne “Il Padrino -Parte II”.

Ennio Morricone aveva originariamente composto il " Deborah Theme" negli anni settanta per un altro film, ma venne rifiutato. Morricone ha presentato il pezzo a Leone per l'uso nel film, ma Leone era inizialmente riluttante a usarlo perché lo considerava molto simile al tema principale di Morricone per “C'era una volta il West”.

Secondo James Woods , un critico ha giudicato la sua interpretazione nel film (in tutti i suoi 144 minuti di versione) la peggiore del 1984, anni dopo, lo stesso critico ha visto l'originale versione di 229 minuti e l'ha definito la migliore degli anni ottanta.

E' opinione di James Woods che questo film sia stato l'opera più bella di Leone.

Durante la commovente scena con il bambino, la musica ascoltata è "La Gazza ladra" ("La Gazza ladra"), una ouverture musicale del compositore italiano Gioacchino Rossini.

L'opera sinfonica "Amapola", può essere ascoltata a più riprese nel film: durante le danze di Deborah è una versione jazz sul grammofono, la band di Fat Moe interpreta la melodia (anche sul jazz) nel bar clandestino, e una versione più moderna viene riprodotta durante il re- incontrarsi di Noodles con Deborah.

La vista sulla strada di Manhattan Bridge (come si vede nella locandina del film), può essere veduta dalla Washington Street, Brooklyn.

Leone basò lo stile visivo del film sui dipinti di artisti come Reginald Marsh, Edward Hopper, Norman Rockwell e Edgar Degas (per le scene di danza di Deborah) e le fotografie di Jacob Riis (per le sequenze nel 1922).

Nei primi anni sessanta Leone e il suo fratellastro Fulvio Morsella lessero una traduzione in italiano del libro di Harry Grey “The Hoods/A mano armata”. Il libro afferma di essere "un racconto autobiografico" della vita di un gangster ebreo nel Lower East Side di New York, ed è stato scritto da Grey, mentre egli era stato incarcerato nel carcere di Sing Sing. Leone è stato molto preso dal libro, e se ne è servito come la sua principale fonte di ispirazione nel fare un film di gangster che catturasse lo spirito dell'America.

Franco Ferrini era un giovane critico cinematografico e grande ammiratore dei film di Leone, quando il regista gli ha chiesto di contribuire alla sceneggiatura del film negli anni settanta..

Il "Cantico dei Cantici", come letto nella Bibbia ebraica, si sente due volte nel film. La prima volta, quando è Deborah a declamarlo e Noodles la spia, la seconda volta, Noodles lo recita a Deborah mentre sono sulla spiaggia. In particolare, i personaggi stanno raccontando in base alla loro comprensione del Cantico, quindi nessuna delle due versioni è abbastanza precisa.

Per stabilire l'atmosfera, pezzi della colonna sonora di Morricone venivano diffusi durante le riprese.

Due (forse intenzionalmente) anacronismi musicali sono presenti nel film: la canzone "God Bless America", ascoltata all'inizio e alla fine del film (nel 1933), è la versione di “This is the Army”, e il "Summertime" interpretato come pezzo da un gruppo jazz in spiaggia, quando il proibizionismo è abrogato, furono composte nel 1935, due-tre anni dopo l'abrogazione.

Lo script originale del film è stata completato nel mese di ottobre 1981 ed era lungo 317 pagine.

Durante le riprese, Leone salutò De Niro come attore molto migliore di Clint Eastwood, che Leone aveva diretto (tre volte, e del quale Leone era stato geloso per come in quel momento Eastwood venisse sempre più considerato come regista, secondo lui anche nei suoi riguardi). Tuttavia, poi Leone ha fatto la sua pace con Eastwood e ritrattato queste affermazioni.

Il film ha richiesto così tanto tempo per essere fatto che il suo compositore Ennio Morricone aveva finito la maggior parte della colonna sonora prima che le riprese avessero neanche raggiunto la metà del loro percorso..

Per la scena in cui Noodles ragazzo spia nuda la giovane Deborah,l' attrice Margherita Pace è stata accreditata come Body Double della giovane Connelly, nonostante avesse fatto anche lei la stessa scena. Quella scena è stata tagliata per conto dei cineasti.

