lunedì 25 febbraio 2013

Kon-Tiki

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Se appena pochi anni fa qualcuno avesse proposto un'ipotesi di nomination agli Oscar per Joachim Rønning ed Espen Sandberg, norvegesi entrambi, le cateratte del cielo si sarebbero aperte, anzi, fracassate, e dalle nubi incendiate per cotanta spavalderia sarebbero scaturire fiumane di mefitico zolfo subito indirizzate al proferitore di simile bestemmia. D'altronde esportare Bandidas (2006) oltre il reticolato di filo spinato che al solito delimita la riserva del trash era operazione alquanto imbarazzante persino per chi il trash lo sostiene e diffonde; e scoprire, ad appena sette anni dall'improbabile profezia, che gli impenitenti scandinavi hanno avuto modo di fare pubblica ammenda e accaparrarsi le simpatie della critica americana, si rivela ancor più disagevole per chi, al contrario, al duetto di registi ha sempre dato del filo da torcere.

Non farsi piacere Kon-Tiki è cosa assai ardua, non perché sia bello di per sé, piuttosto perché sembra un prodotto infiocchettato apposta per gli Academy Awards 2013 (una nomination nella categoria “film stranieri”), con tanto di carta spumeggiante e nastro arricciolato al seguito. Rønning e Sandberg tornano a fare i bravi ragazzi, sempre con contorno in salsa a stelle e strisce, e lo fanno levigando i ghiribizzi caciaroni di Bandidas (scordatevi la Hayek e la Cruz, semisvestite, che lesbicano duro a cavalcioni di un ammanettato Steve Zahn) fino a riportare la pellicola al formato squisitamente classico del racconto cinematografico. Niente eccessi, nessuna bruttura.

Il risultato è affidato a un cast affiatatissimo e di indiscutibile pregio, chiamato a rivestire i panni (reali) dei sei membri di una spedizione di esploratori che, a bordo di una semplice zattera di corda, legni e bambù, salparono dai litorali cileni nel 1946 per raggiungere i polinesiani circa cento giorni dopo. I coraggiosi sono presto elencati: Thor Heyerdahl (Pål Sverre Valheim Hagen), Erik Hesselberg (Odd Magnus Williamson), Beng Danielsson (Gustaf Skarskård), Knut Haugland (Tobias Santelmann), Trostein Raaby (Jakob Oftebro) ed Herman Watzinger (Anders Baasmo Christiansen). Lo scopo di tutto ciò? Dimostrare le teorie dell'anzidetto Heyerdahl (1914-2002), antropologo norvegese, secondo il quale la Polinesia francese non sarebbe stata colonizzata dall'ovest, bensì da alcune popolazioni pre-colombiane che, usando zattere al posto di più sicure imbarcazioni, avrebbero solcato il Pacifico partendo dalle coste meridionali dell'America Latina. Appunto da oriente, cioè da dove ogni mattino, da millenni a questa parte, risplende in tutta la sua primitiva gloria l'immortale dio-sole Kon-Tiki (da cui anche il nome della leggendaria zattera, attualmente conservata all'omonimo museo di Oslo).


