sabato 30 giugno 2012

Satan War

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Per la serie "Satanic Witchcraft" non poteva mancare questo oscuro filmetto di Jimmie Bartell La Rue aka Bart La Rue, attore che ha prestato la propria inconfondibile voce ad una valanga di serie Tv americane, nelle quali comparve pure come attore (da "Star Trek" a "Bonanza" passando per "Arrivano le Spose" e "La Famiglia Brady"). Poca "witchcraft", anzi nulla, ma molto "satanic".

Già dalle prime immagini, che mostrano al pubblico un dipinto fortemente stilizzato di un ipotetico diavolo tra le fiamme, si capisce subito una cosa. Che non ci sono soldi. Ma niente spaventa il buon La Rue, il quale si inventa una storia che più classica non si può. Louise e Bill (gli sconosciuti Sally Schermerhorn e Jimmy Drankovitch, al di là del bene e del male e quindi ingiudicabili), novelli sposi, traslocano nella loro nuova casa. Fin qui tutto bene. Quando però cominciano a sistemare i loro oggetti, una subdola presenza sembra palesarsi ai due poveracci; il crocifisso si capovolge e tutti i tentativi di rimetterlo a posto risultano vani. Gli sposini rimangono perplessi ma non ne fanno un dramma, anzi pensano che sia tutto uno scherzo. Iniziano a sospettare che ci sia qualche cosa di molto più grave quando una sostanza puzzolente dal colore sospetto comincia a tracimare dalle pentole e le sedie prendono il vizio di spostarsi da sole.

Se, a questo punto, vi vengono in mente titoloni quali "The Amityville Horror" di Stuart Rosenberg (che uscì lo stesso anno) e "Poltergeist" di Tobe Hooper (1982), avete ragione, dato che il film è praticamente la versione terzomondista dei succitati film girata in tempi assolutamente non sospetti (vabbè, più o meno, non facciamo troppo i ragionieri). Ma il colpo di genio il vecchio La Rue lo piazza proprio quando in mezzo a tutti questi fenomeni paranormali innesta delle sequenze in cui la povera Louise viene molestata e poi stuprata dalla presenza invisibile, spostando pericolosamente il baricentro in pieno territorio "The Entity", si proprio l'ottimo film diretto da Sidney J. Furie e interpretato da una Barbara Hershey di bellezza incommensurabile, uscito nel 1982 e tratto dal romanzo di Frank De Felitta. Segue intervento di un'esperta di occultismo (Michelene Alexasander) che rimane talmente sconvolta dalla malvagità insita nella casetta da scappare via in lacrime e la comparsa di una figura incappucciata con tanto di coltellaccio. Finale apocalittico (quindi, molto poco per via del budget) con fuga dei due sposini in macchina. Il film dura solo sessanta minuti, dopodichè comincia uno pseudo documentario sul voodoo con dei neri che ballano che va avanti per quindici-minuti-quindici fino ai titoli di coda, con la voce fuoricampo di La Rue a fare da spiegone. Insuperabile.

Da vedere ad ogni costo.
Si millanta l'esistenza di una famigerata "director's cut" in cui la cerimonia voodoo compare prima nel metraggio, in due scene di raccordo. Siete avvertiti. Colonna sonora di William Eucker, elettronica e martellante, che non lascia tregua allo spettatore per tutta la pellicola, tanto da entrare di prepotenza nella top-five delle OST più weird dei seventies. Il film di La Rue (R.I.P. 1932-1990) sopravvive solo tramite bootleg.

Ahò, buona visione.
Belushi

venerdì 29 giugno 2012

Scarecrow - Lo spaventapasseri

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In occasione della recente e improvvisa scomparsa (a 72 anni il 19/6/2012) del grande Richard Lynch, gli vogliamo dedicare una corposa ed entusiasta rece del suo importante film d'esordio, nel quale avrebbe cominciato ad interpretare la sua lunga e indimenticabile galleria di personaggi malvagi, se non apertamente laidi e psicotici. Un “privilegio” datagli dalla sua fisionomia inconfondibilmente ustionata, procuratasi lui reduce dal Vietnam, dandosi fuoco dinanzi alla Casa Bianca, direttamente visto dal famosissimo Segretario alla Difesa Robert McNamara, per protestare contro le atrocità di cui egli stesso ebbe esperienza direttamente da soldato arruolato nella “Sporca guerra”. Un gesto che destò enorme scalpore nella società civile americana del 1968.

