sabato 31 marzo 2012

Stephen King's Disciples ot the Crow (aka: The Night of the Crow)

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Cortometraggio ispirato al racconto "Children of the Corn" originariamente pubblicato nel marzo 1977 su Penthouse e poi edito nella famosa e ampiamente saccheggiata raccolta "Night Shift" (1978) in Italia "A Volte Ritornano", girato un anno prima della trasposizione cinematografica ufficiale di Fritz Kiersch,"Children of the Corn/Grano Rosso Sangue" (1984) con Linda Hamilton e Peter Horton.

Dirige e sceneggia l'allor giovine John Woodward con l'amico Johnny Stevens a curare la fotografia, e si può tranquillamente affermare che si tratta di una pregevole riduzione del breve testo kinghiano, tenuto conto del budget miserrimo, molto, molto fedele allo spirito e all'atmosfera del racconto d'origine. Sembra un film uscito dritto dai seventies, con un sottile ma costante senso d'inquietudine che dura dall'inizio alla fine. La trama è nota, i bambini di una comunità di agricoltori dediti alla raccolta del grano, in preda ad un delirio mistico, uccidono tutti gli adulti sacrificandoli alla misteriosa entità conosciuta come "Colui che cammina dietro i filari". Capitati per sbaglio nella cittadina di Gatlin, Nebraska (il corto è invece ambientato in Oklahoma), Burt e Vicky (Eleese Lester e Gabriel Folse), coppia in crisi, si ritroveranno braccati dai giovani assassini.

Molto efficace, specialmente nella prima parte, questo esordio di Woodward, in particolare nel sottolineare l'atmosfera minacciosa e desolata della cittadina, in questo senso la scena iniziale in chiesa, con il volto di Cristo che si tramuta in teschio e i bambini che si scambiano un silenzioso messaggio all'insaputa degli ignari genitori, è notevole e degno di essere ricordato. Il massacro dei genitori è solo suggerito (la scena notturna con il bambino che si presenta in camera della madre con ascia in pugno) ma è cosa che non rovina affatto la fruizione dell'operina di Woodward che, anzi, corre spedita fino alla conclusione senza tediare lo spettatore, complice pure la breve durata dell'operazione tutta. Una trasposizione dignitosa, fedele al racconto di King (con qualche inevitabile cambiamento avvenuto per ragioni di tempo e budget, finale a parte, che si distacca dalla versione dell'autore) che trova nel cortometraggio la sua dimensione ottimale, anche se la saga di "Children of the Corn" conta una cosa come nove capitoli (con alti e bassi paurosi, compreso il recente remake televisivo diretto dal produttore del capostipite Donald P. Borchers).

Il corto di John Woodward (che girerà solo altri due titoli, il delirante "Neurotic Cabaret/Attrazione Carnale della mia Vicina", 1990 che non è un porno e "Vice" [2000] ma distribuito solo nel 2005 con Bo Hopkins e Randall "Tex" Cobb) fa parte della famosa o famigerata filiera dei cosiddetti "Dollar Babies", cioè quelle trasposizioni su pellicola che Stephen King concedeva ai giovani filmakers e agli studenti di cinema facendosi pagare i relativi diritti per un solo dollaro, godendo di un permesso speciale e di un contratto di esclusività firmato con l'autore. I più famosi tra i "Dollar Babies" sono senza ombra di dubbio il corto dell'allora giovanissimo Frank Darabont "The Woman in the Room" (sempre da "Night Shift") e "The Boogey Man" di Jeff Schiro, senza contare il piccolo film di Woodward, editati poi in VHS dalla Granite Entertainment Group Interglobal Home Video nel 1986 per la serie "Stephen King's Night Shift Collection". Disponibile pure da solo con il corto "The Night Waiter". Vabbè.

Buona visione.

Belushi

venerdì 30 marzo 2012

L'arte di arrangiarsi

4
Film del progetto "100 Film italiani da salvare".

Sordi al prete: "Non ci sono dubbi, i comunisti vinceranno e comanderanno". Vittoria della Democrazia Cristiana e lui subito ne diventa simpatizzante.

Alberto Sordi è stato uno degli attori italiani principali nella fase post la Seconda Guerra Mondiale, girando un film dopo l'altro, e apparendo in capolavori come "I Vitelloni" di Fellini, per citare solo un esempio dei più famosi, qui affrontato poco tempo fa da Roby, o apparire in splendide e incisivamente graffianti commedie del periodo come questa “L'Arte di arrangiarsi” diretta dal grande Luigi Zampa, e sceneggiata da Vitaliano Brancati, dalla riduzione di un suo romanzo. Uno dei film più famosi e rappresentativi della sua carriera per tutto il periodo degli anni '50. E pensare che pare egli non fosse mai stato molto esigente a riguardo dei film che faceva. Fortunatamente però, ha incontrato alcuni registi che lo hanno saputo dirigere e usare le sue abilità, con grande acume e maestria: non solo Fellini e Zampa, ma anche Risi, Rosi ... eccetera.

Colui che da questo film si aspetti solamente un altro veicolo per la stella Sordi, scoprirà dopo soltanto cinque minuti quanto questo film sia molto più sottile. Infatti, Sordi interpreta ancora una volta uno di quei personaggi meschini che ha interpretato spesso, ma che fortunatamente, non è stato tratteggiato soltanto in lode alla simpatia e al magnetismo irresistibile di un Sordi istrionico ma temperato, e veramente all'apogeo della forma, ma anche con crudeltà e sincerità. Con la storia di Sordi/Sasa Scimoni, personaggio di voltagabbana e disonesto per eccellenza, Zampa racconta ambiziosamente e con grande senso del ritmo, quarant'anni o giù di lì di storia italiana con acre e feroce ironia e un gustosissimo, ma anche salacissimo humour nero, ritraendo la società italiana con le unghie ben affondate in tutti i suoi patologici, e tarati, enormi difetti. Riuscendo efficacemente a tenersi in equilibrio tra l'approfondimento di personaggi mai superficiali (memorabile quello interpretato da Turi Pandolfini), la piacevolezza e la lievità d'intenti dell'intrattenimento, e come sempre per Zampa, senza rinunciare a cercare d'imbastire anche un discorso serio e una storia che vada a parare verso precisi, e importanti significati. E con una buona dose di moralismo doverosamente necessario. Il personaggio principale del film è sempre iperattivo ma alla fin fine perdente, un esperto nel restare sempre lontano dalle battaglie e dal fuoco dell'impegno in alcunchè e in prima persona, il cui unico interesse nella vita è di essere sempre non a corto di donne denaro, e potere. Insieme a tutte le prodi viltà commesse una dopo l'altra da Sasà, attraversiamo dal 1910 al 1950 quarantanni particolarmente travagliati della storia italiana. Impossibile sopravvivere attraverso un periodo così ricco di eventi senza ottenere di bruciarsi neanche un dito, come Sasà ben imparerà.

Zampa dimostra con questo che è giustamente considerato uno dei suoi film migliori, di essere stato un grande satirico dei malcostumi e dei peggiori vizi congeniti di un certo “Homo Italicus”, dallo sfrenato opportunismo,ovvero quasi un mostro, in un film appunto satirico e dall'impatto e dalla forza non da molto meno, di opere come quelle di Risi, o Fellini. Si può ben dire ciò anche all'evidenza di quanto “L'Arte di arrangiarsi” sia una commedia estremamente ben scritta, persino troppo, e nella quale Sordi è in una forma mattatoriale eccellente ma anche misurata e perfetta per il film, strepitoso come commentatore dalla voce off quando non è in scena, la quale rende il film estremamente pungente come oggi neppure si sognerebbero di concepire, gradevole e divertentissima, e non solo per gli appassionati di Sordi o per coloro che come me, amano le commedie italiane degli anni '50 -'60. E se Sordi pensi di averlo già visto diverse altre volte nel ruolo cucito apposta per lui di incrollabile e spregiudicato opportunista, -seppur raramente come qui impersonando un siciliano molto “romano”-, in questo film ti stupisce oltre che per i continui guizzi, anche per la sobrietà e il senso della misura che applica nella sua memorabile interpretazione.

Diverse sono le scene memorabili. A partire proprio dall'amaro e irresistibile finale, già introdotto all'inizio del film, laddove esploderà tutta la sua rabbia tutta la vita trattenuta e non voglio svelare perché, o nei vari passaggi storici italioti strepitosamente attraversati dal Sordi in tutta la sua impavida ignavia, quasi in una testimonianza storica della viltà e dell'amoralità di un certo tipo di italiano “medio”, super trasformista e da egli così ben impersonato nel film. Come quando si fingerà ovviamente pazzo, o sempre malato e di cagionevole costituzione per evitare l'arruolamento alle armi e la partenza in guerra, e nel passaggio eccezionale della sua adesione dai socialisti al PNF con strepitoso sfoggio di ridicolissimi esercizi atletici ai Giochi Ginnici in una sequenza graffiante, e che si imprime nella memoria, salvo poi certo rifiutarsi di saltare nell'anello di fuoco; per poi subito dopo la liberazione come tanti passare ad indossare addirittura la camicia rossa, anche grazie alla quale diventerà un produttore cinematografico, per poi quella maggiormente utilitaristica del “Biancofiore” DC, sempre inutilmente ma sempre con estrema adesione e mimesi propagandistica per ognuno di questi partiti.

Grande e mai didascalica ma anzi complessa e narrativamente importante, la parabola del nostro protagonista sempre in cerca di lucrare con i suoi mulini fallimentari, attraverso un susseguirsi di scene esemplari che raffigurano i vari periodi storici decennio per decennio, del '900 italiano. Sordi attore è talmente bravo che fa sì che il suo personaggio non debordi mai, o si mangi il film e non faccia dimenticare con la sua simpatia la repellenza che il personaggio vuole emanare, seppur sempre con una luce di cristiana pietà, che è quella infusagli dalla regia di Zampa e dalla penna di Brancati.

Momento memorabile: La cena, costellata di goffi tentativi di corruzione, che Sasà/Sordi offre al tecnico del Comune che deve valutare due suoi progetti immobiliari.

Visto di censura italiana # 17853 in data 22-12-1954.