Il film è stato presentato al Festival di Cannes 1984, a suo tempo nell'originale durata di di 229 minuti, ma alla sua uscita americana il film è stato pesantemente modificato dalla Ladd Company(contro le volontà di Leone) e ridotto a 144 minuti. Questa versione ha demolito la struttura a flashback che aveva usato Leone, e invece dispose tutte le scene in ordine cronologico (una mossa dalle buone intenzioni, ma in ultima analisi, umiliante e criticabile). La maggior parte dei tagli sono stati operati maggiormente nelle scene d'infanzia, facendo delle parti ambientate nel 1933 quelle più importante del film. Il re-incontro di Noodles con Deborah nel 1968 è stato rimosso, e la celeberrima conclusione con il "compattatore per rifiuti / La Fumeria d'Oppio" è stata modificata con il Segretario Bailey che si spara fuori campo. Questa versione fu un flop negli Stati Uniti e molti critici americani, che sapevano del montaggio originale di Leone, attaccarono la versione breve brutalmente; alcuni critici rispetto all'accorciamento del film parlarono di un accorciamento di un'opera di Richard Wagner (alcune delle quali durano più di cinque ore), dicendo che la funzione delle opere d'arte è che esse sono destinate ad esistere a lungo, quindi gli dovrebbe essere dato il rispetto che meritano.

Nei primi giorni del progetto Leone si avvicinò a John Milius, un grande fan di Leone, per lavorare sul film. Tuttavia Milius stava lavorando su “Il Vento e il Leone” e allo script di “Apocalypse Now” e non avrebbe potuto essere stato disponibile.

Jodie Fister e Daryl Hannah rifiutarono il ruolo di Deborah. La Hannah specificamente perchè avrebbe fatto “Splash -Una sirena a Manhattan” invece di questo film.

A Brooke Shields era stato offerto il ruolo di Deborah Gelly in una conversazione con il regista Leone, ma dopo lo sciopero degli sceneggiatori, la Shields non raggiunse un accordo finanziario.

Per preparare una bozza della sceneggiatura, lo scrittore Norman Mailer si era barricato in un hotel di Roma con bottiglie di whisky, scatole di sigari cubani e una macchina da scrivere per tre settimane. Mailer poi ha avuto un incontro con Harry Grey per completare adeguatamente il progetto, ma Leone non lo ha trovato accettabile.

Rosanna Arquette, Kim Basinger, Jennifer Beals, Linda Blair, Glenn Close, Jamie Lee Curtis, Geena Davis, Farrah Fawcett, Carrie Fisher, Bridget Fonda, Melanie Griffith, Linda Hamilton, Mariel Hemingway, Goldie Hawn, Diane Lane, Jessica Lange, Jennifer Jason Leigh, Heather Locklear, Liza Minnelli, Kristy McNichol, Tatum O'Neal, Michelle Pfeiffer, Meg Ryan, Susan Sarandon, Cybill Sheperd, Sissy Spacek, Meryl Streep, Kathleen Turner, Sigourney Weaver e Debra Winger furono tutte prese in considerazione per il ruolo di Deborah.

Al Pacino e Jack Nicholson rifiutarono il ruolo di Noodles.

A John Belushi era stato offerto il ruolo di Max, ma morì prima che le audizioni avessero inizio

A Julie Andrews e Kay Lenz, venne offerto il ruolo di Carol, ma lo rifiutarono.

Secondo Sergio Donati, per tutta la decade 1967-77 Leone aveva immaginato per il film una scena di apertura: il cadavere di un vecchio gangster cade nel fiume Hudson e scende sul fondo, dove si rivela un quartiere sottomarino di corpi. Leone aveva ideato questa scena con lo scrittore Robert Dillon, che poi gliela ha rubacchiata per “Attento sicario, Crown è in caccia!”(99 and 44/100% dead) (1974) di John Frankenheimer.

Quando il produttore Alberto Grimaldi lesse la sceneggiatura, scrisse una lunga lettera a Leone profilandoli quelli che sentiva erano i difetti fondamentali: il film era troppo lungo (avrebbe avuto una durata di cinque ore e i distributori americani l'avrebbero ridotta a due); e Noodles era troppo negativo per il pubblico americano (come Grimaldi disse, "stupra una donna e uccide la gente senza motivo!"). Grimaldi ha chiesto che lo script venisse rifatto o non lo avrebbe prodotto..