“La strada porta sempre da qualche parte.”
Frase di lancio originale del film

Gene Hackman considera questo il suo miglior film.

Max Millan/Gene Hackman -: “Per ogni macchina, c'è della sporcizia.”

Lionel/Al Pacino :- “I corvi si sono divertiti!”
Lion :- “Ehi Max, hai mai sentito la storia dello spaventapasseri?”
Max Millan :- “No.” Lion :- “Pensi che i corvi abbiano paura di uno spaventapasseri?”
Max Millan :- che siano spaventati. Sì perché?”
Lion:-”No, corvi non hanno paura, credimi.”
Max Millan :- “I maledetti corvi , dio sono spaventati.”
Lion :- “No, i corvi sono divertiti.”
Max Millan :- “Nah, è una stronzata ...”
Lion: “E' vero, i corvi si divertono. Guarda, il contadino mette fuori uno spaventapasseri, a destra, con sopra un buffo cappello, e una faccia buffa. I corvi volano, lo vedono e lo trovano divertente, gli fa ridere.”
Max Millan :- “I corvi maledetti dio sono si mettono a ridere?”
Lion :- “E' vero i corvi si divertono ridono come asini E poi dicono, "Beh, Jo l'agricoltore laggiù, è abbastanza un buon tipo. Ci ha fatto ridere, così non lo preoccupiamo più."
Max Millan : I corvi maledetti dio si divertono...”
Lion :- “Ohh, che ridere , uuuaauu!”
Max Millan : -”Devo dirti qualcosa, che questa è la storia più strampalata che abbia mai sentito.”
Lion :- “E' vero, si divertono, ridono come asini.”
Max Millan :- “I corvi si divertono.. Credo che i pesci possano allora recitare le poesie ...”
Lion: “Credo di sì.”
Max Millan :- “Uhm ehm ... e i eh, maiali sono bravi a suonare il banjo ? E i cani potrebbero, vediamo, ah...giocare a hockey. E il uhm ... il ...”
Lion :- “i corvi si divertono.”
Max Millan :- “I corvi si divertono, a destra. Sai, ti posso dire che ne ho sentiti tanti di racconti, oh ragazzo perbacco ne ho sentito alcuni di racconti strani. Ma almeno quei tipi avevano avuto la decenza di ammettere che era una stronzata, sai cosa voglio dire? Si deve effettivamente avere l'orgoglio, l'orgoglio per il fatto di ammettere che questa era una stronzata. Ma i corvi si divertono eh? Voglio dire non stai prendendo per il culo un ritardato completo, hai un piede nella tomba là.”

Lion- “Ciao Max, cosa fai allora quando fa freddo?”
Max Millan :- “Mi metto ancora più vestiti. Sono a sangue freddo bastardo, non riesco mai ad avere abbastanza caldo. E mi faccio un sonnellino dopo ogni combattimento.”
Lion:- “Qual è la scarpa?”
Max Millan :- Che cosa pensavi di fare per la nostra attività?”
Lion :- “Ragazzi, ho trovato un socio.”.
Max Millan :- “Non tu non hai scelto me, io ti ho scelto.”
Lion:- “Perché?”
Max Millan: 'Perché mi hai dato il tuo ultimo fiammifero. Mi hai fatto ridere. Dio i maledetti corvi si divertono...”

Max Millan :- [Introducendo Lion a Coley] “Ah, Coley questo è il mio socio, Lion.”
Coley/Dorothy Tristan :- “E' bello conoscerti Lion.”
Lion:- “E' un piacere conoscerti Coley, Max non mi ha detto niente di te.”


Lion :- [prime battute] “Ciao, cosa stai facendo.”'
Max Millan :- {Dopo essere stato picchiato quasi a morte da Riley] “Oh mio dio, cosa è successo?
Lion: Riley ha provato a fottermi, così ho dovuto battermi.”.


Max Millan :- “Indovinate un po', io sono lo "spaventapasseri".”
Lion:- “Sì Max, sei uno "spaventapasseri". Ma tu sei anche uno "stronzo".”
Max Millan :- “Ehi!”
Lion :- “Tu sei anche uno "spaventapasseri".”