Napoleone Wilson

giovedì 29 marzo 2012

Kanal - I dannati di Varsavia

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Varsavia, durante la seconda guerra, fu teatro di due rivolte, entrambe contro i tedeschi. Una, della quale parleremo appena trovo un film che la narra, è la "Rivolta del ghetto di Varsavia", tra aprile e maggio del 1943. L'altra, che è oggetto di questo film, è nota semplicemente come "Rivolta di Varsavia". Entrambi eventi che videro i polacchi soccombere tragicamente in un bagno di sangue.

L'1 agosto 1944 i russi erano alle porte della città, i tedeschi ormai soccombenti su tutti i fronti, e la popolazione insorse, nell'intento di partecipare attivamente alla liberazione. I resistenti erano composti in buona parte da ciò che restava dell'esercito. Molti soldati si erano infatti arruolati nelle forze alleate e combattevano in diverse parti dell'europa (sotto il comando di inglesi e americani), mentre quasi tutti gli ufficiali furono fatti massacrare da stalin nel 1940 quando ancora era alleato con hitler, il c.d. "Massacro di Katyn" sul quale lo stesso Andrzej Wajda ci ha fatto un ottimo film: "Katyn". Altri resistenti arrivavano dalla popolazione civile che dopo l'inizio della rivolta aveva una scelta quasi obbligata: unirsi agli insorti o perire nei rastrellamenti.

L'aiuto dai russi non arrivò. Cito da wiki: "Il tragico fallimento dell'insurrezione, spietatamente schiacciata dalle forze tedesche dopo due mesi di battaglia cittadina, e soprattutto le cause di questo fallimento, principalmente ricondotte da alcune correnti storiografiche al mancato soccorso dei rivoltosi da parte dell'Armata Rossa, sono tuttora materia di vivaci diatribe storico-politiche. [...] Lo sperato soccorso sovietico non vi fu, in primo luogo per le difficoltà dell'Armata Rossa sulla riva destra della Vistola (sobborgo varsaviano di Praga), dopo la dura sconfitta subita delle unità corazzate sovietiche, contrattaccate di sorpresa da alcune Panzerdivisionen tedesche (Battaglie di Radzymin e Wolomin del 1-10 agosto 1944); e inoltre anche per la volontà politica di Stalin di non aiutare la rivolta nazionalista a vantaggio di un successivo insediamento di strutture politico-militari polacche filosovietiche organizzate nel cosiddetto "Comitato di Lublino" e nell'Armia Ludowa."
Personalmente propendo per la scelta politica del dittatore sovietico.

Era doveroso citare queste notizie storiche, anche perché il film in questi termini non ne parla o quasi, una chiara scelta di sceneggiatura comprensibile, dobbiamo anche considerare l'anno di produzione del film, che il regista stesso è polacco e in quale regime si trovava la Polonia. Ciononostante, proprio per questa "mancanza", non posso mettere quest'opera nell'Olimpo, ma nel Partenone ci alloggia con lode non foss'altro per i meriti puramente cinematografici.

Gli insorti, ridotti a poche decine ed accerchiati, a un certo punto non hanno altra via di fuga che per le fogne e buona parte del film si svolge appunto in quel disperato e claustrofobico tentativo di mettersi in salvo. Si riveleranno una trappola per topi, con gente che si perde nei labirinti, altri vittime delle granate e dei gas che i tedeschi, al corrente della cosa, vi buttavano, altri ancora vittime delle stesse esalazioni, alcuni si suicidarono. Veramente angosciante, la peggiore delle trappole. Chi non perì lì sotto, appena metteva il naso fuori da un tombino trovava raffiche ad accoglierlo, o tedeschi a farlo prigioniero per poi fucilarlo. Non se ne salvò nemmeno uno.

Repressa la rivolta i tedeschi rasero al suolo, con cannonate ed esplosivi, ogni singolo edificio di Varsavia. Cose che mettono i brividi. Non parliamo di un villaggio, si tratta di una capitale, e i tedeschi, pure ormai consci della sconfitta che li attendeva, ancora procedevano con quella determinazione distruttiva. Anche questo ci verrà mostrato.

E' un film che, se anche non poté denunciare appieno tutte le ragioni storiche dell'accaduto, mostra con un notevolissimo realismo quella che fu l'esperienza di quei disperati. Le scene in esterni, che probabilmente hanno potuto godere (si fa per dire) dei molti luoghi ancora da ricostruire, trasmettono tutta la sensazione di apocalittico che quei giorni contenevano. Sopravvivere a vicende del genere può persino diventare una colpa, e il finale è un vero colpo al cuore. In questo senso la locandina originale, con quell'uomo che si "scioglie", una figura che ancora in piedi già si decompone, è tragicamente bella. Non inganni la pur ricca locandina giapponese che ho trovato e m'è piaciuto proporre: il film è in bianco e nero, estremamente nero.

Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes 1957.
Il grande regista Andrzej Wajda nel 2000 fu premiato con un Oscar alla carriera.
Visione imprescindibile.
Robydick

mercoledì 28 marzo 2012

The Name of the Game is Kill (aka: The Female Trap) - Il Mistero della Bambola dalla Testa Mozzata

4

"You can't buy a ticket to see this movie UNLESS...you sign a pledge not to reveal the surprise SHOCK ENDING", strilla la tagline di questo misconosciuto film di Gunnar Hellstrom

Il rifugiato ungherese Symcha Lipa (Jack Lord di Hawaii Five-0) accetta un passaggio da una bella e giovane ragazza che lo conduce fino alla casa che divide con la madre e le sorelle; naturalmente il povero viaggiatore si troverà in un nido di serpi psicopatiche che nascondono una storia oscura e terribile.

Interessante questo "The Name of...", siamo in pieno territorio " giovane in balia di un gruppo di squilibrate che tentano di sedurlo e farlo fuori" con tutta l'atmosfera di sessualità repressa che una pellicola del genere inevitabilmente si porta dietro. Il film di Hellstrom (svedese classe 1928, scomparso nel 2001, che esordì con "Simon Syndaren" [1954] per poi dedicarsi alla regia di episodi per i serial Tv statunitensi da "F.B.I" a "Gunsmoke" passando per "Bonanza" fino a "Dallas") mantiene ancora un certo livello esploitativo, pur senza mostrare niente di particolarmente scabroso, anzi, ma è in grado di solleticare il gusto dell'appassionato di "oggetti non identificati" dei tardi sixties grazie ad un'atmosfera opprimente e morbosa che si respira a pieni polmoni, specialmente nel delineare il rapporto tra le sorelle e il nuovo arrivato che scuote i sensi assolutamente non assopiti delle fanciulle; in questo senso molto bella e centrale la sequenza in cui Tisha Sterling balla sulle note di "Shadows" dei cultuali "The Electric Prunes" ammiccando al vecchio Jack Lord, sotto gli occhi delle sorelle e della madre che spia dall'alto .

Ottima prova del cast femminile, molto brave tutte e tre le sorelle interpretate rispettivamente da Tisha Sterling ( Patricia Ann Sterling, californiana classe 1945, carriera sterminata in Tv, ma anche in "L'Uomo dalla cravatta di cuoio/Coogan's Bluff" [1968] di Don Siegel con Clint Eastwood, tra le altre, tantissime cose), Collin Wilcox Paxton (1935-2009-una valanga di serial televisivi, da "Il Virginiano" a "Longstreet" e "Ironside" ma anche "Il Rivoluzionario"[1970] di Paul Williams con Jon Voight, accreditata come Collin Wilcox Horne), e Susan Strasberg (22 maggio 1938-21 gennaio 1999), la quale non ha assolutamente bisogno di presentazioni, che contribuisce a creare una sensazione di "destino incombente" sulle teste dei personaggi, fino all'inaspettato finale in cui la madre (T. C. Jones) tira le file della vicenda con un twist nerissimo e crudele, che non sveliamo. Direi che una riscoperta la merita. Ci sono in giro dei bootleg ricavati da una slavatissima copia in 16mm che non rende giustizia alla fotografia del grande Vilmos Szigmond. Lo sceneggiatore Gary Crutcher è pure lo scriba del cultuale "Stanley" (1972) di William Grefe e del superscult "Superchick" aka "Colpo Grosso al Jumbo Jet" (1973) di Ed Forsyt con Joyce Jillson!!!

Buona visione.

Belushi

lunedì 26 marzo 2012

Io ho paura

5

Questo “Io ho paura”, insieme al precedentemente affrontato “Goodbye & Amen -L'Uomo della CIA” uscito addirittura lo stesso anno, è il più bel film realizzato da Damiano Damiani all'infuori dei suoi famosi e notevoli film sulla mafia. Damiani ha diretto anche diverse pellicole di genere criminale-poliziesco o thriller, ma sempre realizzando delle opere molto impegnate anche sul versante politico e civile. I quali sono tutti molto interessanti, mentre questo è appunto il vero capolavoro, con Gian Maria Volonté convincente come sempre, e ben diversamente che nella parte del commissario di “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” ('70) di Elio Petri ma proprio in un ruolo suo contraltare, anche toccante, come poliziotto dalle umili origini e fedele al proprio dovere, che scopre la corruzione e comincia a vivere oppresso da un grande timore, “una grande paura” per la propria vita, sotto la pesante cappa di piombo del 1977 romano.

Mario Adorf è grandioso come sempre, nei panni del viscido e sospettissimo personaggio del giudice Moser al quale Volontè viene riassegnato, mentre Damiani aumenta la tensione alla perfezione fino a quando il climax diventa veramente avvincente. Il film è realistico e in un certo senso anche molto triste e amaro, il che lo certamente rende ancora più credibile.
Mentre il superbo “La Polizia incrimina, la Legge assolve” ('73) di Enzo G. Castellari è infatti il “film-manifesto” dei poliziotteschi italiani degli anni '70, questo splendido film di Damiani non è possibile non consigliarlo altamente come gli stessi migliori “mafia-movie” di quel periodo.

Io ho paura" significa "ho paura" ... In quanto il protagonista scopre troppe cose compromettenti sui poteri occulti, dei quali purtroppo mi perseguitano da sempre come se sapessi chissà quali sconvolgenti rivelazioni.

