giovedì 31 maggio 2012

Dragon Eyes

6

Nel 2012 come agli esordi, ma per motivi diversissimi, Van Damme, star un po' in disuso, diventa coprimario di un action diretto da John Hyams, autore del deludente Universal soldiers regeneration. John è figlio del regista di Timecop, una delle vette più celebri e nobili della filmografia del belga, e finora il confronto col padre era stato impietoso.
Finora.

Van Damme, dopo JCVD, non passa un bel momento, certo non paragonabile al periodo post Tsui Hark che lo farà sprofondar nel bieco B movie senza gloria, ma insomma non fatto proprio, almeno a livello di budget, di grandi produzioni. Certo le ultime cose, soprattutto Assassination games con l'altrettanto straordinario ex Boyka, Scott Adkins, sono buoni film, ma la fotografia, le location bulgare, gli attori fanno percepire un'aria abbastanza miserabile di B movie non proprio pensato per il cinema. Certo c'è Van Damme, l'uomo capace di rendere vendibile pure una cosa immonda come Second in command, ma si capisce che, con i suoi capelli sempre più bianchi e radi, con le rughe marcate sul viso, l'attore sente il bisogno di ruoli più maturi dell'atleta famoso per le sue spaccate. JCVD di Mabrouk El Mechri è il punto di non ritorno, la consapevolezza di aver toccato le stelle e, per colpa di scelte sbagliate da testa di cazzo, droga, violenza, voglia solo di soldi, di essersi sporcato l'immagine, di aver deluso, per citare il film, “il suo dojo”. Ecco quindi che il post JCVD è fatto di interpretazioni pacate, di meditazioni prima che di pestaggi, di personaggi tormentati che hanno, come il nostro Gianni Claudio, toccato l'inferno e ne sono stati segnati per sempre.

Dragon eyes, dalle premesse, sembra una pietra tombale per Van Damme: il suo nome spicca sul cartellone, ma sullo schermo ci sarà si e no 15 minuti in un totale di un'ora e mezzo di girato. Un po' come agli esordi, ai tempi di Kickboxers e Black eagle, ma qui con la consapolezza che non si parla più di un giovane esordente, ma di un mito dell'action. Eppure questi 15 minuti, per assurdo, questo grande regalo che fa Jonathan Hyams alla star belga, sono un atto d'amore verso il cinema vandammiano. Non importa che il protagonista sia il vietnamita Cung Le, che ci sia un grandissimo Peter Weller non più Robocop, Dragon eyes regala al pubblico il miglior Van Damme degli ultimi anni e questo basta per relegare il film nell'olimpo vandammiano. Basti pensare all'inizio quando allena lo sfortunato protagonista con i suoi celebri calci sciorinando battute come “Se sei un uomo combatti a due zampe” o quando racconta la sua tragedia greca con figlio ucciso per sbaglio. Ecco che parte un piano sequenza d'applauso dove la mdp insegue Van Damme che fa fuori tre energumeni armati di tutto punto in un'idea precisa di messa in scena che sublima l'impianto produttivo. Van Damme riveste i panni del maestro, di Tiano, nome mitologizzante, e resta la cosa più notevole di un film che narrativamente è la riproposta del classico La sfida dei samurai e quindi di Per un pugno di dollari (ad un certo punto Cung Le si metterà un poncho simile a quello di Cint Eastwood).

Dragon eyes è carne e sangue, il suo attore protagonista è intercambiabile con un soprammobile, ma, Madonna santa, quando mena che furia! Non si vedeva da tanto un film con una tale rabbia nei pestaggi, con una tale dose di realismo da far sentire nelle propria ossa le fratture. Cung Le, lottatore professionista, con la sua faccia antipatica e il viso segnato dalla vita è il simbolo di un film che vive una strana alchimia di elementi sbagliati che incontrano il meraviglioso. Ecco che un gigionesco Peter Weller diventa quasi Al Pacino in un ruolo da mafioso italiano che urla incazzato parolacce nel nostro idioma, “Cazzo”, “Vaffanculo”, “Figlio di puttana”, con accento sbagliato, un po' come quando Anthony Wong in Beast cops biascicava insulti coatti. Genio.

Eccola la fotografia sbiadita da film di terzo mondo che impreziosisce l'aria da apocalisse che la pellicola ha nell'anima. Ecco che le varie gang antagoniste ricordano con nostalgia più un Albert Pyun all black come The Wrecking Crew che un brutto parto di The Shield. Ecco che le scene alla Guy Ritchie acquistano una dimensione tutta originale nella messa in scena così potente di John Hyams, l'uomo che davvero avevamo odiato la prova precedente e che ora potrebbe essere l'arcangelo Gabriele. Dragon eyes è senza dubbio un film imperfetto, ma senza questa imperfezione, senza i suoi sbilanciamenti, senza la trama che capisci una volta si e cento no, senza le sue coreografie che fanno il culo ai vari Explendables, senza Van Damme ombroso e teatraleggiante, senza un protagonista che se ride o piange è lo stesso, senza il “Cazzo” urlato alla fine nel sangue da Weller, no non sarebbe stato lo stesso.

E allora questa volta sporchiamoci con gusto nella melma del B movie più bello degli ultimi anni. Felici di essere serie B naturalmente.
Keoma

mercoledì 30 maggio 2012

Margin Call

8

Adesso noi europei, e italiani/spagnoli/portoghesi/greci soprattutto, siam sempre lì a vedere come va lo spread dei nostri titoli di stato nei confronti dei titoli tedeschi, a misurare il debito pubblico in rapporto al pil. L'Italia ha persino messo il "pareggio di bilancio" come dettato costituzionale, perché poi spesso accade questo, che proprio l'ex-peccatore diventa il più intransigente nei confronti del peccato. Si tratta comunque di una crisi che è un'onda lunga del crack finanziario, partito dagli Stati Uniti e pilotato dai tanti drittoni della city londinese, causato dai noti sub-prime, derivati, e via parolacciando parole vuote, che parlano del nulla ma ci svuotano le tasche e quel che è peggio non procurano lavoro a nessuno, anzi se possono lo tolgono...

E' questo il tema del film, incentrato su una società di trading di Manhattan. Fatto bene, essenziale e chiaro persino ad un infedele del capitalismo come me. Veramente bravo il regista J.C. Chandor, giovanissimo e al suo primo lungometraggio, che se lo è anche scritto e ha coinvolto attori del calibro di Kevin Spacey, Jeremy Irons ed altri (sì, sì... c'è anche l'iperbotulinizzata Demi Moore, statuaria nel senso della statua). Bello da meritarsi il Partenone non fosse altro per il coraggio di portare anche dei messaggi diretti di critica netta e dura. Non è poco e vediamo come.

Senza entrare nei dettagli: nella società di trading si viene a scoprire che i prodotti finanziari su cui hanno puntato e che la società ancora detiene grandemente hanno una pericolosa "volatilità". Cioè? Non valgono un beato C e portano il debito a livelli superiori alla capitalizzazione della società stessa, cifre astronomiche. Dopo una notte di riunioni e manovre sopra e sotto banco bisogna decidere il da farsi. Le alternative sono 2: tenere i titoli piazzandoli piano piano nel mercato con la speranza che si risollevino e quindi gravando sul capitale della società e sui redditi di soci e dipendenti, oppure piazzarli con una manovra velocissima portata avanti da tutti i trader coi loro rispettivi clienti, piccoli e medi risparmiatori ai quali rifilare la monnezza cercando di portare a casa quanta più liquidità possibile e poi chiudere la società. Cosa faranno? Lo sappiamo, la storia ce lo ha insegnato che certa gente casca sempre in piedi.

Ho omesso i dettagli, non li ricordo poi benissimo con tutti quei nomi tecnici e inglesi, ma il bello è che si capiscono nella loro essenza e senza lauree in economia. Si capiscono! E' già tanto questo, ma poi si capiscono bene altre cose: cos'è in realtà questo mondo della finanza, che tipo di personaggi ci sono a gestirlo, che tipo di illusioni vende e su chi queste illusioni hanno presa.

Il "Mondo della finanza" vive staccato, completamente disaccoppiato dalle vere produzioni di beni e servizi e quindi valuta e misura la realtà delle persone in termini di costi e ricavi che, attenzione, non sono legati a ciò che producono, ma al valore che le azioni-obbligazioni-titoli in generale possono avere in termini di pura presa emotiva sugli acquirenti. Una fotografia piuttosto algida, innaturale, sottolinea bene questo, non si parla di un modo umano e normale di vivere e pure i lussi di cui si dispone si svuotano di ogni loro possibile piacere.
Questi "Personaggi", tutti uguali, orrendamente omologati, non fanno niente, bisogna metterselo in testa una volta per tutte. Maneggiano denaro che è più presente come valore nominale che in reale liquidità disponibile e poi possono appunto ritrovarsi di punto in bianco con un pugno di mosche, ché quel nominale sale e scende repentinamente se si fanno azzardi, perché prima o poi il nominale deve essere confrontato con la realtà e se, faccio un esempio a caso, i mutui risultano in massima parte insoluti che fai? Li rifili a qualcun altro prima che venga a saperlo come invece tu hai saputo prima. Peccato che il danno non si limita a questo, perché proseguendo l'esempio accade che i valori degli immobili decresce dato che molti sono disponibili sul mercato, quindi le azioni in imprese immobiliari scendono, ecc... ecc...
Sono Personaggi che vengono ben ritratti con poche stoccate, come all'inizio ad esempio, quando di fronte ad una mattinata di licenziamenti in tronco il direttore della sezione si mette a piangere, ma per il proprio cane che è malato di tumore e lui da tempo lo fa curare con spese di 1000 dollari al giorno, e piange copiosamente. E' gente malata, non conosce il valore dei soldi come qualcosa che va guadagnato con fatica e più non sanno fare nulla di concreto più sono agevolati a pensare nel modo perverso che quel tipo di lavoro richiede. Esemplare la scena in cui un licenziato si mostra orgoglioso, ingegnere che una volta operava come tale prima di finire lì, di un ponte che ha costruito in passato.

Bravissimo J.C. Chandor, la da noi famosa Casalinga di Voghera gli spedirà in premio una bella sciarpetta di lana fatta con le sue mani operose. E' quella che non capisce perché, pur conducendo la stessa vita di sempre col marito, a volte i soldi ci sono altre spariscono. Dove sono finiti se li ho semplicemente messi in banca? E' successo che la banca ha provato a fare profitti con titoli a rischio, poi si sono rivelati un fiasco, lo stato s'è indebitato per coprire il casino delle banche non potendo come una volta stampare autonomamente cartamoneta. Risultato: le banche hanno ancora le casse piene, e alla vogherese gli riducono la pensione, i servizi pubblici e l'ammazzano di tasse, per non dire del resto...