Gérard Depardieu ha fortemente voluto un ruolo nel film ed era pronto ad imparare l'inglese con l'accento appropriato di Brooklyn.

Clint Eastwood ha riferito di aver rifiutato il ruolo di Jimmy O'Donnell.

Nel giugno del 1982, prima dell'inizio delle riprese, Leone ha cercato di contattare Harry Grey per dargli la buona notizia che la sua storia sarebbe stata trasformata in un film. Grey ha detto la moglie di Leone, era purtroppo morto qualche settimana prima.

Nella loro infanzia, i ragazzi hanno i nomignoli di Bugsy e Al Capuano. Questi nomi sono probabilmente omaggi ai veri gangster della vita reale Bugs Moran e Al Capone.

Elizabeth McGovern personalmente sentiva che c'era poco da lavorare nella parte di Deborah.

Il capo della polizia Aiello è interpretato da un attore con lo stesso nome, Danny Aiello.

Nella sceneggiatura originale, il personaggio di Deborah Gelly aveva 15 anni, ma Elizabeth McGovern aveva 20 anni quando il film ha cominciato ad essere girato, 21 anni, quando ha finito di essere filmato e 22 anni quando la pellicola è stata distribuita.

Leone ha avuto diversi incontri con ex-gangster come l'autore Harry Grey, in modo da poter ricreare l'America come se fosse vista attraverso gli occhi di Grey (gli speakeasy, ovvero le fumerie d'oppio e per tutto il resto)..

Nel 1980, Leone ha parlato di Paul Newman come possibile interprete di un vecchio Noodles e Tom Berenger come Noodles giovane, il ruolo di Max sarebbe invece andato a Dustin Hoffman, Jon Voight, Harvey Keitel o John Malkovich; Liza Minnelli sarebbe stata Deborah e Brooke Shields la giovane Deborah; e Claudia Cardinale sarebbe stata Carol.

La sceneggiatura è stata scritta in italiano da Leonardo Benvenuti , nel 1981, insieme al co-sceneggiatore Piero De Bernardi e Enrico Medioli, e a Stuart Kaminsky che hanno apportato dei cambiamenti appropriati per tradurla in inglese. Secondo Kaminsky, Benvenuti fu responsabile per l'elaborazione delle scene visive, Medioli ha mantenuto la natura epica del film, e Kaminsky stesso ha scritto tutti i dialoghi (Kaminsky ha anche collaborato con De Niro per garantire la caratterizzazione tra Max e Noodles come distinta da tutte le altre e sempre similare a sé stessa).

Come sceneggiatore Stuart Kaminsky è stato portato nel film in quanto lui stesso era ebreo e aveva scritto molti racconti mistery negli anni quaranta, e così avrebbe realisticamente potuto legare il film alla cultura ebraica e mantenere il mistero che circonda la vita di Noodles. Kaminsky. Egli era anche un ammiratore di Leone e del suo lavoro.

Leone avrebbe voluto per il film le apparizioni caratterizzanti di alcune delle stelle di Hollywood negli anni '40, in particolare George Raft, James Stewart, Henry Fonda e Glenn Ford.

Nell'ottobre del 1975 Leone visitò il Canada per cercare luoghi in una località vicino a Montreal, dove c'erano altri arredamenti e architetture della New York stessa degli anni '30 (e che aveva anche una sua storia come epicentro del proibizionismo). Durante questo periodo dichiarò che una parte della storia si sarebbe svolta in Canada, con un ruolo importante preparato per il franco-canadese cantante e attore Robert Charlebois.

Il bar di Fat Moe del 1968 è basato su un luogo attuale in cui Leone aveva incontrato Harry Grey, e dove era situato il bar, che su raccomandazione di Grey, si trovava nei pressi del nuovo cimitero Calvaire di New York , appena fuori Greenpoint Avenue, ed era stato, come Leone descrisse, "oscuro e sordido con la gente seduta ai tavolini nelle ombre che hanno conversazioni segrete e sussurrate. " Leone ha sostenuto che il barista, anche lui sembrava Fat Moe.