Ma non divaghiamo, se torniamo alla pellicola in questione scopriremo che si tratta davvero di un film fantastico e inquietante che cerca di riassumere alcuni degli avvenimenti reali di quel periodo cruciale -il 1977-'78- (nonostante la canonica clausola “...è da ritenersi puramente casuale”, alla fine dei titoli, significativamente messa sotto il titolo principale "Io Ho paura" …), la vita degli “uomini di scorta” proprio poco prima dell'”Operazione Fritz” di Via Fani, i rapporti tra servizi segreti, le loro deviazioni, la criminalità e la politica. E io queste cose le ho vissute dall'interno, in prima persona. Questo legame sappiamo anche oggi quanto sia stato reale durante gli anni '70, e quanto non solo sia più vivo che mai adesso, e ancora più complesso, in quanto ora sembra che includa nella loro totalità anche le banche, e le inestricabili commistioni tra mafia e massoneria. Gian Maria Volonte' ci offre qui una delle sue migliori performance nella seconda metà dei '70, impersonando il poliziotto spaventato che viene involontariamente a conoscenza di segreti dei quali egli è perfettamente conscio che potrebbero portarlo alla propria morte. La colonna sonora di Riz Ortolani, come già nel precedente film di Damiani, “Perchè si uccide un magistrato” (1974), è perfetta. La regia di Damiani è eccellente, anche e soprattutto nelle scene d'azione e nei piani sequenza dove è sempre stato uno dei maestri del cinema italiano, il finale è splendido, e molto duro. Damiani cinque anni dopo avrebbe diretto l'enorme successo seriale in Italia come all'estero de “La Piovra” , "Io ho paura" rimane veramente un film fantastico del suo periodo antecedente, e ancora oggi abbastanza sconosciuto se non alla cerchia degli appassionati, ma dalla grande tensione, grande recitazione, una media eccellente di tutte le sue componenti, e un allarmante messaggio di accusa, ancora realistico e quantomai concreto. Dato che anche se non sei un magistrato che si occupa di politica, come mostrano ogni giorno nuove indagini, in Italia ogni trama losca o malavita che tocchi, escono connessioni con quel o quell'altro politico.

Seppur Damiani forse non sia il primo nome che viene in mente quando si elencano tutti i più grandi registi italiani d'azione, o dei registi cult degli anni '70, egli sicuramente si merita tutto il rispetto e la considerazione di cui è stato capace di ottenere, e con questo film merita, un'ammirazione enorme. Mentre altri suoi famosi colleghi, come Umberto Lenzi e Enzo G. Castellari, stavano realizzando molti celebri poliziotteschi i quali erano colmi di splendidi inseguimenti , violente sparatorie e scioccanti massacri, Damiani era concentrato a fare una manciata di veementi thriller di denuncia e inchiesta sulla mafia, che erano relativamente a bassa concentrazione di violenza, ma beneficiati di sceneggiature estremamente solide e dai contenuti oltre che contesti, maggiormente realistici. Dopo i tremendamente convincenti "Confessione di un commissario di polizia al procuratore della repubblica” ('70), “L'Istruttoria è chiusa, dimentichi” ('72), e "Perchè si uccide un magistrato” ('74) - tutti e tre interpretati da Franco Nero - Damiani fece nel giro di un anno “Goodbye & Amen -L'Uomo della CIA” e "Io ho paura", i quali sono probabilmente i suoi migliori sforzi e indiscutibilmente tra i più intensi thriller polizieschi mai realizzati in Italia. Coevi a “Cadaveri eccellenti” ('76) di Francesco Rosi, al quale sono affini per una certa ermeticità kafkiana rispetto a ciò che si arguisce di quel che si vede, ma più eccitanti sotto il profilo spettacolare e dell'azione. La trama è piuttosto contorta e introduce continuamente nuovi personaggi, quindi è da prestargli sicuramente la massima attenzione e rimanere in allerta per tutti i piccoli colpi di scena, e non farsi sfuggire subito tutte le connessioni con i veri accadimenti italiani di quei giorni e mesi; ma anche oltre a tutto ciò, “Io ho paura” resta comunque un vero e proprio racconto avvincente e pieno di suspense. Talmente emozionante da ritrovarsi specie nell'ultima mezz'ora, ad ammirarlo con gli occhi e la bocca spalancati. Ludovico Graziano/Gian Maria Volontè è un adeguato ma apprensivo ufficiale di polizia dalla sciatta esteriorità, il quale viene assegnato come voleva a guardia del corpo personale all'elegante e raffinato giudice Cancedda/Erland Josephson -recentemente scomparso, bravissimo e toccante quanto l'insicuro personaggio di Volontè- il quale non è un magistrato che si occupa di politica e così pensando il povero Graziano, di rischiare meno la pelle in anni come quelli nei quali si rischia la vita ogni giorno senza neanche sapere perchè; e poiché la potente malavita organizzata e la corruzione, commistionata con il luridume dei servizi segreti ultimamente in corso a Roma, ha fatto assassinare parecchi giudici scomodi. Più tempo Graziano passa con l'onesto giudice Cancedda, tanto più viene coinvolto in una cospirazione altamente pericolosa e in una caccia all'uomo per la sua vita. "Io Ho paura" ha praticamente tutto ciò che un appassionato di film di culto ricerca e vorrebbe trovare in una pellicola: un ambientazione profondamente malinconica, che rende tutta la storia plausibile e molto amara, l'autorità morale alquanto discussa e discutibile di alcuni dei personaggi, l'inquietante e labirintica vicenda, diversi veri e propri momenti di violenza (l'eliminazione della testimone femminile attraverso la sua finestra è veramente scioccante), un epilogo affascinante, come detto un magistrale score di Riz Ortolani, e abbaglianti interpretazioni di tutti gli attori. Gian Maria Volonté è veramente incredibile come cerchi per tutto il film di soffocare le paure che sempre più – e con buona ragione – gli si presentano per la sua stessa vita. L'ispettore Graziano non è certo un codardo, ma la sua paura cresce sempre di più, perché non c'è nessuno del quale può fidarsi nella polizia né intorno a lui, tra false rassicurazioni e gli sporchi e minacciosi giochi sopra la propria testa. Volonté riesce davvero a tradurre molto bene, questo difficile agire emotivo allo spettatore. Riceve anche il supporto eccellente, soprattutto nella seconda metà del film, dalla recitazione enfatica e melliflua di un quantomai splendido Mario Adorf. "Io Ho paura" è come ho detto immeritatamente ancora oscuro e dovrebbe urgentemente ricevere un'edizione corretta e possibilmente lussuosa in DVD (speriamo come si vocifera, in una prossima edizione CineKult/Nocturno come per Goodbye & Amen”, ho chiesto al caro Pulici ma ancora niente, non so se ne detengano i diritti), in modo che i tanti fans del poliziottesco possano degnamente aggiungerlo ai propri preferiti. Damiani, è stato anche un regista molto eclettico e variegato, basti vedere il sequel “Amityville Possession”('82) che girò successivamente negli Stati Uniti, molto meglio dell'originale, e come horror apparentemente ben lontano dalle sue possibilità e interessi, ed è quindi ripeto un peccato, che uno dei suoi titoli di gran lunga migliori, tra quelli svolti negli anni settanta, anche sul versante di radiografia del sistema politico-criminale in Italia, sia ancora come detto così “oscuro”. I suoi film si potrebbe altresì dire che da una parte sono certo rientrabili nel filone delle “Polizie”, che era stato generato in Italia dopo l'uscita del grande successo seminale del capolavoro di Don Siegel “Ispettore Callaghan: Il Caso Scorpio è tuo!”(Dirty Harry) (1971), anche se i film di Damiani spesso offrono molta più sostanza che le comunque prodigiose sequenze di inseguimenti e sparatorie viste nei film di registi anch'essi bravissimi come Stelvio Massi e Fernando Di Leo, e questo non fa eccezione. Il film sembra prendere influenze da film come “Il Padrino” più di ogni altra cosa, e la trama si concentra appunto sulla criminalità organizzata. Il personaggio principale di Ludovico Graziano, è infatti un uomo assunto come guardia del corpo per un giudice troppo intelligente e incorruttibile. C'è molto presente e incombente,il fermento politico di quelli anni terribili a Roma, e dopo la morte (a quanto pare per suicidio) di un uomo in prigione, il giudice e la sua guardia del corpo incontrano in segreto la moglie del morto che gli rivela che il marito è stato invece sicuramente ucciso (come in un analogo nodo della trama de “L'Istruttoria è chiusa, dimentichi”), decidendo di provare a fare qualcosa, nonostante il fatto che stiano mettendo le loro vite in pericolo.

Il film ha alcune sequenze d'azione e continui momenti di entusiasmante suspense, forti valenze simboliche e un raffinato livello d'analisi, ma il focus del film è chiaramente la trama e le sue pessimistiche implicazioni. Questo non vuol dire che il film non sia interamente attanagliante, ci sono infatti diverse sparatorie -con il silenziatore, alla maniera dei servizi segreti- e inseguimenti in autodal ritmo elettrizzante, e il modo in cui Damiani costruisce l'atmosfera di mistero è ottimamente realizzato, nel senso che è sempre interessante. Ci sono anche altri aspetti che intercorrono intorno alla trama centrale, compreso il rapporto del protagonista con la sua ragazza (Angelica Ippolito, figlia anche del famoso scienziato comunista, conosciuta proprio in questo film, diventerà la compagnia di Volontè), che aiuta a costruire bene la trama e a rendere il film più realistico. La recitazione è interamente superba e va rimarcata, mentre è il film nella sua interezza ad essere condotto da una prestazione eccellente di Gian Maria Volontè, che incarna il titolo stesso, scoprendo involontariamente i segreti che potrebbero portarlo alla morte. Rimarco ancora la grandezza dello score di Riz Ortolani, uno dei suoi migliori in assoluto sulla falsariga di quello splendido composto per “One Way -La Faccia violenta di New York” ('74) di Jorge Darnell).

Il film è coraggiosissimo nella sua denuncia per tutta la durata sui servizi segreti come veri mandanti e “utilizzatori finali” del terrorismo (anche se non ci viene rivelato se il personaggio di Caligari/Paolo Malco sia un rosso o un nero), in termini e risultati d'espressione del disagio, che mancano totalmente al cinema italiano d'oggi. E questo rimane vero anche per lo sconfortante e disperato finale, il quale è certamente un finale veramente raggelante, duro e senza alcuna speranza,volutamente nebuloso perchè ancora più ansiogeno, ma che si adatta talmente bene alla storia che Damiani non avrebbe potuto concluderla in modo diverso. Nel complesso, uno dei migliori esempi di thriller italiani di denuncia politica sugli abomini dei servizi segreti e sulla strategia della tensione, e altissimamente raccomandato.

