giovedì 11 aprile 2013

Nel più alto dei cieli

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Oggi è uno di quei nomi (ingiustamente) caduti nel dimenticatoio, eppure Silvano Agosti, regista più sfortunato dei suoi compagni di merende, Marco Bellocchio e Liliana Cavani, ha dei meriti che di certo non lo farebbero sfigurare accanto a nomi di gran lunga più istituzionali. Montatore, letterato, attore e tecnico della fotografia, il nostro esordisce dietro la macchina da presa nel 1967 con Il giardino delle delizie, per realizzare negli anni seguenti pochi ma intensi gioielli del cinema nostrano: due in particolare si ricordano con stima e nostalgia, ovvero N.P. Il segreto (1971), satira fantapolitica con Irene Papas e Francisco Rabal che tratta di un ingegnere alle prese con un macchinario capace di convertire la spazzatura in prodotti alimentari (strumento utilizzato poi dallo Stato per annientare il proletariato urbano); nonché questo Nel più alto dei cieli (1977), ritorno al lungometraggio dopo il collettivo e (purtroppo) più celebre Matti da slegare, diretto con il già citato Marco Bellocchio, Sandro Petraglia e Stefano Rulli, quest'ultimo tra gli autori del sulfureo copione.

La pellicola di Agosti comincia e finisce in un ascensore del Vaticano, ove è convenuta, per conferire in udienza col Santo Padre, la variegata delegazione di una clinica: c'è un po' di tutto, tra questi personaggi, dal medico al sindacalista, dal prete alla suora, dalla paziente un po' tocca all'acculturato marxista. Peccato che l'ascensore papale, diretto appunto nel più alto dei cieli, parta per non fermare mai la propria corsa disperata, e mentre l'indicatore segnala un numero di piani assolutamente elevato e tendente all'infinito, ai prigionieri diventa sempre più chiaro, passando le ore, i giorni, le settimane e forse persino i mesi, che non esiste alcuna destinazione. E che forse, addirittura, l'ascensore non si sta nemmeno muovendo. Cominciano le nevrosi, gli isterismi, i morsi della fame si fanno laceranti, ci si accapiglia d'improvviso, i tabù cadono e le pulsioni più depravate prendono piede. Un sacerdote concupisce una ragazzina (che maliziosamente sembra gongolarsi per le sue attenzioni), un altro viene ammazzato per errore e divorato dai consimili e infine, perse le speranze, chiunque attende la morte del prossimo per cibarsi del suo cadavere. E se s'attarda a spirare, lo si aiuta di quanto basta.

Silvano Agosti riscrive James Ballard, aggiorna Themroc, altro film a tema e persino con un'attrice in comune, Francesca Romana Coluzzi, e lo abbellisce di particolari ancor più crudi e inquietanti: è vero che l'antropofagia è più suggerita che mostrata, eppure i preti che cagano in un buco del pavimento e si puliscono il culo con il saio, o le suore che scopano con chiunque anziché invocare l'intercessione divina, permettono allo spettatore di perdonare le eventuali delicatezze di stile. Ma è l'atmosfera che Agosti riesce a creare il vero punto di forza della pellicola: nel carnaio umano, dove è dichiarata la guerra dell'individuo verso la collettività, e l'accanimento della collettività nei riguardi dell'individuo, ciò che colpisce è forse più l'attesa della fine che la sua rappresentazione. Vedere questi corpi ammassati, consunti dall'inedia, dal respiro bolso e dagli occhi intorpiditi, coperti di sangue, merda e paura, funziona ancor meglio della violenza brutale che tali reietti riescono comunque a inscenare. Tra gli attori: Livio Barbo, Giorgio Bonora e Francesco Costa, Alberto Cracco e Gisella Burinato (entrambi “bellocchiani”) nonché Edy Biagetti e Clara Colosimo, volti piuttosto noti nel bis dell'epoca.

Marco Marchetti






5 commenti:

  1. un film visto di recente che m'ha inquietato a dismisura... assolutamente da vedere! bravi per la recensione

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  2. peccato che Agosti abbia potuto girare pochi film, e tutti indimenticabili;)

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  3. che cinema incredibile che avevamo... N.P. Il segreto s'ha da fare eh! niente da aggiungere alla rece, e ottima scelta

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  4. grazie Napoleone, refuso corretto. ho controllato anche in Themroc ma là era già scritto bene

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