lunedì 22 aprile 2013

Appaloosa

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Appaloosa è un film che ha diviso più il pubblico che la critica, almeno scartabellando quel che si legge in rete, ed è difficile capire perché dal momento che si tratta di un western comunque ben girato, ma assolutamente lontano anni luce dalle grandi epopee del cinema. Sarà che lo spettatore medio ha poco gusto per le cose belle, e troppa sensibilità per le mediocri, sarà che di western ormai se ne fanno talmente pochi che si tende per natura a preservarne gli esemplari dall'estinzione; alla fine, però, di Appaloosa, nome della cittadina in cui si svolge la vicenda, resta ben poco oltre a una indefinibile sensazione di tedio, che si conficca nel primo terzo della pellicola, crepandola come una lastra di cristallo, e ne infrange la superficie nell'ultima parte, lasciandoci basiti per una conclusione frettolosa che, paradossalmente, non conclude nulla.

Il regista è Ed Harris, qui alla sua seconda prova registica dopo il biografico Pollock (2000), che ha dichiarato di essersi ispirato ai classici del genere come Quel treno per Yuma (1957) o L'uomo che uccise Liberty Valance (1962), ma che invero parrebbe aver subito innanzitutto le influenze dell'hawksiano Un dollaro d'onore (1959) con John Wayne e Dean Martin. Si, perché le connessioni tra le due pellicole sono tante, non nell'impalcatura quanto nello spirito che in qualche modo ne lega indissolubilmente le estremità, e se non è sbagliato dire che Appaloosa è una citazione del western di un tempo, di sicuro non lo è nemmeno affermare che mantiene questo primato soltanto nella misura in cui, sia questo lavoro che quello a cui indirettamente è ispirato, rappresenta(no) una negazione dell'epica stessa e del concetto di spazio sotteso alla categoria. Ed Harris realizza un western che non ha niente di monumentale, nemmeno le praterie e i deserti, qui inquadrate per dovere d'ufficio, limitate alle murature perimetrali della cittadina da difendere o di qualche avamposto ispanico approntato ai tempi delle guerre di confine. Stessa cosa che, seppur con mezzi e forse finalità differenti, faceva il buon Howard Hawks quando inseriva nella cella di paese Joe Burdette, fratello del perfido Nathan, atto audacissimo che scatenava le ire del congiunto, la sollevazione dei manigoldi al suo servizio, nonché l'eroica, suicida resistenza dei buoni: lo sceriffo, il vice-sceriffo ubriacone e un pistolero imberbe ma con tanta voglia di imparare il mestiere della giustizia. Per il resto non succedeva nulla, si stava ad aspettare un attacco alla prigione, pochi desperados contro una banda di malviventi e assassini, ma incredibilmente accomunati dal desiderio di riscattare le proprie umili esistenze all'insegna di una missione di più grande importanza etica.

In Appaloosa torna il medesimo costrutto, variabile negli accordi ma assonante nella melodia, ci sono sempre due personaggi cardine, anzi tre, il tutore della legge Virgil Cole (Ed Harris) e il suo braccio destro, Everett Hitch (Viggo Mortensen), assoldati dopo la morte dei predecessori per mano dello spavaldo possidente Randall Bragg (Jeremy Irons), nonché la donna della situazione, la frivola Allie French (Renée Zellweger). Tutti sottilmente connessi all'anzidetto Bragg, scaltrissimo assassino e ancor più scaltro politicante, che una volta preso in custodia per i delitti anzitempo commessi, finirà per aprire una faida sanguinosa tra i paladini della legalità senza ritorsione e la banda di farabutti suoi famigli. Compito dei nuovi sceriffi sarà infatti amministrare l'ordine con pugno di ferro in guanto di velluto, ovvero dosare nel modo che riterranno più corretto le armi dell'equità con quelle normalmente infilate nella fondina appesa alla cintola. Il che sarà pure nobilitante a livello di principio, ma difficile da mettere in pratica, soprattutto nel momento in cui un testimone oculare, il giovanissimo stalliere di Bragg, punta il dito addosso al padrone accusandolo di omicidio. Come dicevamo, Cole e Hitch arrestano Bragg, ma appena emessa la sentenza di condanna, l'uomo viene prontamente liberato dai suoi scagnozzi, che prima hanno rapito Allie, promessa sposa dello sceriffo, quindi ne hanno utilizzato la testa come preziosa merce di scambio per riavere il maltolto. Per fortuna i due non si daranno per vinti, e fronteggiando il pericolo, la paura e le numerose minacce dell'altolocato colpevole, appronteranno un piano per salvare la donna e riconsegnare il criminale alla legge.