Incontri e coincidenze. Sul set del film Volontè conosce quella che sarà la sua compagna per l'ultima parte della sua vita: si tratta dell'attrice Angelica Ippolito, la quale a sua volta è figlia di Isabella Quarantotti, compagna e poi ultima moglie di Eduardo De Filippo. Angelica collaborerà a lungo con il "patrigno" recitando in quasi tutte le rappresentazioni teatrali allestite negli anni 70, non ultime quelle trasmesse sulla Rai.

Quando Mario Adorf e Gian Maria Volontè si recano al cinema per vedere un film porno, non sanno (ma il regista sì) che quello che scorrerà sullo schermo è un pezzo di un film realizzato, nel 1976, da Mario Pinzauti “Mandinga”
L'Andreottiano

sabato 24 marzo 2012

Ronal Barbaren (aka: Ronal The Barbarian)

7

Non esiste solo l'animazione "per bambini". A volte capita che qualcuno esca dagli schemi e proponga un prodotto che, indipendentemente dalla tecnologia utilizzata, anche se all'interno di un classico contesto di Buoni che si battono contro le Forze del Male, riesca ad essere latore di importanti Valori con sano realismo, restando fruibile a grandi e piccini.

Dona la vita Crane, grande capo di una tribù barbare, uccidendo un mostro delle tenebre. Il suo sangue, bevuto dai suoi uomini, renderà gli stessi, uomini e donne, di bellezza e forza fisica straripante. Certo, non si può anche pretendere da loro doti intellettuali di altrettanto rilievo. Amanti del combattimento, in attesa di potersi cimentare si adornano di tatuaggi e piercing, curano la muscolatura con esercizi estremi, presumibilmente trombano come conigli usciti di galera.

Un principe nero, dotato di un'armatura invincibile e di centurie sadomaso, che assurge alle sembianze del mostro da far risorgere, gli darà battaglia. Gli occorre il loro sangue. Ronal, il solo barbaro gracile giacché non poté nutrirsi del sangue di Crane, sarà il solo che sfuggirà alla cattura e a lui, in buona sostanza, prima il capo morente e poi un oracolo affideranno la salvezza dei barbari e di tutto il regno dalle forze del male. In compagnia di un ingrifatissimo suonatore di liuto, poi anche di una sorta di valchiria eccezionale combattente che sogna di poter lottare con un barbaro per trovare finalmente marito (solo chi può batterla potrà possederla) andranno alla ricerca della Spada di Crane, sola arma in grado di scalfire l'armatura del principe nero.
Non sarà una ricerca facile, quella della spada. Passeranno per un paese dove troveranno una guida sessualmente bipartisan. Tra avventure varie Ronal, quasi del tutto invisibile grazie ad una pozione (solo lo scroto dimenticherà di nascondere) troverà le indicazioni su un libro nella torre degli Elfi. Senza raccontarvi tutto, particolarmente significativo sarà l'incontro con le amazzoni che troveranno sulla loro strada, che come le sirene di Ulisse si riveleranno ostacolo particolarmente gravoso. Infine ci sarà finalmente la grande sfida finale, in una battaglia con tremende strizzate di capezzoli...

E' un mondo duro quello che ci circonda e solo i più duri possono sopravvivergli riuscendo anche a curare l'estetica del proprio corpo e ogni genere di perversione sessuale. Libri, cultura, buone maniere, romanticismo e via decadendo sono "brutture" adatte solo ai deboli di corpo, a chi è destinato a soccombere e non si speri in alcuna forma di redenzione. Diciamolo una volta per tutte: senza il famoso meteorite questo mondo sarebbe ancora dominato dai Dinosauri e noi dei miserabili primati nascosti in cunicoli che al massimo con qualche volteggio sulle liane potremmo prendere, facendo molta attenzione, una boccata d'aria.
Ma siamo poi del tutto sicuri che questo meteorite è caduto? Non sarà che alcuni dinosauri sono ancora presenti tra noi e si sono semplicemente travestiti? E se fossero degli extraterresti? Quante domande. I barbari, specie dominante, non credo nemmeno avessero la forma interrogativa.

Robydick

venerdì 23 marzo 2012

Dog Tags (aka: Dogtags) - Il Collare della vergogna

6

Considerato da Scavolini come credo, uno dei suoi due o tre film preferiti e che reputa davvero come suoi, “Dog Tags”(Il Collare della vergogna, secondo il titolo italiano della sua fugacissima uscita cinematografica nel settembre 1987), mescola con abilità almeno tre dei filoni migliori del cinema di guerra degli anni '70-'80.

Producendo questo film, Scavolini mise dentro molte delle sue esperienze e dei fatti a cui assistette come fotografo free-lance durante la guerra del Vietnam. Uno dei pochi italiani presenti nel teatro stesso delle azioni militari, rimase anche disperso per diverso tempo al seguito di un'operazione dell'esercito americano. Il film che ne è venuto fuori è in effetti uno dei tre migliori della sua filmografia non underground, una delle poche pellicole di guerra (viene in mente quasi naturalmente l'accostamento che potrebbe apparire azzardato con una analoga sequenza contenuta nel capolavoro di Sam Peckinpah “La Croce di ferro”[The Cross of Iron]['77]) a ben mostrare l'inestricabilità della morte insita durante una guerra in ogni atto umano e anche nell'”amore”, attraverso uno smembramento per un'esplosione e un'amputazione che avviene precedentemente ad una fellatio! Scavolini prese in questo film gli elementi più belli dei film sui POW (ovvero i famosi Prisoners of War) del conflitto vietnamita, alcuni lingotti d'oro trafugati dai nazisti anni prima, alcuni compromettenti micro-film, il tutto amministrato da Romano con sapienza, anche grazie ad un budget più alto di quello con cui era solito dover lavorare. Dog Tags” riesce a mostrarci anche una scena in uno strip club di Hanoi che non avrebbe nessun motivo di essere stata inserita nel film, ma girata da Scavolini così dannatamente bene che non avrebbe mai dovuto non esserci, degna delle pagine di romanzi come “An American risciò”.


Come qualcuno ha meritoriamente scritto su di un famoso sito di cinema, se ti approcci alla visione di “Dog Tags” credendo di assistere ad un ennesimo war-movie d'imitazione italiana sul Vietnam, alla Mattei/Fragasso, ma anche alla Margheriti del periodo, tanto per intenderci, alla fin fine noiosi e ripetitivi, e solo programmaticamente crudi e violentissimi, rimarrai veramente stupito, anni luce com'è da questi modelli imitativi. Questo di Scavolini è un vero “viet -movie” coi controcazzi e di rara assenza di qualsivoglia retorica ma unicamente dal lucidissimo e crudo disincanto, nel quale i protagonisti corrono di continuo perchè nel tiro dei viet, saltano in aria, e assistono ai loro compagni che gli muoiono intorno, per una missione che nessuno voleva fare e alla quale nessuno rischia di sopravvivere. E per fortuna, qui nemmeno la ragione è dalla loro parte.

Scavolini divide elegantemente il film in cinque parti, tutte con i loro titoli di presentazione, in modo che lo spettatore può facilmente giustificare/si la visione di ognuna di esse, anche distintamente, se come me, è quasi sempre costretto a vedere i film a pezzi e bocconi.
Qui abbiamo un prologo nel quale si prepara il seguito della storia, con un poco di narrazione da parte di uno scrittore che racconta come un elicottero carico di oro rubato vietnamita (ed è da vedere come Romano riesca astutamente a inserire lo spunto di tutto quell'oro già rubato dai nazisti, e arrivato negli anni '70 [!]), fosse stato abbattuto.
Lo scrittore viaggia dunque nelle Filippine in quanto è lì che l'unico superstite dell'intera disavventura, sta vivendo. Era solo un ragazzino viet all'epoca dei fatti, ma per qualche motivo ora è nelle Filippine. (Probabilmente perché è lì che ovviamente è stato girato il film, come quasi tutti i “viet-movie” più famosi, “Apocalypse Now” e “il Cacciatore” inclusi.)
La storia che il film racconta è come detto composta e ben divisa in Tre Atti. Atto Primo: I fatti, Atto Secondo: La fuga, Atto terzo: La caccia. Per darvi un po' del sapore del film, la lunga fuga comprende l'uso di un vecchio cavallo, di un bufalo d'acqua che sta trascinando l'oro, e un soldato ferito sulle spalle.
Per darvi ancora più sapore, appena due dei suoi compagni hanno dovuto amputare ad un soldato la gamba maciullata e affetta da cancrena, è una ragazza viet a rimuovere infine l'arto reciso e per lenirgli in qualche modo l'atroce dolore non abbastanza calmato dalla morfina e dall'alcool, e a fargli quindi un pompino! La migliore sequenza di amputazione mai vista MAI sullo schermo!
Le cose cominciano con una missione apparentemente normale per il salvataggio di POW. Un gioco pericoloso ordito e ordinato dagli alti superiori. Invece di ottenere di essere riportati a casa da un elicottero , come furono portati a credere, L'Alto Comando li informa che hanno bisogno di procedere verso un altro punto di raccolta e recuperare parte del materiale classificato precedentemente, dal luogo dell'incidente dell'elicottero.
Peccato per loro, ma grande per gli spettatori, perché questo offre ai soldati ampie opportunità di trasformarsi in picchiatori duri. Come il tizio nero che continuava a essere sempre ligio agli ordini e a parlare profferendo termini come “affermativo”/”non affermativo”, e urlando cose come "sissignore!" Più e più volte verrà invece apostrofato con epiteti razziali, prima di vagare nella giungla per saltare infine in aria su di una mina!
O la recluta con gli occhiali che stava cercando di dimostrare a se stesso di avere le palle uccidendo un vietcong con un machete! Il vietnamita stava cercando di creare per il quattrocchi una sorta di trappola con una granata, quando egli è con i suoi quattrocchi sul viet e cercando di trovare il coraggio per ucciderlo con il machete.
Infine, lo fa, ma ferendolo soltanto alla spalla, e spingendo così i suoi compagni a dover finire il lavoro alla vecchia maniera, sparandogli. Poi, uno di loro finisce anche QuattrOcchi ferito gravemente alla vecchia maniera. Si tratta davvero di un plotone massiccio.
E poi, i fan di trappole ameranno altri momenti del film, così come gli appassionati di fpellicole su di operazioni dietro alle linee nemiche. C'è un ragazzo che viene colpito con dei bastoni appuntiti, uno che su un ponte di corda come quelli di Indiana Jones si fa saltare in aria, piscine di sangue e due proiettili da estrarre dai fori d'entrata, uno dei quali avviene durante una scena successiva ad un basso trabocchetto. Non meravigliando chiunque sostenga che la guerra è sempre una cosa sporca.