Fin qua tutto ovvio, ma l'apogeo il regista lo tocca quando fa spiegare, con parole diverse a due personaggi diversi, una sostanza che solo chi non vuol cogliere non coglie. Si tratta di dare il giusto valore al grande imbroglio che rifileranno ai loro investitori. Sostanzialmente il concetto che loro esprimono è questo: "è vero, noi gli rifiliamo un bidone, dicendogli che svendiamo titoli che potrebbero avere un grande rendimento pur sapendo che è spazzatura, va bene... Ma loro perché se li comprano?". Venendo a esempi a noi vicini, è vero che le banche oneste non vendevano i titoli argentini che poi si rivelarono carta igienica, ma è anche vero che oltre il 10% d'interessi facevano gola a molti che caddero nell'imbroglio di quelle disoneste. Ecco la "Illusione", quella di guadagnare senza fatica, semplicemente facendo fruttare il denaro, e ci cascano in molti! E' un'illusione che non c'è solo in borsa, quella che dà sempre una "speranza" al povero, o diciamo al non-ricco, di diventare ricco, magari con un biglietto della lotteria, la scommessa del secolo, il quiz televisivo, il matrimonio con un principe. Quella finestra aperta che incanta, che al posto di farci incazzare per le assurde diseguaglianze sociali e quindi portarci, non dico a lottare, ma almeno a boicottare questi luridi personaggi non foraggiandoli coi soldi sudati, ci rende eternamente speranzosi di diventare come loro. Non si mira a ridurre l'ingiustizia, ma ad entrare a far parte dei privilegiati.

Il giovane trader che scopre il disastro è un ingegnere che potrebbe costruire razzi, ma è lì perché si guadagna di più. Leggi: l'illusione distrae cervelli da mansioni ben più nobili. E' basito per tutto quanto viene a scoprire frequentando una sola notte l'alta dirigenza della società, ma dopo il "crollo pilotato" farà anche carriera e non rifiuterà il lauto reddito che lo attende, con macchine lussuose, ristoranti e mignotte d'elite.
Cosa faremmo al suo posto? Affideremmo i nostri soldi a un personaggio del genere?

Consigliatissimo, e ognuno ci mediti sopra come preferisce.
Visione da accoppiare, senza temere sovrapposizioni, all'ottimo "Wall Street 2" (2010, Oliver Stone).
Robydick

martedì 29 maggio 2012

Prova d'orchestra

7

Màh, questo mio ultimo che ho fatto è comunque e soltanto un filmetto”
Federico Fellini, 1978.

ll declino dell'Occidente in C # Maggiore.”
Dalla Tagline originale di lancio del film negli Stati Uniti

Nino Rota tra le moltitudini di film per cui ha composto la colonna sonora, in cinquant'anni di carriera, (Il Padrino”, [1972] di Coppola, “Il Casanova”, [1976] sempre per Fellini ), ce n'era uno che ha meritato per decenni più di altri di essere finalmente riesumato, grazie all'avvento dell'era del dvd (ma non in Italia, essendo uscito in Gran Bretagna). Pensando che non era poi stato mai distribuito in home video in alcuna forma, e che essendo una produzione RAI veniva soltanto programmato in televisione, ogni tanto. Questo film ingiustamente dimenticato è Prova d'orchestra” (1979), diretto ovviamente da Federico Fellini. Esso raffigura la lotta artistica e politica tra un Direttore d'Orchestra (tedesco) e i suoi italianissimi musicisti. Un film dunque sulla musica, ma anche e non secondariamente, sull'assolutismo del potere, il terrore che ne consegue, e dei destini dell'umanità stessa.

Prova d'orchestra” è stato oltre che per Rota, anche uno dei massimi risultati della “maturità” nella filmografia felliniana, Rota intanto venne qui impegnato nel suo ultimo lavoro (morì dopo le sessioni di registrazione) che di conseguenza fu anche il lavoro finale della lunga collaborazione Fellini-Rota - dopo alcuni capolavori come 8 1/2” (1963), Roma” (1972), Amarcord” (1974) e tanti altri.

"Il collaboratore più prezioso che abbia mai avuto, lo dico subito e non ho nemmeno bisogno di esitare, era Nino Rota," affermò Fellini, "tra noi, subito, una completa, totale, armonia."
Prova d'orchestra” fu ambientato durante una sessione musicale dall'inizio alla fine, e tutti i personaggi sono musicisti. Potrebbe esserci stato un risultato supremamente migliore?

Di solito, nei film di finzione ma anche nei documentari sulla musica, i musicisti e le orchestre sono solo una parte del set, e solamente sullo sfondo. Qui, sono gli “anti eroi” protagonisti, che hanno tutti i dialoghi e ognuno di loro ha un'importanza nella storia. Questo film è un omaggio ricco e vibrante, alla musica e ai suoi interpreti (venne infatti ingaggiato Carlo Savina per mostrare all'attore principale come condurre l'orchestra). “Prova d'orchestra” di tutti i film di Fellini è stato per lungo tempo quello davvero più sottovalutato, mentre è invece probabilmente uno dei film più emozionanti mai realizzati sull'arte della musica – e un film di rara lucidità e riuscita metafora sull'attualità italiana di quel tragico e tumultuoso periodo, dalla tesi mai enunciata, ed eppure stampatasi nella mente di ogni spettatore.


Il caos come inizio

Mostrare i musicisti di un'orchestra al lavoro fu il desiderio che fece a Fellini da spunto catalizzatore per fare il film. Fellini, in effetti, confessò al famosissimo critico cinematografico francese Michel Ciment: "Quando ho partecipato alle sessioni di registrazione delle colonne sonore dei miei film, mi ha sempre colpito, stupito e anche ogni volta spostato l'attenzione da altre cose, perché mi sentivo come se fossi il testimone di un miracolo molto diverso e particolare. Persone che arrivavano allo studio di registrazione ognuna con i propri diversi strumenti, ma anche con i loro problemi personali, il loro cattivo umore, la loro malattia, a volte la loro radiolina."

Non appena incominciano i titoli di apertura o durante le prove dell'Orchestra, Fellini sempre più e con grande maestria fa pervenire allo spettatore l'idea del caos che apparirà come il tema principale della storia. Non inizia il suo film con un'apertura musicale tradizionale (come con Rota ha fatto spesso), oppure i suoni dei musicisti che scaldano i loro strumenti prima dello spettacolo. Mentre i nomi degli interpreti e dei tecnici sono presentati sullo schermo, si possono sentire solamente i rumori del traffico urbano (anche se nessuna scena del film avverrà poi all'esterno).
Si tratta di una sorta di "melting pot" fatto di suoni della città, con le sirene dei pompieri, ruggiti di moto, pneumatici di auto che rumorosamente stridono sull'asfalto, le campane, i tram, altri rumori di motori e persino di aerei. Fellini ci fa qui immaginare come di un esercito pronto ad andare in guerra. Tutte le tesi alla fine, come i suoni, si confondono. Fellini mette a confronto il circo alla vita dei musicisti professionisti contemporanei al circo, così come la creazione di immagini, con l'esecuzione delle sessioni musicali. Gli impazienti suoni dei mezzi motorizzati che si sentono nei titoli di testa di Prova d'orchestra” in un certo senso, sono i musicisti dell'orchestra che come stiamo per scoprire, hanno come mezzi di trasporto i loro strumenti musicali.

Immediatamente, la magia del rapporto suono / immagine è già effettiva. Parlando di questo in una lunga intervista a Giovanni Grazzini, Fellini aveva ammesso: "Per quanto mi riguarda, sento un bisogno personale di dare la stessa importanza ai suoni e alle immagini, creando una sorta di polifonia." Ma ciò non significa, come nella maggior parte dei film di oggi, che si debba avere tanti suoni e brani musicali quante sono le immagini. E infatti non è l'idea del caos che veramente interessi a Fellini ma, più probabilmente, l'idea della polifonia, il vero filo di Arianna di Prova d'orchestra”.

Il film si apre come con l'allarme di una guerra, di un pericolo che annuncia un imminente apocalisse. Ma questa apertura di “suoni confusi" (quasi come una sorta di techno-ouverture musicale) forse rivela anche il difficile rapporto tra il maestro Federico Fellini e il grande mondo dei suoni e della musica.


Fellini e Rota, due mondi

Quando si fa una ricerca su Fellini, può chiaramente sembrare che la musica non fosse mai stata per lui vitale, un fatto piuttosto sorprendente per un artista. "In privato", disse Fellini "devo confessare che preferisco non ascoltare la musica. La musica mi condiziona, mi preoccupa, mi possiede come una voce di rimprovero che mi tormenta perché mi mostra una dimensione di pace, di armonia e di completamento dalla quale mi sento escluso, esiliato. La musica può essere anche crudele. " Fellini in “Prova d'orchestra” affronta in profondità questa sofferenza personale, come la confessione sorprendente di ipersensibilità vis-a-vis alla musica da parte di uno dei registi più musicali di sempre.

"Non posso ascoltare qualcuno che batta con le dita su di un tavolo: Immediatamente mi disturba, vengo colpito dal ritmo nello stesso respiro." Fellini ha continuato: "Come per Nino Rota, che era capace di ascoltare un altro brano nel bel mezzo empatico di una fanfara, in questo aveva delle capacità da fachiro.». 

A differenza di Fellini, Nino Rota (compositore dei film di Fellini dal 1952) era, come per lui, in una "non-relazionabilità" con il mondo delle immagini - da qui forse la complementarietà assoluta tra due uomini. Fellini ha spiegato: "Egli [Rota] aveva come una" immaginazione geometrica ", un approccio musicale degno delle" sfere celesti "Galantemente, ma non aveva bisogno di vedere le immagini dei miei film. Quando gli chiedevo con quali melodie aveva in mente di commentare. una sequenza o un altra, ho capito chiaramente che non era interessato alle immagini come tutti. Il suo mondo era interiore, dentro di sé, e la realtà non aveva modo di entrarvi." Rota sembrava essere così lontano dal film stesso che poteva così apportare una totale libertà di creazione.

Fellini era così divertito, dopo il montaggio nei suoi film, della musica registrata da Rota, che il loro duo artistico si sarebbe poi trasformato in una collaborazione centrale nella storia del cinema: "Dopo aver messo così tanti sentimenti nel mio film, tanta emozione, tanta energia, egli [Rota] si volta verso di me e mi chiede (circa l'attore principale del film): "Chi è questo tizio '" E' l'attore principale, "ho risposto e lui diceva, in un tono di rimprovero:." E cosa sa fare? Non mi hai mai dato spiegazioni. "La nostra amicizia era davvero basata sui suoni." *

Molti critici e studiosi hanno parlato dell'armonia artistica tra Fellini e Rota, ma questo loro unico rapporto, quasi definibile come un'armonia di colori era in realtà basato su di un enorme conflitto artistico: Fellini e Rota appartenevano a due famiglie diverse, il mondo delle immagini e quello della musica. L'amicizia può spiegare quest'armonia?




