mercoledì 20 febbraio 2013

Another Silence

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La bella Marie, poliziotta, conduce un'ordinaria e rispettabile esistenza alle porte di Toronto, fino a quando una banda di delinquenti latinoamericani non le ammazza figlio e marito. Accantonando allora i sacri principi che il suo lavoro le ha sempre inculcato, ovvero giustizia senza vendetta, la donna rinuncia al distintivo per pianificare una diabolica rappresaglia che la condurrà tra Argentina e Bolivia.

Più che un film, quello di Santiago Amigorena, argentino trapiantato in Francia e attuale compagno di Juliette Binoche, parrebbe un'operetta talmente buffa da suscitare un che di ilare. Difficile spiegarne il perché o il percome, eppure sembra che tale sceneggiatura, elaborata con beckettiano amor per l'assurdo in compagnia di un certo Nicolás Buenaventura, sia stata precisamente predisposta a parodiare, seppur senza consapevolezza, quanto altrimenti, affidato ad altre persone, avrebbe pur maturato qualche frutto. L'inizio parte in sordina ma benino, con questo fatto di cronaca nera che, insoluto per via di una polizia sempre troppo caciarona per accalappiare i delinquenti, costringe Marie (Marie-Josée Croze, Le invasioni barbariche) a lubrificare la pistola di servizio e mettersi a caccia di chi le ha, chissà poi perché, sterminato la famiglia. Il che non mancherebbe di gettare qualche zona d'ombra sull'altrimenti morigerata virago, in particolare quando la donna, chiedendo consiglio a un losco mafioso col quale è entrata in intimità, riesce a ottenere le informazioni che la giustizia tradizionale non è stata in grado di fornirle. Si subodora (o si subodorerebbe) un che di “cronenberghiano”, con questa famiglia all'apparenza perfetta ma che forse, sotto sotto, aveva parecchie beghe da nascondere. Invece si tratta di una semplice parentesi, che nulla fornisce di aggiuntivo su quanto (non) sappiamo: perché alla fine della fiera i due disgraziati, padre e figlio, vengono giustiziati a mitragliate più per trascinare la becera sinossi da qualche parte che per una motivazione logica. Cioè, lo si dà come fatto evenemenziale, attorno al quale si costruisce sì la vendetta, ma senza che il nostro Amigorena sia in grado di allacciare le fila del discorso e tesserci una struttura narrativa forse non credibile ma almeno saporita. Il regista inizia il suo film con un brutale fatto di sangue, tenta di imbracciare l'arma del noir d'essai, e poi lascia che i nodi narrativi appena strutturati vadano alla deriva, pretendendo al contempo che lo spettatore sia così boccalone da stare al gioco. Due tizi sono assassinati nel modo più brutale e ignobile. Perché? Non si sa. La polizia non ha indizi su cui lavorare nonostante il delitto sia stato ripreso dalle telecamere di sicurezza. Perché? Non si sa. Marie, entrata prima in depressione, reagisce quindi domandando consiglio a un losco figuro di cui è amica. Perché? Non si sa. Il losco figuro risolve da solo il caso, dicendole chi andare a cercare. Perché? Non si sa. Ma su questo potremmo anche soprassedere, se almeno il film si riscattasse sotto il profilo registico, se ci regalasse qualche emozione capace di farci strabuzzare gli occhi dalla sorpresa.

Invece va sempre peggio, soprattutto quando l'impavida Marie, dopo aver azzoppato l'autista della strage nell'unica scena degna di nota, se ne vola in Sud America alla ricerca del fantomatico Pablito (Ignacio Rogers che, ulteriore assurdità, viene a tutti descritto come un giovinetto rasato nonostante non lo sia, ma da tutti, miracolosa rivelazione, riconosciuto come tale). Si presume perciò che la belle damme sans merci abbia approntato un tremendo piano per disfarsi del fuggiasco nel modo più crudele che la razionalità della vendetta è in grado di stimolare, invece la vedova sconsolata non sa assolutamente che pesci pigliare, così se ne va a zonzo di paese in paese, bussando ora a una catapecchia, ora a un malandato palazzo di malfattori: “Pablito, Pablito, dónde está Pablito?” Come se uno andasse a Napoli, armato di pistola, a urlare a tutti i rioni che vuole ammazzare il boss che gli ha fatto un torto ritenendo di uscirne vivo. Inoltre la nostra giustiziera in salsa latinoamericana si sposta esclusivamente su mezzi pubblici, raggiungendo le località più assurde a bordo di antiquate corriere e aspettando ore o addirittura giorni interi tra una coincidenza e l'altra. Prendersi una macchina, no? Infine ecco che la donna sorprende il compagno di merende di Pablito, azzoppa pure lui in mezzo alla strada, e se ne va a testa alta senza pensare che forse il criminale, vivo e vegeto benché ferito, potrebbe avvisare il proscritto, conferendogli tutto il tempo necessario per organizzarsi. Cosa che ovviamente avviene. Eppure la banalità della situazione non dissimula nemmeno per un istante l'incrollabile sicurezza di Marie, che braccata dalla mafia ispanica, quella stessa mafia che difende Pablito incaricandolo nel frattempo di ulteriori omicidi, trascorre ore e ore (in pratica la metà del film) sull'autobus e fissare con aria contemplatrice il paesaggio o a pasteggiare in qualche bettola incontrata cammin facendo. Il finale (sublime esempio di idiozia creativa) non lo si svela più per pietà che per principio, ma assicuriamo l'eventuale spettatore che ne vedrà di belle.

Marco Marchetti


















2 commenti:

  1. Non fatevi infinocchiare dalla confezione da film impegnato, locandina in testa...

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  2. stranissimo questo film. certe situazioni sono veramente di un improbabile totale, però alla fine lo guardi lo stesso e - per me almeno - con piacere. belle le scene aperte sui paesaggi argentini

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