Come tutti i film veramente grandi incentrati sui bottini d'oro, il semplice profumo della “roba” scatena le paranoie. Il ragazzo che deve avere la gamba mozzata è fin da subito coinvolto in tutto un complotto per privarlo della sua quota. I suoi compagni lo rassicurano che otterrà la sua parte, se non avrà amputata la gamba infetta. Sicuramente Scavolini ha visto molto “Il Tesoro della Sierra Madre” (The Treasure of the Sierra Madre) ('48) di John Huston. Bèh, tranne che per il fatto che poi il ragazzo lo rivedremo, e con un lungo cresciuto barbone.
Di ritorno al quartier generale, uno dei soldati sopravvissuti incontra il loro malvagio comandante in uno strip club. Gli spiegherà che fin da principio si era parlato sul recupero dell'oro e solo dell'oro - senza bagaglio in eccesso.
Questo ci conduce al gran finale in cui l'elicottero si abbassa per ottenere l'oro, ma si trova sotto attacco. Soccombendo all'estrema attrazione dell'oro, il malvagio comandante si rifiuta di lasciare che l'elicottero decolli senza il carico e viene fatto saltare in aria. I nostri eroi si strappano quindi le loro piastrine di riconoscimento (le Dog Tags, “medagliette per cani” nel gergo militare da cui il titolo del film, ovvero “Il Collare della vergogna” secondo l'incisivo sottotitolo) e si gettano a terra, nella migliore sequenza del film, più di quelle delle trappole, di quelle delle operazioni nella giungla, allo strip -club, o dell'attacco con il machete.
Questo ci porta alla epilogo in cui lo scrittore sta guardando le foto del ragazzo viet oramai adulto, pensando ai suoi compagni ancora rimasti nell'esercito. Poi l'immagine si blocca un po', e ci viene mostrato un montaggio di tutte le scene che abbiamo appena veduto attraverso tutto il film, ma luminose, perché oramai sono soltanto un ricordo. E qui, si riconosce bene lo stile di Scavolini, già presente e descritto in “Cuore”, dei “freeze-frame” dall'immagine solarizzata.
Infine, lo scrittore dice che non può credere che questo ragazzo sia riuscito a inserire così tanti ricordi in una piccola scatola. Così come senza vederlo non si potrebbe credere che Romano sia riuscito a inserire così tanti momenti memorabili in un film così apparentemente e volutamente “sporco”.

Alcune recensioni dell'epoca riportate dalla Rivista del Cinematografo -RdC.it :
"Simile a 'Platoon' nel rappresentare la guerra-trappola e nell'usare le tenebre e le tonalità scure per simboleggiare la claustrofobia interiore più che quella reale, 'Dogtags' se ne distanzia però nei ritmi, rallentati, e in un più accentuato interesse per le notazioni documentariste e descrittive del paesaggio. Un maggiore immobilismo nelle inquadrature volutamente prolungate, qualche concessione di troppo alle sequenze raccapriccianti e un'atmosfera di devastante cinismo talvolta nuocciono all'economia generale del film, probabilmente penalizzato dalle eccessive ambizioni di partenza. Efficaci le musiche di John Scott aiutate dal Dolby Stereo e la fotografia di John McCallum ingigantita dal Panavision."
(Fabio Bo, 'Il Messaggero', 15 Dicembre 1987)

"A parte questa novità, però, il film, realizzato a basso costo da una produzione anglo-americana e interamente girato nelle Filippine, non ha nessun altro motivo di interesse. La guerra è sempre quella, la sua documentazione è insistita e scoperta, i ritmi sono lentissimi e, in alcuni momenti quasi statici, i modi di rappresentazione, sia quando indugiano sulle comici sia quando si stringono attorno ai personaggi indulgono con compiacimenti eccessivi ad immagini lambiccate e preziose che, oltre a tradire qualsiasi occasione realistica (senza sostituirla con occasioni visionarie), rasentano in luoghi addirittura la calligrafia: in contraddizione con i temi, l'ambiente e le intenzioni polemiche. Qualche pagina, se vogliamo arriva ad imporsi per certi climi angosciosi che gravano sui personaggi e, qua e là, pur fra gli impacci dell'azione, si fanno strada dei momenti risentiti e drammatici di qualche rilievo, ma sono eccezioni: in un contesto in cui tutto o è troppo facile o troppo voluto e di maniera; sia narrativamente sia visivamente. Un Vietnam in sedicesimo, insomma, di cui non si sentiva proprio il bisogno."
(Gian Luigi Rondi, 'Il Tempo', 17 Dicembre 1987)

"Concepito come una tragedia in tre atti, un prologo e un epilogo, questo 'Dogtags'. Il collare della vergogna (in americano dogtag significa piastrina di riconoscimento), è un film che apparentemente non esce dai canoni del genere, ma che, a ben guardare, vi introduce alcuni elementi nuovi. A cominciare da una strana storia di cassette contenenti lingotti d'oro, smarrite e poi recuperate al prezzo di sacrifici disumani, che pare un motivo drammaturgico ricalcato sui modelli del western o del film gangsteristico. E proprio la tensione, il ritmo, la suspense, di questi modelli, costituiscono l'impalcatura formale che regge l'intera vicenda (con qualche insistenza un poco ridondante e fastidiosa, e un pizzico di gusto per l'orrido) dell'impresa di un gruppo di soldati americani attraverso la giungla vietnamita, ai confini con la Cambogia. (...) Girato nelle Filippine, con dovizia di mezzi e un grande senso dello spettacolo, 'Dogtags' rinuncia ai discorsi politici o moralistici per affidarsi totalmente all'azione."
('La Stampa', 1 Settembre 1987).
Napoleone Wilson

giovedì 22 marzo 2012

The Elephant Man

14
Secondo lungometraggio diretto da David Lynch, girato grazie all’interessamento del regista Mel Brooks, che dopo aver visto Eraserhead vuole lavorare con Lynch a un progetto cinematografico e lo dico subito: che progetto cinematografico!

Fino ad allora Lynch era conosciuto nei circuiti del cinema underground, e con questo film fa il primo salto di qualità verso il cinema più vasto, ovvero quello del grande pubblico. Ancora siamo lontani dalle vette della notorietà che arriverà con Twin Peaks, ma le otto nominations agli oscar bastano e avanzano per far sì che gli intenditori si interessino a lui.

The Elephant man è una storia realmente accaduta. Il protagonista è John Merrick, un uomo deforme, conosciuto come l’uomo elefante, e della sua impossibilità ad essere trattato come un essere umano, si capisce subito dove Lynch intende arrivare, i temi della deformità fisica sono al centro del film, che ha negli attori John Hurt (John Merrick) e Anthony Hopkins (Dott Treves) i ruoli chiave per interpretarli.
La figura del Dottor Treves, interpretato da un giovane Anthony Hopkins, ha uno spiraglio di umanità, che si prende cura di John e contravvenendo alle regole dell’ospedale, lo accoglie, e lo cura, cercando anche lui di dargli una dignità di essere umano, in maniera differente da Bates, che è l’uomo che sfrutta John come fenomeno da baraccone nelle fiere da paese per guadagnarci, trattandolo come un animale e non come un essere umano, picchiandolo, e umiliandolo, sono molto simili? Sono uguali? Eppure a differenza di Bates, Treves, cerca di essere più umano con John, anche se a fare visita a questo disgraziato ragazzo è l’alta società d’inghilterra, Lynch mostra due facce della stessa moneta, chi sfrutta John per guadagnare fa vedere la sua mostruosità, mentre John mostra sempre la sua umanità, anche se è costretto a dormire seduto, anche se il suo corpo è deforme, e chi invece vuole dargli la dignità di essere umano, e sarà proprio in quell’ospedale che il medico illuminato, farà conoscere a John l’affetto di una casa e di una famiglia.

Ma anche in ospedale, c’è chi approfitta della sua disgrazia, perché la crudeltà umana non ha confini, soprattutto quando questi confini sono il centro di una disgrazia, che ha colpito un essere umano, e allora lo si tratta con disprezzo, lo si deride, come nella terribile scena del custode dell’ospedale che chiama a raccolta i suoi amici per farsi beffa di John, e si fa pure pagare, approfitta di tutto ciò, e sarà anche la ragione per cui John Sparisce dall’ospedale, ma chi lo fa sparire? E soprattutto, chi lo riprende con se?
Il dottor Treves non si arrenderà mai e cercherà in tutta la città John, ma prima lincensierà il custode che si prenderà pure una botta in testa dalla capo infermiera, così si fa.
foto del vero John e nel tondo quello creato dal film

Nel frattempo Bates, si riprende John che lo riporta con se nelle fiere di paese, tragica la scena in cui John cade al centro del palco, debole, stremato e ormai stanco di fare il fenomeno da circo, non ce la fa più a essere uno spettacolo per il pubblico, cerca e urla la sua dignità di essere umano, qui Bates si prende gli sputi della gente, era ora, perché non è giusto guadagnare sulla disgrazia di un essere umano, anche loro si accorgono che i suoi gesti sono mostruosi e sfogano tutto il loro disprezzo su quel mostro, che usa John, lo picchia, come un animale senza umanità, bellissima la scena della stazione, in cui dei ragazzini vogliono sapere perché John porta un cappuccio, e lui urla disperato non sono un elefante, non sono un animale, sono un essere umano, un uomo…un uomo… urlando con tutta la forza di volere una dignità di essere umano, non vuole più essere trattato come un animale, al ritorno a casa, Treves, che non ha mai perso la speranza di riabbracciare il suo amico, esprime tutta la commozione e la tristezza che ha provato non sapendo dov’era e in che mani era, ma, nonostante anche la regina d’inghilterra, ha preteso che la stanza dell’ospedale adibita a John fosse permanentemente sua, ormai la sua salute è cagionevole.