I mondi degli strumentisti

Si sentono a volte aneddoti sulle differenze più o meno importanti tra alcuni dei cineasti e dei loro compositori cinematografici, ma a volte ci sono anche alcuni “problemi” interni -ed è un eufemismo- tra i musicisti delle orchestre, come ben mostra Fellini in “Prova d'orchestra”. "Prima di scrivere la sceneggiatura," Fellini aveva osservato che "Avendo intervistato un sacco di musicisti, un buon centinaio, forse, come alcuni dei più grandi solisti italiani, sono riuscito a calarmi bene nella loro pazzesca identificazione con il loro strumento." Qui ci sono alcuni estratti dei pensieri di alcuni musicisti.

IL FLAUTO. Nel film, la flautista vede il flauto come lo strumento il più vicino alla voce umana. "Ironia della sorte," dice, "il coro considera sè stesso come uno degli elementi più importanti. Secondo una musicista donna come me invece, il flauto può addomesticare le bestie più selvagge, ricordo sempre a tutti che Apollo svegliò i morti con un flauto. E' lo strumento degli incantesimi, uno strumento solare e lunare insieme." dichiara.

Il trombone. "Uno strumento insostituibile per l'abusato accompagnamento dei pagliacci quando cadono a terra" indica il suonatore di trombone. "Ma è anche lo strumento degli angeli. Nei dipinti del Rinascimento, quando c'erano degli angeli spesso erano a suonare il trombone, forse donatogli da Dio stesso".

La sezione di percussioni. Un percussionista si lamenta degli altri musicisti perché si prendono troppo tempo a scaldare i loro strumenti. Il timpanista accusa il piano di essere un "malato di protagonismo". "In Italia", dice un altro musicista, "Si da troppa attenzione ai cantanti e non abbastanza per il ritmo. Il popolo napoletano, però, ha un buon senso del ritmo, loro sì sono i migliori percussionisti! Chi ha inventato la tarantella? Un napoletano! "

Il primo violino. "E' il cervello, il cuore della orchestra." Sostiene il musicista. "E il clarinetto è l'uccello!" grida un altro musicista. "No, il violino è lo strumento più virile dell'orchestra Perché è penetrante, fallico! Non è femminile, ma malato d'amore, vibrante e sempre attuale, è ancora lo strumento preferito al conservatorio. E' il divo dell'orchestra, la stella! "


Fellini e Rota al posto di lavoro

Dopo tutti questi "mini-ritratti" nel film di Fellini arriva il Direttore. I musicisti si siedono e iniziano a suonare. Quattro pezzi hanno la superba mano di Nino Rota e furono composti appositamente per il film.

"Lavorare con lui [Rota] è stata una vera gioia Si poteva sentire così bene la sua capacità di creare quella musica che avrebbe poi comunicato a tutti una sorta di euforia che era così potente, o una sensazione che mi dava l'impressione di scrivere la musica per conto mio. " *

Fellini, naturalmente, non ha mai scritto musica, ma ne ha spesso abusato nei suoi film, “sparando” con essa, come se la musica fosse per lui una spiegazione non verbale per i suoi attori e attrici. "Quando ho da girare un film," ammise Fellini: «Io sono abituato a portarmi sul set alcuni dischi. La musica può condizionare una scena, portare ad essa un certo ritmo, suggerire una soluzione, o l'atteggiamento di un personaggio." Fellini ha ad esempio spesso abusato della canzone "Titina" da “Tempi Moderni”(Modern Times) (1936) di Chaplin. "Queste musiche sono legate a delle emozioni precise, ai temi dei miei segreti." *

Ma come ha fatto Rota a scrivere le sue partiture originali per i film di Fellini? In effetti, Rota era aduso improvvisare alcuni "brani" sulla fisarmonica per le prime impressioni di Fellini. A volte, dopo un paio d'ore, il regista si metteva improvvisamente a gridare: "Sì è questa, è questa la musica!" Fellini spiegò: ". Fu così che i nuovi motivi del film hanno preso vita e sono rimasto subito affascinato dimenticandomi di quelle vecchie canzoni che avevo usato sulle riprese e che mi avevano consigliato. " In altre parole, Rota era ogni volta di gran lunga meglio di qualsiasi" traccia precedentemente esistente"!

"Egli [Rota] era qualcuno che aveva una qualità rara che appartiene al mondo dell'intuizione. Proprio come i bambini, e semplicemente, le persone sensibili, persone innocenti, egli [Rota] direi improvvisamente faceva delle cose folgoranti" ha affermato Fellini. "Appena arrivato, lo stress era scomparso, e andava tutto verso un clima festoso, il film entrò in una gioiosa serenità, un periodo fantastico, una nuova vita."

Una definizione di musica: ricerca del mondo perduto

In una scena di “Prova d'orchestra” è possibile vedere il Direttore (interpretato da Baldwin Baas) portare "vita" e "respiro" alla musica. Dopo diverse riprese, i musicisti alla fine riescono a eseguire il pezzo con intensità. La musica è formata con tale passione che si ha l'impressione ovunque nello studio come di una presenza febbrile. Alcuni musicisti nemmeno si alzano per togliersi i maglioni visto il ritmo che diventa sempre più veloce, mentre gli altri mantengono sempre più energica e selvaggia, l'esecuzione della musica di Rota. In realtà, si potrebbe quasi dire che i musicisti si tolgono i loro vestiti e si trasformano in elfi, la loro pelle si “desquama” e la loro voce cambia, trasformandosiper tornare alla vita.

Il famoso storico della musica Quignard dei miei non dimenticati studi musicali, ricordava di notare che ci sono anche ragioni storiche e sociologiche che avevano impedito per lungo tempo alle donne di comporre musica, egli può però essersi dimenticato che anche la ricerca della metamorfosi non è solo peculiare della composizione musicale, ma anche peculiare nelle esecuzioni stesse della musica. Questa è una delle lezioni di Prova d'orchestra”, in cui è possibile vedere i musicisti (uomini e donne) con il loro comportamento che cambia e loro corpi stessi che si muovono attraverso la musica. Essi sono riportati come in uno stato di trance; Durante l'esecuzione della musica di Rota, quasi ballano. Inoltre, "orchestra" originariamente significava "il luogo in cui andare a ballare." Il film di Fellini potrebbe quindi essere anche il film più bello e avvincente mai realizzato sulle motivazioni segrete e recondite della musica.

"L'orchestra è il terrore, il Direttore è la morte"

Il Direttore in Prova d'orchestra” è per primo mostrato come una madre che permette la musica carrivi a donare come una nuova esistenza ai musicisti, con la quale tornare alla vita. Ed è mostrato da Fellini anche come un padre autoritario.In questo film il Direttore è in realtà un gravoso e autoritario tedesco (considerando anche che i musicisti dell'orchestra sono tutti italiani). Quando il film venne fatto uscire alla fine del 1978, molti recensori videro in questo come una simbologia sulla rinascita e una recrudescenza del nazismo e quindi del fascismo in Italia, ma lo stesso Presidente della Repubblica Pertini ebbe a dichiarare ufficialmente "[Fellini nel suo film] affronta non solo l'Italia del terribile 1978 ma anche il mondo intero". **

“Prova d'orchestra” è certamente una potente metafora di quel periodo storico in Italia, forse la più convincente e originale mai realizzata, ma anche e soprattutto un'esplorazione del mondo interiore dei musicisti, la quale a poco a poco, diventa nella sua attualità del 1978 una realtà sociale, e universale. "I musicisti sono lavoratori come gli altri”, rivendicano I sindacalisti al Direttore d'orchestra. Fellini ci mostra poi l'insoddisfazione del Direttore al riguardo che controbatte: " Se Wagner avesse dovuto obbedire agli scioperi e alle richieste dei dirigenti sindacali, non sarebbe mai riuscito a scrivere le sue opere e sinfonie". Uno dei musicisti allora gli risponde che "Non è, in ogni caso, allora colpa dei leader sindacali se Wagner scrisse musica pomposa!"

La guerra annunciata nei titoli di testa alla fine irrompe prepontemente fuori. Dopo una pausa forzata, il conduttore torna all'Auditorium musicale e si trova di fronte ad un autentica e spettacolare rivolta. I musicisti hanno dipinto graffiti osceni sui muri, alcuni musicisti stanno suonando musica orribile e rumorosa e altri gridano con veemenza: "L'orchestra è il terrore e il Direttore è la morte!" A volte, la furia dei musicisti sembra provocare piccole scosse di terremoto nell'Auditorium stesso.

L'elettricità è stata tagliata, oramai l'intero studio è illuminato da diverse candele, come in una caverna preistorica. Fellini filma le ombre dei musicisti sui muri e sui fogli degli spartiti. Si tratta ora di un esercito di ombre. Nel caos rumoroso e buio, è possibile vedere un peloso musicista denudatosi, una coppia che chiava sotto un pianoforte, un gruppo che ascolta una partita di calcio alla radio, e una donna che dice rivolta alla cinepresa: "Un bambino, una volta mi ha chiesto da dove viene la musica e dove va, quando essa finisce?"


Ascoltare l'inconscio

Alcuni orchestrali ribelli sostituiscono il leggio del Direttore d'orchestra con un metronomo gigante simile ad una bara, che viene però distrutto rapidamente da altri musicisti, i quali rifiutano qualsiasi forma di leadership. Ma improvvisamente, una dei muri si crepa, e la polvere e dei piccoli sassolini incominciano a cadere sui musicisti. Poi, viene da fuori o dal nulla, una enorme sfera d'acciaio incatenata ad un fusto, come quelle delle demolizioni, che finisce di distruggere il muro di fronte ai musicisti. La furia viene subito sostituita dal suono del vento. L'improvvisa intrusione di questa gigantesca e misteriosa sfera ha l'impatto di una bomba nucleare. Nel subconscio questa immagine ci ricorda il grande pesce sulla spiaggia al termine de “La Dolce Vita” (1960), ed è un presagio dell'enorme rinoceronte di E la nave va” (1983).