Lion:- “Un corvo non ha paura di uno spaventapasseri. E ride.”

Lion :- “E avremo una Notte con le Signore ogni Lunedi notte della settimana!”

Lion:- “E avremo una notte con le signore ogni Lunedi della settimana! E avremo ... eh...
Barista/Frank Chartier :- “Leccalecca!” Lion:- “LECCALECCA!”

Darlene/Eileen Brennan :- [a Max dal suo sgabello al bar] “Chiudi la porta. Stai facendo uscire tutto il fumo fuori!”

Frenchy/Ann Wedgeworth :- “E che cosa vi è mancato di più in prigione?”
Max Millan :- [Fissandola di fronte alla sexy Frenchy] “La cucina casalinga.”

Max Millan :- [al bancone] “Dammi una ciambella al cioccolato e una bottiglia di birra.”


Definitivamente da considerarsi uno dei risultati più alti della New Hollywood anni '70, premiato con la Palma d'Oro al Festival di Cannes nel 1973 come miglior film (ex-aequo con “Un Uomo da affittare” di Alan Bridges), “Lo Spaventapasseri”(Scarecrow), è un racconto agrodolce e picaresco di un'improbabile amicizia, la quale si distingue come una delle migliori raffigurazioni cinematografiche di sempre dell'amicizia. Il film è interpretato da Gene Hackman e Al Pacino come due vagabondi, due “hobos” che si incontrano sul ciglio di una strada e formano un legame che li porta insieme per un viaggio attraverso gli Stati Uniti. Hackman interpreta Max, un ex detenuto dall'atteggiamento duro che decide di collaborare con Lionel, un tenero ed indifeso ex marinaio, interpretato da Pacino. I due sono una strana coppia in senso classico. Max è un ex-criminale dal muso duro con la speranza di aprire una propria attività, mentre Lionel è un individuo ingenuo e amichevole, desideroso di fare amicizia con Max. I due stanno cercando di trovare insieme una possibile nuova apertura per alcuni loro vecchi e finiti legami, seminandone anche di nuovi. Max con la sorella a Denver, e Lionel con la sua ex-fidanzata a Detroit.

Diretto da Jerry Schatzberg qui eccezionale, questo film fu la sua seconda collaborazione con Pacino. Per primo fecero insieme lo splendido Panico a Needle Park” nel 1971, debutto sul grande schermo di Pacino stesso, incentrato su di un gruppo di eroinomani dello Upper West Side di New York i quali ciondolano in quello che allora era conosciuto come il Needle Park. L'interpretazione di Pacino ricevette grande attenzione dopo l'uscita del film, così che venne poi ingaggiato per interpretare Michael Corleone, il figlio di Marlon Brando neIl Padrino”.

Molti critici dell'epoca respinsero lo script de “Lo Spaventapasseri” come di un film debole e soprattutto d'attesa, ma è negli alti e bassi di questi due solitari, nelle lotte che continuano a farli deragliare dal loro obiettivo ultimo di ripulire la loro esistenza e di avere un'ultima chance, aprendo un'attività onesta insieme (un autolavaggio con i buoni risparmi di Lionel), che rende il film così interessante. E' un intensissima opera psicologica e ambientale sui tanto amati outsiders degli anni settanta, realizzata su tonalità molto amare e malinconiche, così che da intraprendere una narrazione affatto comoda ma stretta e angusta, non è infatti nelle fortune di questi personaggi, ai quali l'esordiente sceneggiatore Garry Michael White fa in modo di non rendergli retta e facile la strada della vita, non siamo infatti qui in una di quella stronzate buoniste come vanno oggi, à “La Ricerca della felicità” di Muccino.

La differenza e la distanza tra i sogni e la realtà, nell'irraggiungibilità del cosìddetto “Sogno americano”, coprirebbe un intero Oceano, come nel coevo road movies di questa grande stagione che fu, del cinema americano, di viaggi “interiori” e sulle strade, che fu “Electra Glide” (Electra Glide in Blue) ('73) di James William Guercio, da me precedentemente recensito.