David Lynch sforna un capolavoro assoluto, e porta alle estreme conseguenze il discorso precedentemente iniziato con Eraserhead, ma qui mostra la deformità fisica di un uomo e la crudeltà umana delle persone che gli gravitano attorno, e mostra anche l’altra faccia di una umanità che vuole dare a questo povero uomo, la sua dignità di essere umano, cosa che non raggiungerà mai, è interessante, constatare che i temi del cinema di Lynch ci sono tutti quanti, a cominciare dall’incipt, con tutti quegli elefanti e la foto di una donna in sottofondo una musica triste composta da John Morris, le immagini surreali che anticipano la festa del custode dell’ospedale, che allontanerà John dalle cure del dott Treves.
Da notare il piccolo ma interessante ruolo di Anne Bancroft, nel ruolo di Mrs Kendall, un attrice di teatro, che renderà omaggio a John nella bellissima scena prima della fine a teatro, con uno spettacolo di danza, dove per la prima volta John è trattato come un essere umano e non come un animale, il finale è tutto da vedere, dico solo che in sottofondo c’è Adagio con String, una musica tristissima e sarà proprio quella musica che accompagnerà noi e John verso un'altra dimensione.

E’ un film tutto da vedere, che lascia emozioni indelebili e che rimane impresso dentro il vostro cuore a lungo, un opera indimenticabile e sconvolgente, piuttosto lineare, ma che presenta dei veri marchi di fabbrica che saranno riconoscibili in tante altre opere di David Lynch.
Da notare, che il film non è tratto dall’opera teatrale, omonima, ma dai libri documentati del dottor Frederick Treves, e dalla storia vera di Merrick.
ArwenLynch

mercoledì 21 marzo 2012

Traci, I Love You (aka: Traci Je T'aime)

3

Ultimo film hard della diavolessa dell'Ohio, girato tra Parigi e Cannes pochi giorni dopo il raggiungimento della maggiore età da parte della bellaTraci e, di conseguenza, l'unico lungometraggio legalmente reperibile in U.S.A dopo la bomba esplosa nell'industria hardistica statunitense quando le autorità giudiziarie scoprirono che l'attrice era in realtà minorenne ai tempi delle produzioni pornografiche.

E' anche la terza ed ultima produzione targata Traci Lords Company (insieme a "Traci Takes Tokyo" [1986] di Tadashi Yoyogi/Stephen Cartiere "Beverly Hills Copulator" [1986] dello stesso Cartier) i cui diritti di sfruttamento furono venduti per 100.000 dollari causando ulteriori polemiche, in quanto la Lords fu accusata di lucrare sulla situazione venutasi a creare. Questioni giuridiche a parte, il film (girato in video e non in 35mm) risulta una pallida copia dei precedenti lavori della Lords, un porno patinato e noioso incentrato sull'ossessione di un fotografo francese nei confronti della stupenda Traci Lords (biondissima e più bella che mai, da polluzione istantanea) che se ne va in giro per Parigi in automobile e a piedi per le strade affollate (sequenze chiaramente improvvisate e rubate stile "Cicciolina Amore Mio" di Amàsi Damiani/Bruno Mattei) fino a lasciarsi immortalare da una folla di fotografi nuda sulla spiaggia.

Girato quasi come un reportage/documentario questo "Traci, I Love You", non colpisce e non convince, mostrando al pubblico una Traci più incazzosa e svogliata che mai, inequivocabile segno dell'avvenuto divorzio dalle scene hard, nonostante la presenza di un grande professionista dell'Hard francese come Alban Ceray, classe 1945, carriera sterminata con oltre 170 titoli (a scelta peschiamo "Les petites écolières" [1980] di Claude Mulot con la divina Brigitte Lahaie) e della bella e arrapante Marilyn Jess, altra stella del porno d'oltralpe ("Journal Intime d'une Jeune Fille en Chaleur" [1981] dello specialista Gérard Kikoine) conosciuta anche come Dominique Troyes (e vabbè) che aggiunge non poco al gradiente hardistico del film di Floran (?).

Il cimento hardistico tra la Lords e Ceray (nel ruolo di Mr.Alisair, un direttore di casting che approfitta delle grazie dell'attrice) è intenso ma breve, con la bindocrinita supergirl a sfoggiare quell'invidiata arte nel pompino per cui è divenuta, giustamente, famosa e conseguente doggie con Traci scomodissima ma notevole (e come potrebbe non esserlo, è comunque una bellezza da sturbo, nonostante le peculiarità che le hanno consegnato fama imperitura nell'universo hard in questo caso siano un poco in ombra) che si conclude sul pavimento dell'ufficio con classico cumshot e Ceray che la penetra nuovamente. Subito dopo Traci viene rapita e caricata su un furgone bianco per poi risvegliarsi in un luogo ameno dove sarà goduta da un trio di bellezze locali (uncredited) e successivamente introdotta alla parte migliore del film tutto con la collaborazione della splendida Marilyn Jess, diavolessa assatanata protagonista con la Lords di un rovente lesbo in cui la francese penetra l'attrice americana con un cazzo di gomma tenuto stretto in bocca. Ecco, se in ogni film che si rispetti, anche il più noioso e cialtrone, si riesce a salvare una particolare sequenza che si eleva dal miserrimo contesto, allora il sopracitato cimento hardistico diventa la ragione stessa di vita di questo prodotto non entusiasmante, perchè, detto in parole povere, due fighe così a condividere la scena, bè, è visione obnubilante da sperimentare con il/la propria partner.

Segue classica orgia con protagonisti maschili incappucciati come boia e le sequenze hard con la Jess e la Lords in evidenza, purtroppo troppo brevi e sempre immerse in un'atmosfera dark, troppo stilizzata e impersonale con i corpi illuminati su sfondo completamente nero. Traci, al contrario della Jess, appare svogliata e annoiata (lesbo a parte) e solo verso il finale, quando è presa da tergo dal fotografo che sbava per lei, restituisce al pubblico la forza dirompente delle sue precedenti performances. Per i completisti e amanti del genere, comunque consigliato, sia per la bellezza stratosferica di Nora Louise Kuzma che per spirito filologico, considerato il fatto che si tratta dell'ultimo cimento hard dell'attrice americana. Il film era distribuito negli States dalla Caballero dietro un accordo distributivo stipulato con l'attrice per un periodo di dieci anni (la data di uscita fu il settembre 1987, più di un anno dopo dalla realizzazione, quindi fino al 1998), ma in seguito alla causa intentata dalla Lords i diritti sono caduti.Secondo alcune voci Traci fu anche regista del film attribuito al fantomatico Jean Charles/Jean-Pierre Floran.

Buona visione.
Belushi

martedì 20 marzo 2012

Achtung! Banditi!

5
Opera prima del grande Carlo Lizzani, storia di partigiani di montagna e di uno sciopero operaio, ambientata nella periferia di Genova. Assomma in una cornice corale e neorealista numerose tematiche della lotta di resistenza. Film interessante quindi, anche semplicemente dal punto di vista dei contenuti (che van presi con le pinze però), e per una caratteristica quasi unica: fu prodotto con una sottoscrizione di azioni da 500 lire sottoscritte in massima parte da operai dell'epoca, soldi che confluirono in una cooperativa che poi finanziò il film. Altri tempi.

Dopo il "Proclama Alexander" del 13 Novembre 1944, le cui ragioni poi si scoprì erano ben più politiche che tattiche, i partigiani ripresero le loro iniziative. Certo, dovettero superare un comprensibile momento di sbandamento/riflessione, dato che si aspettavano un intervento degli alleati, e conseguente liberazione delle città da nazisti e fascisti, prima della fine dell'anno. Questo è il periodo nel quale la banda che ritrae il film, non connotata politicamente, è costretta a scendere in città per prelevare un rifornimento di armi che è stato depositato in una fabbrica. Un viaggio in "campo aperto" e da compiere di giorno, decisamente pericoloso. Alla fabbrica è in corso uno sciopero e i tedeschi che la controllano decidono che tutti i macchinari devono essere smontati per essere trasferiti in Germania. Partigiani ed operai uniti si opporranno a questo trasferimento, prima con un boicottaggio poi con un'inevitabile scontro sanguinoso...

Dicevo delle "numerose tematiche" affrontate, e questo è proprio il problema principale del film: sono Troppe. Con l'intento di voler mostrare quante più cose abbiano caratterizzato quegli eventi, nessuna di esse viene approfondita e alla fine risulta essere certamente un film piacevole (Lizzani già esprime il suo talento d'eccellenza per le scene di azione), realista sì ma in modo superficiale. Con l'intento di arrivare a tutti, con un film "facile", s'è accontentata la maggior parte degli spettatori ma non i più esigenti, o per meglio dire i più preparati sull'argomento, e una cosa non esclude l'altra.

Già il titolo non m'ha del tutto soddisfatto. I nazisti scrivevano "Achtung! Banditen!" sui cartelli piantati nei terreni dopo le rappresaglie e persino appesi al collo di chi impiccavano. Quel passaggio dei partigiani per la cascina nascondendosi da pattuglie nemiche è troppo semplice. Nella casa in collina del diplomatico (figura mellifluamente bifronte, molto interessante) il resto della banda che attende quelli andati in ricognizione alla fabbrica hanno comportamenti poco realistici. Lo sciopero si poteva anch'esso spiegare meglio, non è argomento da far passare senza parlare di come le fabbriche in grado di produrre e manutenere gli armamenti fossero preziose per i tedeschi (questo si evince...) e di quanti dubbi ebbero gli operai se continuare a lavorare, per mantenere in vita sé stessi e la fabbrica per il loro futuro, oppure boicottare, rischiando però di vedere macchinari e maestranze deportati in Germania (...e questo no). L'adunata delle donne, mogli e madri degli operai assediati nella fabbrica, bel momento di grandi riprese, ma troppo breve. E dimenticando qualcosa, mi tengo come dolcetto finale gli alpini, presumibilmente della famigerata divisione Monterosa che si mise al servizio della repubblica sociale di mussolini, che troppo facilmente dopo essere intervenuti in difesa di un partigiano si uniscono alla sua banda: non andavano così le cose, le annessioni di quei disertori avvenivano, certo, pure incentivate ma erano molto più sofferte.