Quando “Prova d'orchestra” uscì, Fellini disse qualcosa che oggi nel 2012 sembra molto suggestivo: "Tutti gli eventi orribili che stiamo vivendo non solo politici, ma anche dettati dalla confusione, dai disastri e dalle più profonde fratture della società, non so cosa si può fare per cambiarli. Ma quello che voglio mostrare è sempre diretto a livello individuale. Poi, invece di scambiare pezzi di informazione politica, cerchiamo di condividere le informazioni o il nostro inconscio. il film [“Prova d'orchestra”] parla delle conseguenze di tale "super-coscienza", che è solamente politica , invece di prendere cura del nostro inconscio. "**

"La musica ci salva, cerchiamo di apprenderne le note"

L'arpista ha una gambaspappolata dal crollo e viene evacuato, altri rimangono sepolti sotto i massi del muro. Il Direttore allora si alza e dice a tutti i presenti nell'Auditorium: " La musica ci salva, cerchiamo di apprenderne le note" Senza una parola, uno dei musicisti ribelli incomincia a eseguire la musica seguendo il Direttore d'orchestra, e tutti gli altri musicisti prendono il loro strumento in silenzio. Ognuno inizia l'esecuzione della musica di Nino Rota in omaggio ai morti (“Fatale presagio”). La splendida partitura di Rota dal sottile profumo tzigano, si sovrappone ironicamente alle grida d'incitamento agli orchestrali in un tedesco urlato che richiama sempre più quello di Hitler nei suoi comizi, del Direttore d'orchestra.

La musica di Rota (spesso in asse con il lavoro di Fellini) ricorda anche che qui la musica scritta per il circo e i film muti, come un ritorno alle origini del cinema, mettendo in discussione le sue radici e la sua funzione stessa al giorno d'oggi. La musica di Rota è l'innocenza e l'infanzia, nei film di Fellini. Ma per questo ultimo pezzo, Rota soprattutto abusa di un tema piuttosto tragico e grave pure nell'orchestrazione. Dietro la musica come accompagnamento dell'amato clown felliniano, un buio profondo, un grido nemmeno tanto segreto, un addio in questo caso quanto mai fatale, la dimostrazione ultima del genio musicale di Rota.

Nonostante il crollo e la polvere in sala, i musicisti suonano con forza, tutti in piedi al centro dello studio sconvolto dal caos. Alcuni durante la riproduzione della musica di Rota piangono. Fellini: "Rimanevo solo stupito di constatare che dopo essersi formato, questo gruppo eterogeneo alla fine formava un tutto unico e astratto, che eseguiva la sua musica, era un'organizzazione fatta di caos, la quale subito, mi sommerse.». **

La musica di Rota è sublime e pochissimi registi hanno filmato e saputo restituire allo spetattore tale performance musicale con tanta emozione e rispetto. Il Direttore, fachiro della situazione, muove le mani come onde infinite, è ancora una volta il sacerdote di fronte ai suoi credenti. Fellini non ha mai ripreso una volta il cielo esterno in tutto il film, ma la volta celeste qui è in realtà nient'altro che la musica stessa, come la luce, l'aria, e forse la vera realtà.


Questa è la fine

Fellini però non scelse per la fine quello che ebbe a definire "Un facile sentimentalismo". Il Direttore riacquista la sua voce autoritaria e dice all'orchestra, in un tono in crescendo: "È necessario inserire meno coloriture nella musica, il rumore non è musica, non è un tram!" E comincia a urlare contro di loro (in dissolvenza sullo schermo, noi continuiamo a sentire urlare nel buio questa nazista): "Non pensate di essere su un campo di calcio! Io allora sono un arbitro, e dove sono i vostri polmoni, il respiro della vostra musica??" Le ultime parole del direttore: "Da Capo" .
La fine del mondo non può esistere: esso come un triste leitmotiv non si ferma. Ciò che è accaduto negli Stati nel settembre 2001, o cosa è successo in Giappone l'anno scorso e in Siria attualmente ne è più di una prova comprovata. Il Fellini di Prova d'orchestra”, nel 1978, racconta una parte della storia del nostro mondo, ma impedendosi di essere alla fine troppo esplicito. Sono i “leader”, i capi tutti, necessariamente mostruosi? Sono le persone che non hanno il “comando”, sempre innocenti? Ma chi è nato allora, se c'è, per obbedire? Chi deve coltivare la libertà: la/e leadership o l'individuo? Entrambi? Come possiamo fare per rimanere dentro l'orchestrazione della vita? È la morte dei nostri parenti l'unico modo per farci comprendere la grandezza della vita, la bellezza della tolleranza e la necessità di ascoltare/si?

"Mi rifiuto il lieto fine," ha sempre affermato Fellini, "Perché impedisce al pubblico di avere alcuna responsabilità. Al contrario, io preferisco che il mio film termini con un punto interrogativo, allora sta allo spettatore di trovare il termine giusto per la mia storia. In tutti i miei film, ho perlomeno cercato di rimanere fedele alla mia idea di lasciare nella conclusione dei punti di sospensione. Inoltre, non ho mai scritto la parola “Fine" sullo schermo. " Fellini non porta mai una "soluzione finale", ci lascia con la nostra immaginazione, lasciandocela da e per, interpretare.


Trama

Il film inizia con il vecchio copista che racconta la storia delle tre tombe dei papi e dei sette vescovi che si trova all'interno di un oratorio duecentesco, trasformato in auditorium nel 1700. La stanza vuota, riempita solo dalla voce del copista, inizia a popolarsi di leggii, spartiti, quadri che raffigurano musicisti del passato fra i quali Wolfgang Amadeus Mozart. “Oggi il pubblico non è più così”, afferma il vecchio copista (dopo aver annunciato il ritiro per sopraggiunti limiti d'età) mentre sistema i fogli per l'arrivo dell'orchestra. Ed ecco che sbuca la televisione, ancora parzialmente discreta, nel riprendere documentaristicamente la seduta di prove. Il regista (la voce è dello stesso Fellini) inizia ad interrogare tutti gli elementi dell'orchestra ad uno ad uno. I musicisti scherzano, ridono, si fanno beffe a vicenda, ascoltano la partita di calcio in radio nell'attesa di iniziare a suonare. Raccontano della assoluta necessità dei propri strumenti all'interno dell'orchestra, come a convincersi che ciascuno di loro sia lì per fare la differenza. Qualcuno, invece, si rifiuta di rispondere alle domande della troupe televisiva, forse troppo invadente, forse poco generosa nel retribuire gli sforzi altrui. Infatti, una piccola sommossa sembra fare capolino quando si scopre che l'intervista è totalmente gratuita, e la presenza dei sindacati in sala non fa che accrescere il nervosismo fra gli astanti. I racconti continuano a susseguirsi uno alla volta, i personaggi felliniani sono come al solito delineati alla perfezione. L'anziano clarinettista racconta delle sue performance davanti ad Arturo Toscanini, mentre gli altri lo canzonano colpendo la sua vanità. I trombettisti dialogano tra loro, una violinista si nasconde mentre beve un goccetto di Whisky rimproverata dai suoi compagni. Ma ecco che arriva il Direttore d'orchestra: biondo, con un forte accento tedesco, inizia a bacchettare i musicisti invitandoli subito all'ordine. Le prime prove non vanno, le note stonate che provengono dalla sala fanno notare il poco affiatamento presente, mentre il terribile Direttore comincia a spazientirsi e a rimpiangere l'ordine del passato. Dopo una lunga pausa (in cui il Direttore viene intervistato nel suo camerino privato dalla televisione), l'atmosfera che si respira in sala, colta da un improvviso black-out, non è più recuperabile. La rivoluzione è ormai compiuta al ritmo di slogan populisti e sessantottini: “La musica al potere, no al potere della musica!”. Il Direttore è ormai sconfitto, deriso, messo alla gogna dai suoi musicisti. I muri sono pieni di scritte, l'anarchia è totale. Qualcuno spara (come da regolare porto d'armi), qualcun altro fa finta di niente e continua ad ascoltare la radio (come lo Zio in “Amarcord” che continua a mangiare nonostante la confusione). Ma quando la situazione è ormai degenerata e i musicisti si ritrovano oramai gli uni contro gli altri, ecco che con fare paternalistico torna in scena il Direttore d'orchestra, pronto a ristabilire la pace nella sala e ricominciare a suonare. Tutto sembra andare per il meglio, l'armonia e la musica tornano a percorrere il proprio corso. Ma la scena finale, carica d'inquietudine e di presagi vecchi e nuovi, ci lascia con una devastante invettiva dello stesso maestro. Deluso ancora una volta dai “suoi” protetti, tra la polvere e i cumuli di macerie, inizia a blaterare: prima in italiano poi in tedesco, con foga sempre maggiore. La musica può salvare la vita, ma non il destino dell'umanità.


La critica 

Giorgio Strehler sul Corriere della Sera del 14 marzo 1979: «amaro, direi disperato e inquietante apologo, questo di Fellini. Certo, proiettato sul piccolo schermo, nella placenta evasiva delle camere buie di tanti telespettatori, non solamente italiani, non potrà non lasciare sgomento chi si pone qualche domanda sul mondo in cui viviamo, sulla qualità di questa Prova d'orchestra che è nostra, che è di tutti i giorni...»
“In soli settanta minuti, Federico Fellini riassume quello che ad un occhio superficiale e poco allenato può sembrare un'anomalia rispetto alla sua solita produzione. Un Fellini che si lascia alle spalle il suo mondo per scendere fra gli umani e raccontarne le gesta. Basta leggere le cronache di questi giorni per capire: “Il Fellini sognatore, visionario, narcisista inguaribile, instancabile raccontatore di sé, avverso a ogni forma di impegno, è uscito dal proprio "ego" per dare uno sguardo fuori, alla realtà che ci circonda, mettendoci sotto gli occhi una immagine inquietante dell'Italia odierna” (Costanzo Costantini "Il Messaggero" 12 novembre 1978).