Harris e Mortensen tornano a recitare insieme dopo A History of Violence (2005), e lo fanno in un modo straordinario e indescrivibile, pieno di silenzi rarefatti e sottesa complicità, tutta giostrata su un'amicizia virile, così tipicamente western seppur di gradazione appena più soffusa, che porterà il secondo a una lealtà quasi servile verso il primo; e il primo a delegare ogni funzione burocratica e legislativa al sottoposto quasi fosse un'emanazione astratta di sé. I due parlano poco, si capiscono a cenni, e qualora nemmeno i cenni bastassero, un sopracciglio inarcato o un'aggiustata di cappello sono segnali più che sufficienti a suggellare l'avvenuta comunicazione. Anche il rapporto che li lega a doppio filo con Allie è particolare, e questo è un aspetto piuttosto interessante nel genere, giacché di rado abbiamo visto una donna, poco sopra definita frivola, ma più correttamente libertina, capace di ammaliare e sedurre anziché rappresentare tutto sommato i valori tradizionali del “settlement” e della buona famiglia americana. Non ch'ella sia effigiata come una smaliziata ragazza costretta a vivere di espedienti, ma al contrario parrebbe una borghesotta ben integrata e con parecchi progetti per la testa (ultimare il proprio nido d'amore per viverci con Cole), nonostante alcune sue stranezze comportamentali la portino a circuire, pur senza riuscirci, il fedelissimo dell'amato, quindi a concedersi ai banditi che l'hanno in custodia. Non lo fa per calcolo, perché in fin dei conti è una simpatica ingenua, ma solo per vizio. Cole sa ma non vuole vedere, mentre Hitch, nel tentativo di preservare intatta l'onestà che lo stringe indissolubilmente al capo, arriverà al punto di mettere in gioco se non la propria vita, di sicuro il sacrosanto diritto alla libertà (soprattutto quella sancita dalla legge) sfidando a duello il diabolico Randall Bragg; benché egli, graziato dal Presidente in persona, sia ormai un uomo legalmente senza macchia.

Harris appronta bene le sue pedine, tutto si incastra alla perfezione in una sceneggiatura pressoché ottimale, stesa dallo stesso regista e tratta dall'omonimo romanzo di Robert Brown Parker; peccato che la ciambella non abbia il buco, o se ce l'ha è talmente piccolo che quasi non lo si nota: il ritmo complessivo è decisamente lento, le scene morte finiscono per eclissare le asssai poche, rigorosamente numerate sparatorie, i personaggi vanno a zonzo per la metà del tempo e per l'altra metà inforcano cavalli e preparano le pistole per un duello sempre troppo atteso per interessare davvero lo spettatore. Sarà pure il crepuscolo del genere, ma della melanconia di un Sam Peckinpah non c'è traccia, né musicalmente, né narrativamente, né sotto il profilo registico, e così è la mediocrità di una storia che non decolla, benché costruita con grande cura per il dettaglio, a dettare il ritmo. Insomma, Appaloosa è un western più di forma che di sostanza, condito da grandissimi attori protagonisti e da qualche personaggio minore nella storiografia del cinema, ma non per questo meno importante a livello di mera resa qualitativa (pensiamo a Lance Henriksen, qui nella parte di Ring Shelton, il leguleio assunto da Bragg per rapire la Zellweger, nonché al geniale Timothy Spall, che veste i panni di Phil Olson, il maneggione di paese che assume in qualità di sceriffi la coppia Harris-Mortensen). Harris ha molta testa, poco cuore, ancor meno coraggio. Sarebbe bastato un pizzico di formalismo in meno e una sfarinata di crudezza in più per rendere il suo secondo lungometraggio un magnifico esemplare. Invece resta la delusione di chi, odorato un piatto di raffinatissima cucina, scopre che manca di condimento in maniera tanto palese da renderne impossibile la degustazione. Al ristorante si glisserà sulla caduta di stile, ma al cinema, chi si accontenta poi si addormenta.  
Marco Marchetti









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