Caro Lizzani, rinnovandoti mia eterna stima ti dico che questo film è bello e, ripeto, piacevole per tutti senza essere scomodo per nessuno. Ottima la fattura, bravi la giovane Gina Lollobrigida e Andrea Checchi (vorrei citare anche la procace contadinella molto affine alle mie fantasie erotiche ma non so chi è). Lo metto nel mio Partenone anche per i suoi presupposti, sia produttivi che d'intenti, per essere uscito in un periodo che troppi già cercavano il "tarallucci e vino". A distanza di tanti anni risulta essere neorealista nello stile e non molto realista nella sostanza. C'era materiale (ma non soldi) per tre ore di film, allora avremmo avuto un'opera da Olimpo.

Su wiki qualcuno ha scritto che questo film è "generalmente considerato il suo migliore" riferendosi al regista, ma a mio parere non lo è proprio per niente. Ne cito solo uno tra quelli suoi d'eccellenza: "Il gobbo". Per non parlare di capolavori, secondo chi scrive, come "La vita agra" e "San Babile ore 20: un delitto inutile".

In ogni caso, film senza dubbio da vedere.

Robydick

lunedì 19 marzo 2012

Servo Suo

2

Servo Suo” (1973) fu realizzato da Romano Scavolini appena un anno dopo quello che è considerato, tra i suoi film non “underground”, il più felicemente riuscito, ovvero il giallo-thriller psichedelico “Un Bianco vestito per Marialè” (1972). Che io ho sempre trovato bellissimo. Come dicevo, un anno dopo circa, Scavolini ha diretto questo stranissimo film d'impianto drammatico e romantico strappa lacrime, da mafia-movie, d'anticipazione pseudo-fantascientifica e distopica, di spionaggio, e il tutto nello stesso film. Basato su una sua sceneggiatura, racconta la storia di Martin (interpretato abbastanza bene da Chris Avram, attore di origine rumena molto attivo nel cinema romano degli anni settanta) , un professore inglese che vive a Palermo, guadagnandosi lì quanto gli basta per vivere. Sta infatti dando lezioni al figlio paralizzato di un boss della mafia siciliana, ed i membri del clan decidono che Martin sia un uomo ideale per essere trasformato in un killer di cosa nostra, si non scherzo. Motivazione: non ha parenti o amici veri, in quel di Palermo e della Sicilia. Così lo rapiscono e lo portano in un luogo segreto, dove a Martin gli viene presentata la sua iniziatica "formazione per diventare un killer". Poco dopo, egli conosce ogni arma ed è in grado di distinguere i tipi di proiettile solo dal loro suono sì non scherzo, quando vengono sparati. Comincia così a fare il suo lavoro, e dimostrando anche di essere davvero un buon killer. Ma la sua mente diventa sempre più tormentata dai dubbi sulla spietatezza del proprio nuovo “lavoro”.

Questo film metterebbe a nudo una buona idea di Scavolini: mentre la maggior parte dei killer professionisti degli anni Settanta sembrano essere degli archetipi di macho duro senza sentimenti alla Bronson tanto per intenderci, "Servo Suo" disegna l'immagine di un assassino tragico. Alle questioni personali di Martin è dato allo spettatore abbastanza spazio da poterle esplorare, ma purtroppo, tali questioni sono trattate in maniera spesso molto noiosa e melò, talmente che si può essere soddisfatti di non addormentarsi o, peggio ancora, perdere interesse. Questo sviluppo del film dal ritmo lento e verboso impedisce anche di immedesimarsi con la caratterizzazione come detto fondamentalmente tragica del killer. Un altro errore Scavolini lo compie mostrando i numerosi “contratti” di Martin eseguiti sparando dall'alto verso il basso alle sue vittime, ma senza mai i colpi d'impatto e il sangue che fuoriesce e scorre, per evidenti e forti limiti di budget: questo taglia anche drasticamente di mostrarci tutta la cattiveria e crudezza insita nel lavoro di Martin. Sarebbe stato importante mostrare il sangue, per mostrare come sia veramente il lavoro sporco di un killer a pagamento. Chi almeno alla fine si aspetti chissà che, purtroppo sarà deluso, perché dopo una trama portata avanti faticosamente il finale arriva veloce e risolto con troppa facilità, non restituendoci in realtà la necessaria resa dei conti finale. In definitiva quindi, il film può essere considerato una delusione, nonostante la trama fosse abbastanza promettente seppur portata avanti a base di pretesti, o almeno nelle sue premesse.

Servo Suo” era anche un film molto raro, fino a che all'incirca nel 2000 i benemeriti della Shendene & Moizzi non l'avessero inserito nella collana di VHS del secondo ciclo di Sex & Violence, forse più che altro grazie alla presenza della supertopa Paola Senatore, la quale però non faceva certo ancora tutti i lavori e che lavori che avrebbe eseguito circa un lustro dopo, nei primi film della Golden Age dell'hard tricolore. Anche perché nel film stesso, di violenza ve n'è ben poca, per tacere di sesso esplicito, completamente assente.

Comunque, si arguisce anche qui che Scavolini è sempre stato in ogni suo lavoro un regista che ha sempre avuto ambizioni autoriali e di realizzare un cinema indubitalmente personale e pieno di passione, e questi intenti non sono stati mal riposti, ma anche ben centrati ad esempio in un'ambientazione siciliana volutamente squallida e povera, aderente con la solitudine del personaggio del professore inglese, il quale da una semplice trasferta “siciliana”con tutto il “naturalismo” che ne consegue, poi “internazionale” fino ad Amsterdam in Olanda, si ritrova sotto ricatto della mafia, e fino ad essere costretto a diventare un assassino sotto “contratto” alle loro dipendenze, perché di questo si tratta. E come si vede anche la differenza di Scavolini, rispetto a quasi tutti i suoi colleghi del periodo, nel girare sempre opere strambe, stranissime, discontinue e dal montaggio molto frammentario, qui in bilico sul noir, ma senza rinunciare a certi “vezzi” del cinema underground di ambientazione urbana e dei bassifondi, -dal quale Scavolini proveniva con successo-, come la trovata del nostro professore che ovunque vada viene seguito, spiato, da onnipresenti telecamere a circuito chiuso (ma da dove?) come in un “Grande Fratello”, e quella delle diapositive e degli altoparlanti che gli impartiscono continue lezioni sulle armi da fuoco e le munizioni. Il personaggio di Avram invece è, o nella sua improbabilità vorrebbe essere, (con tutto il rispetto per il troppo impegnativo modello), una sorta di professore loser, a là Daniele Dominici, ovvero il professore “reietto” interpretato da Alain Delon nel celebre “La Prima notte di quiete”('72) di Valerio Zurlini. Come il famoso modello, anche Avram va contro le regole, fregandosene o infrangendole, ma in questo caso sono le “leggi” della mafia, delle quali una delle principali detta appunto che “il cuore non comanda”. La splendida Senatore mi pare di ricordare, mostra come quasi sempre almeno il pelo, in una scena nella quale balla sexy. C'è anche in un personaggio abbastanza assurdo Jacques Stany, altro celebre caratterista del cinema italiano di genere del periodo, che non è male. Diciamo che anche qui, Scavolini confeziona un film a cui non importa tanto dello svolgimento della trama e della sua narrazione, ma di come tale viene esposta, tra continui vezzi ed esibizioni, ma anche trovate di un innegabile stile.

Napoleone Wilson

domenica 18 marzo 2012

Savage Harvest

4

E' proprio il caso di parlare di "roaring eighties", perchè in questo dimenticato "Savage Harvest" i leoni, veri, ruggiscono sul serio. Altro che CGI. Una didascalia all'inizio della pellicola avvisa il pubblico che i fatti narrati si ispirano a vicende realmente avvenute. A causa della siccità i leoni si spingono ad attaccare i villaggi africani e pure la villa di una famiglia americana di stanza in Kenya, assediata dalle bestie affamate.

Dirige il vecchio Robert L. Collins, regista prettamente televisivo ("La Scelta/Walk Proud" [1979] con Robbie Benson e Pepe Serna e una valanga di regie televisive da "Marcus Welby" a "Sulle Strade della California") e si vede, che tuttavia confeziona un dignitosissimo animal attack capace di rimanere nella memoria del cinefilo e appassionato, senza essere un capolavoro o un caposaldo del genere. Tolto l'incipit, veramente incisivo nel creare un senso di morte e desolazione grazie a sequenze documentaristiche sottolineate dall'ottima partitura di Robert Folk, i primi trenta minuti sono di puro mestiere, con la presentazione dei protagonisti Tom Skerrit e Michelle Phillips (proprio lei, ex The Mamas & The Papas e moglie di John Phillips) con contorno di figli e amici. Dopo i leoni attaccano e, per un amante dell'ecovengeance o come cazzo volete chiamarlo, vedere i felini che attaccano e sbranano i poveri esseri umani, assediati, impauriti, soggiogati dalla bestie, è sempre spettacolo degno di tale nome. Grande lavoro da parte di addestratori e stuntmen (magnifico il primo assalto alla governante della magione) e leoni, leonesse, pantere protagonisti assoluti della pellicola tutta. Collins da quel buon artigiano televisivo qual'è/era (1 giugno 1930-21 ottobre 2011) non la butta sul blood&gore, anzi di sangue non è che se ne veda molto, e preferisce concentrarsi sulle reazioni degli assediati concedendo qualche sequenza ad effetto fino allo scioglimento della vicenda.

In questo senso molto efficace risulta la scena in cui la famiglia si riunisce intorno a Michelle Phillips che strimpella al piano "All You Need Is Love" e "I Want To Hold Your Hand" , nel tentativo, invero demenziale, di ritrovare la calma e la stabilità dopo il furioso attacco dei leoni; dalle lacrime e dalle urla a poco a poco tutti gli assediati cominciano a cantare, sicuri che ad un gruppo di americani in terra straniera non possa assolutamente accadere niente di brutto fino a che non si ritrovano un enorme leone in salotto. La rilettura in salsa animal attack del cinema d'assedio, pur non avendo la potenza del cinema carpenteriano e romeriano, senza contare le influenze western (vedi il lancio del fucile tra Skerrit eShawn Stevens), è comunque godibile e spettacolare, potendo contare sul realismo delle sequenze e delle reazioni degli attori, circondati da bestie vere e non da pupazzi, per cui il livello esploitativo del film di Collins è ancora piuttosto alto, specialmente nel concitato finale con i felini che irrompono nella villa e circondano la gabbia di fortuna in cui si sono rifugiati i protagonisti. Sequenza che ancora riesce ad inquietare proprio per la ferocia con la quale gli animali si ammassano davanti all'entrata della magione quasi a voler "sfrattare" i poveri, ormai ex-inquilini. Non è poco.