“Ma le cose non stanno propriamente in questi termini.Il messaggio del regista sembra più che mai lontano da quello che superficialmente appare: la critica della società, il brancolare nel buio senza dare allo spettatore la speranza di una via d'uscita, sono solo alcuni tratti di matita che vanno a raffigurare un disegno ben più ampio. Non mancano coloro che stanno definendo il film portavoce di intenti nazionalsocialisti di un regista che finalmente mostra la sua anima autoritaria. Ma “Prova d'orchestra” non può ridursi ad un'analisi così spicciola e superficiale. I diversi livelli di lettura presentati nel testo, mescolano perfettamente l'alchimia felliniana fra sogno, memoria e realtà, in un mondo che rimpiange il mondo. I musicisti del film sono pieni di ricordi, di sogni, qualcuno fa addirittura i tarocchi su un pianoforte. Ma Fellini non smette neanche per un attimo di sottolineare la presenza del “falso”, dell'inautentico, dell'obiettivo della telecamera che riprende in toto i loro comportamenti, e prestando la sua voce a quella dell'intervistatore. Qualcuno si azzarda a dire “ma quante fregnacce che diciamo”, il direttore d'orchestra si confida invece nel suo camerino snobbando definitivamente il pubblico massificato: “ma lei crede davvero che pubblico capisce la musica?”. È qui che bisogna insistere, che bisogna calcare la mano per leggere le metafore e i simbolismi messi in scena dal regista/direttore d'orchestra. La musica è inizialmente vista come pulsione erotica, sessuale. La suonatrice di piano si lancia in un metaforico monologo che richiama alla poligamia: per poter conoscere, imparare, bisogna suonare su tutti i pianoforti. Non esiste un piano, esiste il piano, ci dice e tutti i pianoforti del mondo sono il piano. E mentre suonano, il direttore sembra nel bel mezzo di un amplesso, invitando i musicisti stessi a spogliarsi e a faticare. Solo più tardi dirà che non c'è più passione, non c'è più musica. Manca il silenzio, la quiete. Lo stesso direttore ricorda i suoi inizi, il silenzio e la capacità della bacchetta di generare il caos. Quella bacchetta che è per Fellini il simbolo della creazione, della sfera del magico, l'esuberanza dell'artista, i suoi capricci nell'atto artistico. “Oggi tutti sono uguali, non c'è più differenza”, alludendo all'appiattimento artistico e culturale portato in auge dal medium televisivo.
In questo caso, la passione viene scambiata per autoritarismo, la superficialità con la quale si taccia il regista per aver affrontato temi così delicati, non sono altro che la risultante di un complessissimo ordine di idee: “il «politico» di Fellini non è quello di Francesco Rosi o di Elio Petri , è un «politico» legato sempre a un mondo di favola, magico, fantastico, che nasce da lontane evocazioni e da ricordi dell'infanzia. Ed ecco che ancora una volta scivola nelle immagini la paura di aver toccato e perso il sogno, nel tentativo di concedere legittimità e forza ad un'arte sempre più collusa con la televisione con la colpa, da parte di quest'ultima, di restituirla alle masse priva del suo fascino. E l'ordine felliniano, da non confondere con quello autoritario di vecchia memoria, è solo un modo per riaffermare la propria autorialità all'interno di un mondo che ha mescolato a tal punto i meccanismi del desiderio da renderli inutilizzabili.” (Enzo Natta "Filmcronache", Elle Di Ci, 1979).



Doppiatori italiani
Oreste Lionello: Baldwin Bass


Premi
Sindacato Italiano Nazionale dei Giornalisti Cinematografici Anno 1979 Ha Vinto il Nastro d'Argento per la Migliore Colonna sonora (Migliore Musica) a Nino Rota (alla memoria).
Presentato fuori concorso al 32° Festival di Cannes
Napoleone Wilson

lunedì 28 maggio 2012

The Hand - La Mano

10

Opera seconda di Oliver Stone dopo il weirdo "SEIZURE"(1974). Michael Caine interpreta uno sfortunato disegnatore di fumetti che perde una mano a causa di un incidente automobilistico. Fin qui tutto bene, si fa per dire. Purtroppo la mano, come da copione, esige vendetta e l'esistenza del povero Jonathan Lansdale, autore di un fumetto in stile Conan intitolato "Mandro", verrà sconvolta da una spirale di morte e follia.

Gran bella pellicola dotata di un'atmosfera cupa e disturbante che non abbandona lo spettatore per tutta la durata del metraggio. Merito di un grande Michael Caine, che in quegli anni non disdegnava di mostrarsi nei panni dello psicopatico ("Dressed to Kill",1980) e della regia sicura di Stone, specialmente nella scena dell'incidente d'auto, in cui il dolore fisico del protagonista è quasi palpabile, sia per la bravura di Caine sia per un accorto uso del montaggio. Un film capace di generare un notevole senso d'inquietudine, anche per via della forte ambiguità di fondo (gli omicidi compiuti dalla "mano", mai più ritrovata dopo l'incidente, sono ripresi da Stone con la fotografia virata in bianco e nero, proprio per suggerire l'esistenza di una dimensione onirica che, forse, è alimentata dalla follia dello stesso protagonista). Non é cosa da poco. Anche il ménage à trois che si viene a creare tra la studentessa Annie McEnroe, Bruce McGill e lo stesso Caine ha dei connotati morbosetti che "sporcano" una horror-story già raccontata altre volte (si tratta infatti di un remake più o meno dichiarato del bellissimo film di Robert Florey con Peter Lorre, "The Beast with Five Fingers" [1946]).

Fotografia di King Baggot (nipote del King Baggot dei roaring twenties) e score del grande James Horner. Consigliatissimo. Dvd della Warner Home Video edito nel bel cofanetto "Twisted Terror Collection" contenente pure "Eyes of a Stranger", "Dr. Giggles", "Deadly Friend" di Craven, "From Beyond the Grave" e "Someone is Watching Me" di Carpenter.

Buona visione.
Belushi

domenica 27 maggio 2012

Maledimiele

4

La storia di Sara, una ragazzina che lentamente cade in una malattia, quasi esclusivamente femminile, in crescente diffusione: l'anoressia. E' una malattia che conosco poco. Il registra Marco Pozzi e la sceneggiatrice Paola Rota hanno invece a lungo indagato a riguardo prima di scrivere il film, vincitore del Premio Fiuggi Family Festival alla 67 Mostra Internazionale del Cinema di Venezia.

Alla base l'ossessione di sentirsi belle perché magre. "38 peso perfetto" scrive Sara (brava Benedetta Gargari, premiata come migliore attrice al 29esimo Festival del Cinema Italiano di Annecy), quando la sua altezza vorrebbe non meno di 50 kg per stare bene. Si comincia con il mangiare compulsivo a cui poi segue il vomito auto-procurato, ma l'agognato 38 richiede sforzi ulteriori e solo quello, pur unito ad un'attività sportiva intensa, non basta. Sara mette in pratica una sorta di decalogo, regole al limite della tortura pur di bruciare calorie. Non basterà mai, quindi lentamente la "soluzione finale" non potrà che essere la rinuncia al cibo. A lungo riuscirà a tenere nascosto il suo problema, poi inevitabilmente i genitori se ne accorgeranno, così come i compagni di classe, e inizierà una nuova fase...

Pur con la visione del film la mia ignoranza permane e permarrà, ma ho potuto avere una visione diretta di cose sentite raccontare e in quanto genitore, mettendomi nei panni di quelli di Sara (interpretati da Gianmarco Tognazzi e Sonia Bergamasco), immedesimarmi in quel senso d'impotenza, molto ben rappresentato, che si prova verso qualsiasi problema di tipo psicologico/comportamentale dei figli, l'anoressia essendone una delle condizioni limite. Ci si fanno domande senza quasi mai trovare risposte e il film risposte, in alcun senso, non ne dà né potrebbe darne. Sara si costruisce un suo mondo pur interagendo con l'esterno, ma l'ossessione del dimagrimento supera tutto in priorità. La morte della nonna (Isa Barzizza) pare toglierle il solo vero affetto che le restava, ma non si può dire che i genitori non gliene dessero, o che avesse problemi relazionali coi coetanei se non di ordinaria amministrazione per l'età. L'anoressia si può nascondere a lungo. A parte il dimagrimento è quasi asintomatica fino a quando il corpo non comincia ad avvicinarsi ai suoi limiti, ma in quel momento è anche molto tardi per poter intervenire e molte ragazze e donne non riescono proprio più ad uscirne. Molte ne muoiono.

Si legge nel comunicato stampa: "Questa patologia, che insieme alla bulimia causa maggiore mortalità tra i giovani delle stragi del sabato sera, viene indagata dall’autore attraverso il punto di vista della quindicenne Sara senza però alcun compiacimento voyeuristico o morbosità, ma cercando di restituire le sensazioni e le debolezze della protagonista. Mi interessava la dimensione mentale della malattia - afferma Marco Pozzi - non il corpo che si scarnifica. Lo scandalo senza scandalo."
Diciamo anche che rappresentare il corpo che si scarnifica richiede tempi e sacrifici da parte degli attori che non sono comuni. Posso qui ricordare le eccezionali performance di Christian Bale in "L'uomo senza sonno", ho quella di Michael Fassbender in "Hunger", per fare un esempio più recente superbamente recensito da Napoleone. Ce ne sono anche altri di esempi, ma si poteva chiedere tanto alla graziosa Benedetta Gargari? Ci voleva il sadismo dei registi dei seventies, italiani e non, tanto apprezzati da queste parti...
Anche se i contenuti sono l'aspetto pregnante, non posso esimermi da qualche considerazione puramente "filmica". Devo confessare che ogni tanto ho percepito quel retrogusto tipicamente italiano (e a volte anche francese) di tenere la storia in costante tristezza/pesantezza, indugiando su scene fisse a mio parere inutilmente lunghe. Ne capisco però le intenzioni e chiudo subito con l'aspetto che non ha stimolato il mio gusto. Molto belle invece in generale le riprese e la fotografia (curata da Alessio Viola), che tra l'altro mostra una Milano veramente bella che ho faticato a riconoscere subito. Curioso poi il fatto che Sara ogni tanto inquadri la telecamera e parli direttamente al pubblico, anche se non sono riuscito bene a interpretare la cosa. C'è una colpa di tutti oppure ci ha utilizzato come un diario?

Una visione che consiglio fortemente.
Da un pezzo volevo vederlo, ad Aprile è finalmente uscito anche se in sale d'essai, a due anni dalla produzione. Per sapere dove e quando vederlo si può seguire la pagina facebook. A Milano è ancora disponibile fino a domenica 27 Maggio al mitico Mexico, storico cinema al quale auguro vita eterna.
Robydick

sabato 26 maggio 2012

The Lady - L'amore per la libertà

7

La storia vera di Aung San Suu Kyi, paladina birmana per i diritti umani e per l'instaurazione di un regime democratico nel suo paese, in contrasto col regime militare tuttora in essere. Premio Nobel per la pace nel 1991, che non poté ritirare personalmente essendo all'epoca agli arresti domiciliari in un forzato isolamento sociale, è uno dei personaggi simbolo del pacifismo non-violento sulle orme di esempi che lei ammira infinitamente, come quello del Mahatma Gandhi e di Martin Luther King.
Storia che parte dall'uccisione del padre, eroe nazionale, nel 1947 da parte di militari golpisti quando lei era ancora bambina, fino ad oggi. Non mi metto a riscrivere tutta la vicenda, e poi il film è lungo ben 155' e ricco di avvenimenti, un ottimo modo per venirne a conoscenza.