Dal 1980-82 Leone divide il suo tempo intervistando più di 3000 attori per oltre 110 ruoli in lingua (di questi, 500 audizioni sono state videoregistrate), tra sopralluoghi e il controllare la potatura e il rimodellamento dello script.

Leone era entusiasta di soddisfare il reale Noodles Aaronson, Harry Grey, e disse che assomigliava a Edward G. Robinson: "Il realismo grottesco di questo gangster anziano che, alla fine della sua vita, non riusciva a smettere di essere se stesso utilizzando un repertorio di citazioni cinematografiche, di gesti e di parole viste e sentite migliaia di volte sul grande schermo, ha stimolato la mia curiosità e mi ha divertito. Mi ha colpito la vanità di questo tentativo e la grandezza del suo fallimento. "

Robert De Niro è stato uno dei primi a venire contattati per essere nel cast, già per il ruolo di Noodles durante le riprese de “Il Padrino Parte II”, e in seguito fu attivamente coinvolto con la scelta dei restanti membri del cast.

Questo è stato l'ultimo film di James Hayden.

Gli squilli del telefono nella famosa sequenza sono 24.

Spoiler
I trivia e le curiosità seguenti possono rivelare importanti aspetti della trama.

Nella scena del camion della spazzatura, non fu James Woods, ma un altro attore suo sostituto a impersonare Woods. Questo ha prestato un senso di ambiguità per ciò che accade.

Leone fece capire che la scena finale del film (Noodles nascosto in una fumeria d'oppio nel 1933, immerso nei suoi effetti), potrebbe suggerire che il film era un sogno / visione indotta dall' oppio. Gli oppiomani spesso riferiscono di sperimentare vivaci fantasie, che tendono a esplorare il passato dell'utente e il suo futuro.

Leone intese che il film dovesse essere per primo un omaggio ai film di gangster degli anni '30.

Noodles visita la casa della sua infanzia similarmente che in “Strada sbarrata”.

Noodles prova una grande nostalgia per i giorni della sua giovinezza così come in “High Sierra”.

Come in “Angeli con la faccia sporca”, due compagni d'infanzia crescono fino ad essere molto diversi, e uno di loro visita i luoghi di ritrovo dell'infanzia ricordandone i vecchi tempi

I tempi che cambiano portano una nuova era nei sindacati e nella politica, similarmente che nelle “Belve”

Il gangster (Max) che si trasforma a poco a poco paranoico viene da “La Furia umana”.

La valigia alla stazione ferroviaria rende omaggio al "L'Urlo della città” e “Rapina a mano armata”.

La scritta "I tuoi uomini cadranno di spada" è stata presa da “Piccolo Cesare”.

Il rapporto tra Noodles e Deborah è simile al romanticismo di Eddie e Jean da “I Ruggenti anni venti”.

Le scene del teatro delle ombre cinesi sono un omaggio a “La Signora di Shangai”.

L'arrivo di Noodles a casa del senatore Bailey sono in parallelo ad una scena ne “Il Grande caldo”.

Nel 1968, Deborah recita in nell'Opera di William Shakespeare “Antonio e Cleopatra”. Questa riassume il rapporto di Noodles con Deborah: Noodles è sempre stato incantato e frustrato da Deborah, mentre lei lo ha condotto nei suoi pensieri e ossessionato per tutta la vita, e non è fino alla conclusione del dramma che rivela i suoi veri sentimenti per lui.

Il film è in gran parte basata sul romanzo semi- autobiografico del gangster, Harry Grey “A Mano armata” che già traeva ispirazione da altre due fonti letterarie: "Martin Eden” di Jack London, che è quella di un uomo che diventa disilluso per il suo mondo ( il libro appare effettivamente nel film), e “Il Grande Gatsby”, di Francis Scott Fitzgerald su di un uomo che diventa ricco e potente senza però diventare degno della donna che ama.

Secondo James Woods, la domanda che gli è stata posta più volte è se Max è morto nel camion della spazzatura. Fino ad oggi, non ne ha idea.
Napoleone Wilson