Il film è un piccolo gioiello, che parte come un'opera tipicamente norvegese (l'infanzia tra i ghiacci di uno Heyerdahl bambino) per poi divenire una pellicola d'esplorazione ambientata lungo le burrascose correnti del sud, tra squali affamati, improvvise tempeste e un clima tropicale capace di far perdere la ragione anche al più integerrimo degli idealisti. Naturalmente i nostri eroi terranno duro e vinceranno la sfida, dimostrando al mondo intero e soprattutto a se stessi che la cultura è ancora in grado di dominare la natura, e che la caparbietà della ricerca, della fiducia e persino della fede in qualcosa possono aprire orizzonti e aspettative altrimenti ritenute precluse o perlomeno difficilmente raggiungibili. Rønning e Sandberg dirigono da maestri, con un senso della regia sobrio e pulitissimo, attori straordinari e una fotografia (ad opera di Geir Hartly Andreassen) sgargiante come i mari sulle cui acque il film è ambientato. Il momento in cui i nostri si ritrovano a squartare un pescecane ancora vivo ha del sublime, con budella e schizzi di sangue ovunque, interiora che inzaccherano volti e corpi luccicanti di sudore, pezzi di carne che affondano tra le dita e si spalmano lungo gli avambracci; l'apparizione delle balene che rischiano di collidere con la chiatta è invece d'obbligo, mentre le meduse fluorescenti che illuminano la notte con i loro spettrali bagliori, per quanto scontatissime, riescono ancora a sedurre con semplice e garbatissima sorpresa. Tralasciamo i canonici riferimenti a Herzog che sembrerebbero circostanziali (ma perché citarlo sempre quando si ammira un film sulla natura incontaminata e sulla volontà di dominarne gli aspetti più incontrollabili?), e spendiamo piuttosto due parole sulla tanto decantata zattera: la ricostruzione fornita da Karl Júlíosson e Lek Chaiyan Chunsuttiwat, scenografi, è un capolavoro progettuale che ha dell'invidiabile; un piccolo appartamento galleggiante non dissimile da una moderna imbarcazione, soltanto di poco più spartana e arredata con materiali riciclabili e presenti in natura da tempi immemori. La percezione che se ne ha è quella di una struttura accogliente e tremendamente domestica, all'apparenza addirittura fuori luogo per un viaggio così fortunoso, proprio come fuori luogo sono gli eleganti completi dei navigatori all'indomani della partenza.

Il problema principale è che questa pellicola altrimenti eccezionale, escludendo la già annunciata indiscutibilità di merito tecnico, pecca di retorica praticamente per le sue quasi due ore, cosa che forse non noteranno gli estimatori dei vari Vita di Pi e Beasts of the Southern Wild, ma che alla bocca di uno spettatore abbastanza smaliziato assume un indefinibile ma onnipresente retrogusto da saggetto scolastico; i due abili norvegesi sfornano la pietanza con notevole bravura e altrettanto compiaciuta affinità per il dettaglio e l'arzigogolo, peccato però che l'estetica di un bellissimo piatto servito su vasellame d'argento finisca in più di una occasione per annacquare il sapore di fondo, rendendo più difficile cogliere le sfumature e attenuando al contempo l'asprezza di una tonalità nascosta al palato. Insomma, Kon-Tiki è dannatamente ammaliante, con le sue luci morbidissime, i suoi spazi fantastici e fantasiosi che, pur non conservando quasi nulla di specificamente settentrionale, ereditano dal Sacro Spirito del Nord il medesimo retroterra registico, l'attenzione per l'ambiente sconfinato, la natura e i silenzi contemplativi; eppure manca di quel qualcosa che permetta di elevarlo dalla dimensione superficiale di film(etto) avventuroso alla sfera dei magnifici. Non era facile ambientare un lavoro così corposo quasi interamente su una zattera: le premesse erano audaci, certo, ma inficiate a prescindere da una visione “fanciullesca e morigerata” della storia (scritta, nel caso specifico, da Petter Skavlan). L'inizio procede a scaglioni tra loro giustapposti, il nostro Heyerdahl che girovaga per il mondo accompagnato dalla fedele consorte (Agnes Kittelsen), pure lei antropologa e accomunata dalla medesima sete di conoscenza e dallo stesso inappagabile desiderio di esplorare territori inediti e selvaggi; quindi la spedizione, organizzata tra mille difficoltà logistiche, rifiuti, accuse di impossibilità avanzate tanto da esperti marinai quanto da sedicenti accademici e universitari; infine il viaggio, infinito e pedissequo, interrotto solo da pochissimi diversivi, dialoghi insistenti e qualche scena abbastanza azzeccata ma in fin dei conti non così originale da lasciare il segno. Appena iniziato, il film suggerisce sin da subito i propri presupposti, e mentre il pubblico immagina il finale, forse perché già implicito nell'idea che la storia sottende, ecco che ogni istante comporta il successivo, e il successivo quello dopo ancora. Troppa cura per le minuzie, troppa poca attenzione per l'insieme, e alla fine un sacco di elementi si danno per scontati. Bravi entrambi, cari Rønning e Sandberg, ma si tratta di un applauso per due terzi di circostanza e soltanto per uno di meraviglia.

Marco Marchetti


1 commento:

  1. condivido su tutta la linea. certo, è un film che "ammicca", piacione, ma è veramente bello e gradevole, apprezzabile da ogni fascia d'età e censo con facilità. le immagini con le meraviglie faunistiche del mare sono bellissime

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