Uscendo dal cinema ho sentito considerazioni del tipo "che coraggio a fare un film del genere...", come se chissà quali pressioni contrarie possa aver subito la produzione. Non penso proprio ci siano state grandi difficoltà. L'orrore politico birmano è pari in intensità alla bellezza di quel paese affatto piccolo, stretto fra l'India e la Cina, ed è un orrore denunciato da tutti. Bisogna al limite chiedersi come mai nessuno s'è posto il problema di "esportare democrazia" in quel povero e martoriato paese. C'è petrolio? Non abbastanza da ripagare una guerra. Altre materie prime significative? Vedi petrolio. E allora? E' un importante crocevia per il traffico di oppio e droghe derivate, cosa non da poco dal momento che la droga è uno dei sistemi più importanti per l'esercizio del potere in tutto il pianeta. Questo traffico è curato e gestito direttamente dai militari. Occorre dire altro?

Ho fatto una piccola ed ovvia considerazione, e tornando a parlare del film aggiungo che si può desumere da alcune scene, anche se non ci si calca molto la mano. Il bravo Luc Besson s'è concesso poco in spettacolarizzazioni della violenza e delle atrocità, non quanto potrebbe e saprebbe fare, che comunque vengono tutte illustrate. Il film resta concentrato, oltre ad illustrare vicende birmane del periodo, a parlare dell'attività politica della protagonista e dei suoi collaboratori (tutti perseguitati), soprattutto sul raccontare la vita di San Suu Kyi e della sua famiglia che vive ad Oxford con particolare attenzione al marito Micheal Aris (professore universitario, morto di cancro nel 1999) che ha avuto un ruolo fondamentale. Una scelta che non m'è dispiaciuta perché se le vicende politiche e sociali si possono facilmente reperire da vari media, quelle private non sono altrettanto note. Emerge quel tratto comune di eroi come lei o come i citati Gandhi e King: lo diventano quasi per caso, semplicemente seguendo dettati di moralità umana che non possono reprimere. Gandhi si recò in Sud Africa per affari, poi lì scoprì le disumane condizioni causate dal razzismo e da lì poi, già famoso, andò in India a compiere quello che sappiamo. King era sensibile agli argomenti dei diritti umani e di quelli dei neri in particolare, ma senza Rosa Parks e il Boicottaggio dei bus a Montgomery non possiamo sapere che storia avrebbe avuto. San Suu Kyi viveva in serenità ed agiatezza ad Oxford, e tornò in Birmania per assistere la madre in fin di vita, ma dovette suo malgrado assistere anche a molto altro...

Lo metto nel Partenone per la grande importanza della vicenda. Non qualcosa di trascorso in tempi lontani ma di attualità. Per gusto personale avrei preferito qualcosa di anche più crudo, con meno musiche che vanno "americanamente" ad enfatizzare i momenti più toccanti i quali, a mio avviso, non avevano bisogno di questi artifizi per trasmettere emotività. Ma va bene, passi, è un film che punta a poter essere accolto da quanto più pubblico possibile, quindi chiudo con piacere un occhio e nello specifico anche le orecchie.

Visione consigliatissima.
Robydick

venerdì 25 maggio 2012

Romeo Is Bleeding - Triplo gioco

9

Jack Grimaldi è un poliziotto corrotto, e doppiogiochista, che nel frattempo e per avere quello che desidera, fa dei “favori” a Don Falcone che è il mafioso locale, tutto procede bene finchè non succede quello che molti non si aspettano...

Un pentito, che doveva testimoniare contro Falcone e la sua compagnia è stato massacrato a colpi di mitraglia da una donna, Mona Demarkov, una mafiosa russa, che contravvenendo agli ordini di Falcone, - doveva morire una volta fuori dall’albergo – ha fatto in modo che il lavoro si svolgesse secondo le sue regole, è entrata nella stanza e ha fatto fuori tutti, compresi due poliziotti che gli facevano da scorta, ma ora Mona, pretende i suoi soldi, e Falcone non vuole darglieli, come risolvere l’incippo? Facendo fuori Mona, ma sarà una partita senza vincitori, perché Mona sarà capace di lavorarsi Jack, e sarà per lui un gioco ancora più pericoloso di quello che svolge solo per Falcone, Mona offre molti soldi, e lui dovrebbe fare sapere a Falcone che l’ha fatta fuori, ma Mona è anche una bella donna, e Jack non resiste al suo fascino perverso, sarà una discesa agli inferi senza possibilità di ritorno, in cui cadranno vittime anche sua moglie, - anche se il film non dice mai che è morta - e la sua amante, perché Mona è in cerca di vendetta, e vuole fare fuori tutti coloro che non hanno rispettato i patti con lei, quando Jack capirà, sarà ormai troppo tardi per tornare indietro, e questo metterà fine ai rapporti con Don Falcone, perché lui capirà che Jack lo ha tradito con Mona.

In un crescendo di tensione che non finisce mai, Peter Medack imbastisce un noir alla vecchia maniera, triplo gioco è un gantster movie, che gioca con il noir, in maniera sottile e sofisticata, uscito sull’onda del successo di Basic Instinct, Triplo Gioco ne ricalca la figura perversa della dark lady, ma in maniera più intelligente e meno esplicita, il ruolo di Mona Demarkov è affidato alla bravissima Lena Olin, attrice svedese per altro che apprezzo molto, in cui offre un interpretazione decisamente sopra le righe, Mona è diabolica, un oggetto pericoloso, in cui è impossibile resistere, Il ruolo di Jack, va al grandissimo Gary Oldman, che riesce ad essere allo stesso tempo, disperato e spaventato, il gioco con mona è eccitante e pericoloso, e lei ha tutte le carte in regola per catturarlo nella sua rete.

L’incipt è favoloso, si vede un barista che racconta di un uomo, che piano piano scopriamo che parla proprio di se stesso, di un'altra vita, di quando faceva il poliziotto, delle persone che amava, e di come Jack sia rimasto coinvolto in questo gioco perverso, scritto da Hillary Henkin, una donna, invece di puntare su scene pruriginose, fa intuire allo spettatore ciò che accade tra i due, puntando soprattutto sulla sostanza più che sulle scene hot, e questo lo fa risalire decisamente a livelli più alti rispetto ad altre pellicole con troppa carne al fuoco, puntando sull’azione, e sui personaggi, come un narratore che racconta una storia, la fotografia nettamente marcata fa risucchiare lo spettatore in un torbido vortice in cui è impossibile ritrovare la luce, bellissima anche la colonna sonora di Mark Hisham, che accompagna l’azione dei protagonisti.

E’ un film decisamente migliore di Basic Instinct, che non ha avuto molto spazio e che meriterebbe una rivalutazione, per me è un cult, con scene assolutamente strepitose, tra le quali segnalo la lunga notte d’orrore che vive Jack, quando si accorge che ormai troppo tardi per tornare indietro, e vede morire piano piano tutti coloro che sanno e che sono coinvolti.

E’ sicuramente un titolo che per ogni appassionato di cinema dovrebbe guardare, soprattutto perché è fatto bene, girato altrettanto bene, e con un cast di attori straordinari, oltre a Lena Olin ci sono Michael Wincott, Roy Scheider, Will Patton e Juliette Lewis.

Consigliatissimo.
ArwenLynch

"L'angelo di Alfredo" al BFF 2012

0
E' un docu-film che ho visto e che promuovo ancora con molto piacere.
Robydick

"L’angelo di Alfredo", il docu-film su Angelo Licheri
e la tragedia di Vermicino, al Bellaria Film Festival 2012

Dopo l’ampio consenso raccolto in occasione della partecipazione al Festival Internazionale del Film di Roma, L’angelo di Alfredo di Fabio Marra sarà tra gli “eventi fuori concorso” della 30ª edizione del Bellaria Film Festival, prestigiosa kermesse cinematografica in scena a Bellaria Igea Marina (RN) dal 31 maggio al 3 giugno.

L'angelo di Alfredo è incentrato su Angelo Licheri, il volontario che effettuò l’ultimo tentativo per salvare Alfredo Rampi, il bambino che nel 1981 cadde in un pozzo artesiano a Vermicino, alle porte di Roma. All'epoca l'Italia intera seguì in tv le operazioni di salvataggio, fino al tragico epilogo che segnò per sempre la vita di Angelo e la memoria dei 28 milioni di italiani che erano davanti al teleschermo.
Nel film, Angelo Licheri ritrova i protagonisti di quel soccorso e ricostruisce cosa successe in quelle ore tragiche e gonfie di speranza. Un racconto febbrile che propone immagini e dettagli inediti sulla vicenda e sull’eccezionale tentativo di Angelo. 
Lo sguardo della macchina da presa supera il buio di quel pozzo maledetto e racconta anche il Licheri di questi ultimi trent’anni: dalla paradossale fase giudiziaria che lo ha perseguitato dopo la tragedia, alla sua permanenza in Africa, all’attuale disagio economico e fisico, alle iniziative di solidarietà nate per sostenerlo. La nota di speranza è affidata alle attività del “Centro Alfredo Rampi”, fondato dalla madre di Alfredino all’indomani della tragedia e tutt’oggi impegnata a diffondere la cultura della prevenzione dei rischi ambientali.

L’angelo di Alfredo è una produzione della Quadra Film di Cosenza (www.quadrafilm.it).
È stato ideato e diretto da Fabio Marra, con la fotografia di Arturo Barbuto, la produzione esecutiva di Carmelo Ramundo e la co-produzione di Raffaele del Monaco.
Con la partecipazione al BFF 2012, Quadra Film rilancia la raccolta fondi a favore di Angelo Licheri, iniziata già da qualche mese in collaborazione col Centro Alfredo Rampi.
Sul sito 
www.langelodialfredo.it è possibile fare una donazione in modo semplice e veloce.


Sotto la direzione artistica di Fabio Toncelli, il Bellaria Film Festival acquista sempre di più respiro internazionale. Giunto alla 30ª edizione, il festival fondato da Morando Morandini si conferma come una solida realtà nel panorama culturale italiano. L'angelo di Alfredo è stato inserito in un programma prestigioso, che in quattro giorni passerà in rassegna il meglio del cinema documentario italiano e internazionale.
L’angelo di Alfredo sarà proiettato domenica 3 giugno, ore 12, presso il Cinema Teatro Astra,
Via Paolo Guidi 77/E - Bellaria Igea Marina (RN). L'ingresso è gratuito.

In allegato, il pressbook e alcune immagini del film in versione low-res.