Certo la visione della slavatissima Vhs giapponese non aiuta la fruizione del prodotto di Collins, anzi la fotografia del buon Ronnie Taylor è praticamente sputtanata, ma tant'è godiamo di quello che abbiamo, anche perchè mi pare che il film in questione non sia mai stato editato su Dvd, anche se mi piacerebbe essere smentito in questo senso. Consigliatissimo, comunque, in double bill con "Roar" (1981) di Noel Marshall, che invece in Dvd ci sta, prossimamente su questi schermi, senza contare dei caposaldi del genere come "Day of the Animals" (1976) dello specialista William Girdler e il mitico "The Pack/Il Branco" (1978) di Robert Clouse con Joe Don Baker. La giovane Tara Helfner, nel ruolo diKristie, la giovane figlia di Skerrit nel film, è la figlia del produttore, sceneggiatore e pure addestratore Ralph Helfer.

Buona visione.
Belushi

sabato 17 marzo 2012

Fuga in Francia

4

Film da massimi scranni dell'Olimpo, cosa che possiamo dire facilmente oggi. Ai tempi quando uscì suscitò qualche perplessità per non dire scalpore. Cito da wiki: "Il film non raccolse giudizi positivi: nell'immediato dopoguerra Mario Soldati era giudicato "calligrafo", un autore molto sensibile ai problemi formali ma non a quelli dell'impegno politico. Col tempo il giudizio sul film è mutato. Nel 2006 è stata ultimata dalla Cineteca Nazionale la versione restaurata del film, proiettata alla 63ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia (2006)".

Mario Soldati, per me tra i più grandi intellettuali italiani del XX secolo - qua coadiuvato per soggetto e sceneggiatura da altri grandi nomi: Ennio Flaiano, Cesare Pavese - fece qualcosa forse troppo difficile da digerire per i tempi, da ambo le parti degli schieramenti della Guerra Civile che tormentò l'Italia del centro e del nord, dall'8 Settembre 1943 fino agli ultimi giorni di Aprile 1945 (non ovunque terminò il 25).
La Francia, per ragioni diverse, era terra di speranze nel primo dopoguerra, soprattutto per liguri e piemontesi. Poteva essere occasione di contrabbando come luogo di rifugio per evitare processi per crimini di guerra, processi che videro imputati sia partigiani che fascisti. Ispirato quindi a fatti reali, idea che venne al produttore Carlo Ponti, si racconta la vicenda di un gerarca fascista (grandiosamente interpretato da Folco Lulli, attore forse non adeguatamente ricordato negli annali) che fugge da Torino verso appunto la Francia dove ha amici che lo posso ospitare e proteggere, con tappa obbligata ad Oulx, paese di confine che sembra una "casablanca" per chi la frequenta, senza essere però territorio franco. Si unirà casualmente a tre giovani, anch'essi in procinto di entrare in Francia clandestinamente, in cerca di lavoro. Uno di questi giovani è un operaio, forse ex partigiano (lo chiamerò così d'ora in poi, interpretato da un convinto e convincente Pietro Germi), decisamente antifascista, tanto che quando nel rifugio in montagna che useranno per riposarsi scoprirà che quello è un gerarca, ricercato in Italia, deciderà di ucciderlo seduta stante ignorando persino che con la grossa taglia che grava su di lui potrebbe arricchirsi. Non lo farà, ma da quel momento inizierà tra i tre e il gerarca un reciproco inseguirsi, minacciarsi fino in Francia. Non proseguo oltre sulla trama, ricca di eventi significativi che lascio godere.


E' un tema delicato questo delle rivalse post-guerra, sia che esse derivino da vendette, o da processi sommari o, come in questo caso, da crimini conclamati e processi regolari ai quali seguiva la condanna a morte senza dubbio. Nella storia è però presente un bambino (Enrico Olivieri), una "variabile" che tiene costantemente legati ai valori umani "di base" i due più accaniti, il gerarca e il partigiano. Questo bambino è figlio del gerarca che lo prese con sé a Torino dal collegio cattolico dove risiedeva e se è con lui è per le insistenze del bambino. Alla fine se lo porta, ma sembra più per opportunismo, per apparire meno sospetto, che per sentimento paterno. Non indugerà un istante a scappare, quando furbescamente fugge alla volontà esecutiva del partigiano, lasciandolo coi tre giovani. Falso e crudele, l'uomo si barcamena tra pentimenti e sentimenti, ma commetterà anche un omicidio prima di salire in montagna pur di non essere arrestato. Eppure nel lungo finale, causa il bambino... E' una figura che ti fa porre delle domande. Senza processo poteva riconciliarsi? E' credibile? Anche in un contesto di guerra civile le sue "gesta" erano da considerare azioni militari? Ognuno risponda come crede, io dico NO, NO e NO! L'avrei scannato con le mie mani se, come il partigiano protagonista, avessi avuto uno dei miei figli ucciso proprio a causa delle sue rappresaglie. Ancora una volta il bambino lo frenerà, moralmente. Uccidere il padre, davanti al figlio, nonostante tutto, gli riesce impossibile...
Certe volte si vorrebbe da questi film risposte chiare e decise. Si potrebbe scrivere all'infinito in termini di considerazioni su questo film (sugli aiuti del clero cattolico alle fughe di fascisti e nazisti parlerò in altre occasioni) che espone senza mezzi termini uno degli aspetti più difficili del primo dopoguerra. Negli ultimi anni, grazie anche al fatto che parlamento e governo sono stati (e sono) pieni di fascisti più o meno nostalgici, il tema della riconciliazione, mai risolto, è tornato nei termini che i suddetti vorrebbero celebrazioni anche per i morti repubblichini, sostengono che tutti i morti meritano rispetto. Sarà, ma penso che i morti, in quanto carcasse, si possono anche rispettare tutti, però se celebro un Nome lo celebro per quello che ha fatto in vita e per quali valori è morto. Questa gente che s'è messa al servizio di mussolini, il quale a sua volta è stato fantoccio di hitler, merita di essere ricordata solo per il danno enorme che hanno portato a questo paese, non solo dopo ma anche prima dell'armistizio.

Com'è facile la vendetta che è sete di giustizia in questi casi, com'è difficile attuarla se qualcosa ti ancora all'umanità non empia ma empatica. Questo andirivieni emotivo è scandito da immagini e montaggio che insieme alle musiche splendide di Nino Rota trasportano lo spettatore in un tumulto di passioni contrastanti. Gli stupendi paesaggi non perdono nel bianco e nero che esalta il candore della neve, quelle montagne sono belle come la speranza; ombre nel momento da noir che contraddistingue l'appostamento del gerarca ormai deciso a liberarsi di un testimone che può sconfessarlo; grigia la tormenta che avvolge il rifugio quando il partigiano vuole uscire per l'esecuzione; frenetico il momento, sempre nel rifugio mentre si ride e si scherza prima sinceramente e poi forzatamente, quando il gerarca viene riconosciuto per quel che è e soprattutto per quel che ha fatto.

Film da Olimpo come detto, visione tassativa. Ancora un encomio ai due principali attori: Folco Lulli e Pietro Germi. Grazie a loro, e all'accurata analisi psicologica che ne viene fatta, possiamo dire che questo film è qualcosa che supera abbondantemente il "semplice" neorealismo.

Concludo uscendo in parte dal tema, allo scopo di ringraziare dal cuore Mario Soldati, fra le tante, per l'immagine che vedete qui sotto.
... In quella specie di rifugio, come hanno a notare i protagonisti, sono passati proprio tutti e ci sono scritte di ogni genere. Il gerarca legge con apparente distrazione alla sua destra. Sotto il fascio littorio con sigla del P.N.F. c'è una scritta "duce sei tutti noi" malamente cancellata per essere poi rintuzzata da un "W Duccio!". Dal duce a Duccio, da una vergogna ad un Orgoglio della nostra nazione.
"Tancredi Achille Giuseppe Olimpio Galimberti, detto Duccio (Cuneo, 30 aprile 1906 – Centallo, 4 dicembre 1944), è stato un avvocato, antifascista e partigiano italiano. Medaglia d'Oro al Valor Militare e Medaglia d’oro della Resistenza, fu proclamato Eroe nazionale dal CLN piemontese".
Vi lascio a wiki per l'approfondimento. Io l'ho conosciuto grazie al libro "Partigiani della montagna" del compianto Giorgio Bocca (è morto lo scorso 25 Dicembre 2011) il quale, anch'egli cuneese, partecipò alle lotte partigiane di quell'area che ebbero il primo abbrivio proprio grazie all'iniziativa di Duccio Galimberti che convocò nel suo studio, in piazza Vittorio a Cuneo, tutti coloro che intesero aderire partendo da quelli del movimento clandestino di "Giustizia e Libertà".
La Medaglia d'Oro ce l'appuntiamo noi in sua memoria per ringraziarlo. Duccio non ebbe modo di appuntarsela:
"In seguito ad una delazione, venne arrestato il 28 novembre 1944, in una panetteria di Torino che era il recapito del Comando partigiano. I frenetici tentativi delle forze della Resistenza di operare uno scambio di prigionieri con i tedeschi furono inutili: Galimberti era una figura importantissima per i partigiani resistenti e, per i nazisti e i fascisti, una preda troppo ambita per lasciarla sfuggire.
Quattro giorni più tardi, nel pomeriggio del 2 dicembre, un gruppo di fascisti dell’Ufficio politico di Cuneo andò a Torino per prelevarlo dal carcere. Fu trasportato nella caserma delle brigate nere di Cuneo: qui Galimberti venne sottoposto a interrogatorio e ridotto in fin di vita dalle sevizie, ma nonostante questo i fascisti non riuscirono ad ottenere alcuna informazione riguardante le formazioni partigiane della montagna cuneese.
Il mattino del 4 dicembre, fu caricato su un camioncino e trasportato nei pressi di Centallo dove venne ucciso con una raffica di mitra alla schiena."

Robydick