Sito ufficiale: 
www.langelodialfredo.it

Trailer: 
www.youtube.com/watch?v=Bb3Mzynm8WY
Facebook: 
www.facebook.com/langelodialfredo
Immagini hi-res e locandina: 
www.langelodialfredo.it/press

QUADRA FILM - Ufficio Stampa  | 
press@quadrafilm.it   |  + 39 338 80 66 670

giovedì 24 maggio 2012

The Plumber - L'Uomo di stagno

2

Trama:
Jill Cowper (Judy Morris) è un antropologa culturale e suo marito Brian un docente di medicina, iinsieme si sono recentemente trasferiti in un appartamento universitario di Adelaide, South Australia. Jill viene interrotta nelle sue attività casalinghe e nei suoi studi dall'arrivo di Max, idraulico del condominio che gli dice di essere venuto per fissare i tubi in bagno, nonostante ella non abbia riportato in loro nulla di difettoso. Max inizialmente afferma che si tratterà soltanto di una mezz'ora di lavoro, che invece si trasforma presto in giorni e giorni, con Max che devasta il bagno per trasformarlo in un labirinto di tubature. Jill trova anche qualcosa di sinistramente minaccioso nelle crescenti libertà che Max si prende, compreso il farsi delle docce e suonare la chitarra cantando le sue canzoni di musicista in cerca di fortuna,nel bagno, e le sue pretese di essere stato in prigione. Ma quando ella esprime questi timori alle persone che ha intorno, la liquidano come se fossero solamente delle sue fantasie.

The Plumber” (L'Uomo di stagno) è stato uno dei primi film del regista australiano Peter Weir, ad uscire anche all'estero dopo il grande successo di “Picnic ad Hanging Rock”. Peter Weir è naturalmente il regista dei successivi film realizzati internazionalmente e negli Stati Uniti quali “Un anno vissuto pericolosamente” (1983), “Witness” (1984), “L'Attimo fuggente” (Dead Poets Society) (1989), “Green Card” (1990), “The Truman Show” (1998) e “Master and Commander: Sfida ai confini del mare” (2003). Peter Weir è ovviamente impossibile non affrontarlo occupandosi di cinema australiano e realizzato in Australia, come già feci con il suo primo lungometraggio “Le Macchine che distrussero Parigi” (The Cars that Ate Paris) (1974), e Robydick con “L'Ultima onda” (The Last Wave) (1977), i quali sono molto più eccentrici e stravaganti che la maggior parte di quelli del suo successivo percorso mainstream.

Il primo che ho citato è molto strano e narra di una cittadina che sopravvive provocando incidenti sulle strade nelle vicinanze e cannibalizzando le auto rottamate e quello che di riciclabile e di valore vi è all'interno. Mentre l'acclamatissimo “Picnic ad Hanging Rock” (1975) narra dell'inspiegabile scomparsa di un gruppo di studentesse, e “The Last Wave” in modi e cadenze estremamente affascinanti, di un'apocalittica profezia aborigena, destinata ad avverarsi.

Durante questo intensissimo periodo della sua affermazione internazionale, Weir trovò anche il tempo di realizzare per Channel 9 della televisione australiana questo “The Plumber”, uscito in molti paesi nel mondo nelle sale cinematografiche, ma non in Italia dove venne soltanto programmato dalle tv private a partire dai primi anni '80, e intitolato “L'Uomo di stagno”.

Dopo questi quattro film, Weir avrebbe colto la definitiva consacrazione internazionale con il capolavoro “Gli Anni spezzati” (Gallipoli) (1981).

Uno dei temi ricorrenti dell'opera di Peter Weir è sempre stato l'incontro tra culture diverse - l'intrusione della cultura aborigena e del passato primitivo dell'Australia nel presente, sia in “Picnic ad Hanging Rock” che ne “L'Ultima onda”, l'incontro tra il poliziotto della città e la comunità Amish nello splendido “Witness -Il Testimone” (1984) il suo primo film interamente americano, o Harrison Ford ancora alla ricerca di sopravvivere nella giungla amazzonica in “Mosquito Coast (1986) - o storie di personaggi che per un improvviso risveglio concettuale sul mondo intorno a loro -gli scolari trasformati dalla figura ispiratrice del maestro Robin Williams ne L'Attimo fuggente”, o Jeff Bridges risvegliatosi alla vita dopo essere sopravvissuto a un incidente aereo nel sottovalutato FearlessSenza paura” (1993), Jim Carrey dalla crescente consapevolezza che tutta la sua propria vita è stata allestita come un evento di un reality tv in The Truman Show”.

In molti dei primi film australiani di Weir c'è il senso inquietante del passato primitivo che aleggia sopra il mondo moderno come qualcosa che gli è completamente estraneo – qui nella scena di apertura, l'antropologa Judy Morris, una delle attrici più rappresentative della “First Wave” cinematografica australiana, racconta con frenesia la storia di quando riuscì ad entrare entrare in una tenda di abitanti nativi, quando era nell'isola di Bougainvillea e di come dovette rimanere perfettamente immobile, la quale diventa a sua volta l'eco dell'incontro fra le (urbane) culture aliene che sovrasta tutto il resto diThe Plumber”.

The Plumber” è stato apparentemente basato su di un incidente reale che era accaduto nella vita ad alcuni amici di Weir, a Londra. In molti aspetti, “L'Idraulico”, nella traduzione letterale italiana, è un film sui confini delle classi sociali. Il quale ci mostra con dovizia di annotazioni su come le persone possano essere troppo educate per dire di no e poi prima che se ne possano accorgere, imbattersi in qualcuno che non riconosce gli stessi confini che essi hanno calato nelle loro vite borghesi, conformiste ed “organizzate”, e che va oltre i limiti tra la cortesia e l'invadenza. In alcuni libri e saggi, “The Plumber” è stato recensito come un film thriller, ma più che altro ci si sente come nei continui scarti surreali di una delle commedie dell'assurdo di Eugene Ionesco. Certo, il personaggio dell'idraulico interpretato dal sempre bravo Ivor Kants, il Jack Nicholson aussie di quegli anni (Bruno Lawrence era quello del cinema kiwi) non è molto lontano dal sentore inquietante sulla tipologia dei locali di “Cani di paglia” (Straw Dogs) (1971) di Sam Peckinpah o del anche qui ben conosciuto David Hess dalla seminale opera di Wes Craven “L'Ultima casa a sinistra” (The Last House on the Left) (1972), dove in entrambi i casi un gruppo di persone rozze invade e trasforma mettendo sottosopra la casa e la sicurezza di una famiglia borghese. Tuttavia, l'interesse di Weir sta nel mostrare il conflitto tra Judy Morris e Ivor Kants come fra culture completamente diverse. Il contrasto viene mostrato tra i due mondi contrapposti - Judy Morris e suo marito Robert Coleby e il loro mondo accademico gentile e raffinato, ma anche vanesio e noioso; contro Ivor Kants, il quale è inizialmente raffigurato come accomodante, indulgente, e con un evidente carisma sessuale che la attrae. Lei si corregge istintivamente la sua pronuncia snob e poi si scusa per averlo fatto, mentre è beffarda parlando della sua educazione accademica e dell'elegante collegio che ha frequentato. C'è anche il contrasto fra il populismo popolare di Ivor Kants e Judy Morris, che si riascolta le noiose registrazioni delle sue lezioni accademiche.

L'Uomo di stagno” è anche fortemente un film su come le due classi percepiscono l'un l'altra, con Judy Morris che si preoccupa per il passato da detenuto di Kants, e la cui reazione automatica è allora quella di nascondere il costoso orologio che il marito le ha regalato.

Essendo lei una persona già fondamentalmente nevrotica, diventa in breve tempo sempre più insicura rispetto alla fondatezza dei suoi sospetti, e di aver forse immaginato l'intrusione dell'idraulico in casa, come pare adesso la vedano anche i suoi amici e lo stesso marito.

D'altra parte Weir non si ritrae esattamente dal farci percepire Kants come meritevole dei sospetti di Judy Morris, anzi ci viene fatto vedere come una sinistra minaccia, volutamente in attesa nel parcheggio che il marito vada via al lavoro alla mattina, ammettendo di aver spiato la Morris alla sua festa, e mostrandolo mentre forzosamente entra nell'appartamento dal terrazzo dopo che lei ignora il suo bussare alla porta. Il film sceglie deliberatamente di situarsi nell' ambiguità, mettendo i due uno contro l'altro attraverso la divisione di classe, ma con la regia di Weir che non traccia mai una linea di demarcazione netta tra il bianco o il nero. La risoluzione a cui perviene il film, mentre forse non è del tutto soddisfacente per questo tipo di storia alla Ionesco, coinvolge Judy Morris la quale scavalcando i confini sociali (e di comprovare dei suoi sospetti) fabbrica una prova falsa che porterà all'arresto di Kants.

Il film è stato presentato al Festival di Sydney, il 19 giugno 1979 e poi la notte seguente è stato trasmesso in televisione in tutta l'Australia.

Le riprese di questo film sono durate tre settimane.

Peter Weir ha basato il film su di un incidente che è accaduto a due suoi amici circa un idraulico chiacchierone, incompetente e misterioso, che ha fatto un certo numero di interventi per la coppia nella loro casa di Londra.

Peter Weir ha avuto in gestazione questa storia di vita reale per più di sei anni prima che fosse realizzata.

Questo film tv è stato realizzato come parte di un accordo quadro per tre film da parte della South Australian Film Corporation (SAFC) con la rete televisiva australiana Channel 9 . Gli altri film sono stati “Harvest of Hate” e “The Sound of Love”

Questo film è uscito in DVD in Australia come double-feature con il primo lungometraggio di Weir, “Le Macchine che distrussero Parigi”

E' il terzo film che Weir ha realizzato con la South Australian Film Corporation (SAFC). Il primo è stato “Picnic ad Hanging Rock” e il secondo fu “L'Ultima onda”. La SAFC si tirò poi indietro per le successive opere di Weir “Gli Anni spezzati (Gallipoli)” e “Un Anno vissuto pericolosamente”.

Judy Morris ricevette il primo nome nei crediti, Ivar Kants ricevette il secondo, e Robert Coleby il terzo.

Questo non fu il primo film tv diretto da Peter Weir, il quale aveva diretto un altro lungometraggio per la tv. “The man on the green bike”, circa un decennio prima.

Il film si basa su una storia vera.

Questo film è dotato di due elementi della storia già presenti nel film diretto precedentemente da Weir, “L'Ultima onda”. Quando la casa dei protagonisti si sta inondando d'acqua, e per la presenza della cultura indigena.

Questo film rappresenta la prima collaborazione in assoluto da coppia sposata tra Peter Weir e la designer Wendy Stites. I due hanno lavorato insieme su una dozzina di film da regista di Weir, Stites (quindi Wendy Weir) ha svolto i ruoli di servizio nei settori della produzione di scenografie, costumi, coordinamento, consulenza e progettazione speciale.

A quanto pare, nella vita reale, il regista Weir avrebbe avuto una volta un idraulico a casa sua a fare un certo lavoro e l'idraulico gli avrebbe detto: "Ho noleggiato quel tuo film, l'altra sera. E' quello che pensi di noi eh?"

Nel libro ''35 mm Dreams”, Penguin, Ringwood, 1984: Conversazioni con Cinque Registi in merito al successo del cinema australiano' 'di Sue Mathews, Weir ha detto di questo film: "The Plumber” risaliva al periodo di "Homesdale” . E' stato realizzato molto rapidamente e senza problemi, e poi è stato trasmesso direttamente in televisione, senza quell'attesa eccitante per un'uscita sul grande schermo, con tutti i suoi alti e bassi. Ha raggiunto il pubblico e ha funzionato bene, ho sempre pensato che è venuto bene, trovo che sia stato grande aver avuto la possibilità di lavorare su un telefilm...Ho un altro soggetto già scritto che, volendo, potrei realizzare in quello stesso stile. “The Plumber” è stato trasmesso così, dall'inizio alla fine, e ha funzionato molto meglio, specie considerando la tensione progressiva e l'ambientazione claustrofobica ... Se potessi, controllerei io stesso il destino dei miei film in televisione. La mia idea sarebbe di accettare un compenso minore e mantenere i diritti televisivi internazionali, in modo da venderli a persone che facciano una sola interruzione pubblicitaria. Ma non so se “The Plumber” fosse una sorta di “transizione” […] L'ho scritto perché avevo bisogno di denaro, che alle volte è un ottimo modo di lavorare. E' una storia vera, anche se questo poi non significa molto per il pubblico. La coppia è ispirata a due miei amici e l'idraulico a un autostoppista cui una volta ho dato un passaggio, ad eccezione delle canzoni in bagno e del finale, è tutto molto simile a come andarono le cose. Nella realtà l'idraulico se ne andò, ma la mia amica mi disse, "la cosa strana è che fece emergere in me qualcosa di contorto, un desiderio di conservare il mio stato mentale, che mi ha portato a considerare delle azioni anche molto drastiche." Lei era un antropologa che si occupava di queste cose, quindi non ho rielaborato niente. Anche la storia sull'incidente in Nuova Guinea, quando il tipo entra nella sua stanza, fa una piccola cerimonia e lei gli versa addosso del latte, proveniva tutto dalla sua tesi. Ho sempre pensato di raccontare quell'incidente in apertura-. per indicare subito che la vicenda si sarebbe ripetuta. E lei si ritrovava a trattare la situazione come un rituale, come il fascino di una tela tessuta da un ragno, o come un serpente che la stava avviluppando -. lei davvero, per la sua propria conoscenza di sé, ha dovuto passare attraverso di essa. Aveva forza e un certo orgoglio, non voleva dover essere costretta a uscire dalla propria casa da questo uomo. E ovviamente con una situazione del genere ha cominciato a oscillare selvaggiamente tra questo e il pensare che stesse impazzendo per l'intera faccenda, non è dunque così semplice come la possono vedere gli altri. "

Scott Hicks, successivamente regista famoso, ha lavorato come assistente alla regia in questo film.

Cameo : Scott Hicks : Il regista (2° aiuto regia in questo film) è un uomo che entra nell'ascensore.

Napoleone Wilson

mercoledì 23 maggio 2012

Les vacances de M. Hulot - Le vacanze di Monsieur Hulot

9

Tutti al mare! Attenzione però, c'è in giro un curioso scapolo longilineo, pantaloni lunghi troppo corti, cappellino e pipa lunga, imprevedibile e scoppiettante come la sua vecchia macchinetta d'inizio secolo. E' il signor Hulot.

Lo stile comico del genio francese, che mette insieme slapstick e gramelot, e pure il clownismo circense, è assolutamente unico nelle mimiche e nelle gag che riesce ad inventarsi. A proposito proprio delle gag, ne riporto un elenco dalla pagina wiki: "un frustino nella mano di Hulot diventa una spada; mentre cambia la ruota di scorta alla sua auto sgangherata, le signore sedute nell'abitacolo si alzano in corrispondenza del movimento del crick; la camera d'aria della ruota, a cui si sono attaccate delle foglie, diventa una corona da morto ad un funerale; Hulot esce in barca a pescare e la sua canoa si spezza in due, "divorandolo"; Hulot partecipa a una partita di tennis e la sua mimica nel maneggiare la racchetta porta scompiglio nel gioco; situazioni tipiche di convivenza nella pensione vengono sconvolte da Hulot, che lascia le porte aperte e gli ospiti rimangono in balìa delle correnti d'aria, ed ascolta ad alto volume il giradischi, disturbando i presenti.". Mancano all'elenco anche altre, tra cui una formidabile: mentre prepara la macchina per farsi trainare da un carro attrezzi, poggia il piede sul cavo proprio quando va in tensione trasformandolo in una catapulta che lo proietta direttamente nel mare antistante. Sottolineo poi la scena al funerale dove Hulot viene a trovarsi per caso, perché non c'è solo la "corona pneumatica", ma tutto un contesto grottesco in cui viene a trovarsi nel salutare i parenti, trasformando in festoso persino un momento come quello.

Il film è una satira divertente, lo percepisci immediatamente per la scena stupenda di apertura alla stazione ferroviaria, dove un altoparlante continua a cambiare i binari di arrivo dei treni e i viaggiatori salgono e scendono dalle scale del tunnel disperati. Satira né aspra tantomeno canzonatoria, delle vacanze tranquille e stanziali, di quelle che si va in un posto e non ci si muove più da lì, portandoci tutti i propri sogni di serenità, comodità e bellezza covati dopo un anno di lavoro. In un contesto piccolo-borghese in cui tutto si vuole prevedibile e preciso, nei tempi e nei modi, il signor Hulot s'inserisce come "produttore di caos" nel senso benevolo del termine, scompaginando equilibri.

C'è una costante sensazione di leggerezza, di piacevolezza della vita che non si prende troppo sul serio. Come già notato nel precedente "Giorno di festa", anche qua i dialoghi ben definiti e distinguibili sono pochi. Hulot in particolare emette suoni e rumori a descrivere stati emozionali, praticamente muto e solo gestuale. Ma anche per tutti gli altri ospiti vale quasi lo stesso discorso. Il parlare è parte della colonna sonora, mentre tutti i rumori prodotti da oggetti ed animali risultano ben scanditi e definiti.

A Saint-Marc-sur-Mer, nella Loira Atlantica, la spiaggia antistante la pensione balneare, teatro "stabile" di buona parte delle peripezie, è stata nominata a Jacques Tati dopo questo Capolavoro.

Genio a-conformista il mio idolo Jacques Tati, senza essere anti, e senza sregolatezza. Film meraviglioso questo "Le vacanze di Monsieur Hulot", da consigliare anche come antidepressivo. Alla fine della visione sei pervaso da un senso di lieto benessere ad ampio spettro, una cosa non da poco.
Robydick

martedì 22 maggio 2012

Young Adult

3

Jason Reitman
torna al cinema con un'altra commedia singolare, protagonista questa volta è Charlize Theron, e ritrova anche Diablo Cody, che aveva scritto Juno, suo secondo film se il vecchio detto squadra vincente non si cambia allora Young Adult ne conferma la regola.

Charlize Theron, interpreta Mavis Gray, una ghost writer di libri per bambini incapace di trovare una sua identità, divorziata, e non è stata capace di farsi una vita, ha la classica Sindrome di Peter Pan, ma qualcosa si risveglia in lei, tramite la posta elettronica viene a sapere che il suo ex del liceo, ha avuto una bambina ed è felicemente sposato, così decide di tornare alla vecchia cittadina, e cercare di conquistarlo, ma un altro ragazzo del liceo, suo amico, che lei crede omosessuale cercherà di farle capire che quello che vuole fare è un utopia, e che il suo ex non lascerà mai la moglie, riuscirà Mavis a crescere veramente?

Jason Reitman si conferma un regista interessante e curioso, e il ritorno alla collaborazione con Diablo Cody conferma che in coppia sono una squadra vincente, e si vede, riescono ad imbastire la trama, in modo coinvolgente e mai banale, riuscendo anche a fare riflettere.

E’ una commedia intelligente e strepitosa, su una persona, forse una sognatrice, che si illude di raggiungere un qualcosa che non potrà mai raggiungere, vuole tornare ai vecchi tempi, ma il tempo passa per tutti, lei è ostinata, ed è talmente attaccata a quel sogno, che crede fermamente che potrà riconquistare il cuore del suo ex, che a molti può sembrare una pazzia, ma a lei che oltremodo si veste come una teenager, con la felpa di hello kitty, e porta con se il cagnolino su una borsetta come Paris Hilton, si potrebbe dire che sia una bambina cresciuta, che sia immatura, e forse è vero, ma chi lo dice che sognare o anche illudersi, non sia qualcosa che accade perché si ha il coraggio di farlo accadere? Anche se non succede niente, lei è capace di sognare, in un mondo ormai troppo attaccato alla realtà, e anche se non raggiunge mai quel sogno, - e come potrebbe, la vita è molto diversa da come sognamo, o da come ce la imamaginiamo.

Naturalmente Mavis, che conquisterà più un'altra persona che realmente il suo ex, capirà che forse il suo cuore, e la sua vita non camminano sulla stessa via di chi si è costruito una famiglia, come nella scena strepitosa del battesimo del piccolo, in cui all’ultimo si accorge che a volerla invitare è stata proprio la moglie del suo ex, con cui ha litigato, è arrivato il momento di crescere? E Mavis crescerà finalmente?

Il film non parla di immaturità, e come potrebbe, parla soprattutto di chi infondo cerca se stesso, e ha il coraggio di partire dove è cominciato tutto, e può capitare che la nostalgia del passato che ovviamente non c’è più, ci faccia riflettere sul nostro futuro e su ciò che vogliamo veramente.

Jason Reitman dirige in maniera spigliata e intelligente, coadiuvato da un cast in cui spicca una strepitosa Charlize Theron che interpreta riuscendo a caratterizzare il suo personaggio in maniera frizzante, si capisce subito che il regista ha lasciato esprimere la sua attrice nel modo migliore, lo script di Diablo Cody è ovviamente la ciliegina sulla torta, e il loro ritorno alla collaborazione è stata una sorpresa più che gradita, per una che come me ha apprezzato Juno.

Consigliatissimo.

ArwenLynch