Uno degli elementi più alti e stupefacenti dell'intero film è anche la fotografia di Vilmos Zsigmond, che è semplicemente affascinante, e cattura su celluloide una fetta di America che non era così comune vedere raffigurata sullo schermo, in quel periodo. Zsigmond era relativamente uno sconosciuto al tempo, fuoriuscito ungherese negli Stati Uniti, dopo l'invasione sovietica del '56, sarebbe in seguito diventato il grande e celebrato Direttore della Fotografia di altri famosissimi titoli come, tra i tanti, “Incontri ravvicinati del terzo tipo” e “Il Cacciatore” (The Deer Hunter) ('78) di Michael Cimino.

Lo spaventapasseri” è un film che è invecchiato molto bene, dalla qualità altissima, limpida e cristallina, ma che è stato messo un poco in ombra dal profilo successivo delle carriere di Hackman e Pacino. Hackman aveva appena vinto l'Oscar come miglior attore per “Il Braccio violento della legge” (The French Connection) di Friedkin l'anno prima, e Pacino proveniva fresco fresco da Il Padrino” e da Serpico” di Sidney Lumet, e si preparava a fare Il Padrino Parte II” e “Quel pomeriggio di un giorno da cani” (Dog Day Afternoon) ('75) di Sidney Lumet. Era l'età d'oro del cinema, un tempo in cui i film non hanno avuto gli obbligatori e infelici compromessi di cui si nutre a forza l' Hollywood di oggi. E' anche una sorpresa che entrambi i protagonisti abbiano offerto delle prestazioni eccezionali, formando una delle migliori coppie della storia del cinema. “Lo Spaventapasseri” vinse uno dei più importanti premi internazionali -. La Palma d'Oro a Cannes. Non c'è quindi alcuna debole scusante per cui i critici soprattutto americani e il pubblico abbiano per così tanti anni praticamente dimenticato questo piccolo gioiello. Lo testimonia la cronica mancanza di recensioni per il film, anche qui in Italia. All'epoca non andò nemmeno molto meglio tra i critici professionisti in tutta l'America. Schatzberg è d'altronde sempre stato apprezzato meglio a livello internazionale che tra il pubblico americano d'oggi bramoso degli effetti speciali, quindi è praticamente stato un regista straniero in patria.

A questo punto alcuni utili cenni biografici: Jerry Schatzberg era nato nel Bronx, a New York City nel 1927. Dopo la laurea presso l'Università di Miami, iniziò una carriera come fotografo freelance per riviste come Vogue, Glamour, Esquire, Vita e McCall. La sua esperienza da pubblicitario venne riversata nel suo primo film da regista. “Mannequin -Frammenti di una donna “(Puzzle of a Downfall Child) con una marvellous Faye Dunaway, appunto suo primo lungometraggio nel 1970, subito dopo il successo di Easy Rider” di Dennis Hopper, che aveva aperto l'interesse degli studios ai giovani registi, coloro cioè i quali erano eventualmente più attinenti e più “alla moda” presso il pubblico maggiormente giovane di cinefili. Anche se il film d'esordio di Schatzberg passò gran parte inosservato, ottenne il plauso della critica con il suo secondo e già citato film, “Panico a Needle Park” (1971), che fu tra le prime pellicole ad esplorare in profondità la dipendenza da eroina e a far esordire da protagonista Al Pacino, il quale all'epoca fuori da New York era completamente uno sconosciuto. Quel film impostò la carriera di Pacino che già al secondo film fu come detto impegnato con “Il Padrino”.

Pacino sarebbe tornato poi a lavorare di nuovo con Schatzberg in quello che sarebbe dovuto essere il terzo film per entrambi, “Scarecrow” dal titolo originale (siamo nel 1973). Questa volta Pacino avrebbe recitato con Gene Hackman, che era già un volto noto per il pubblico americano - da “Gangster Story” (Bonnie and Clyde) (1967) di Arthur Penn, “Gli Spericolati” (Downhill Racer) (1969) di Michael Ritchie , “L'Anello di sangue”(Never Song for my father) di Gilbert Cates(1970) bellissimo e dimenticato, finalmente c'è anche un dvd italiano della Sony, e come già ricordato “Il Braccio violento della legge” (The French Connection)(1971). “Lo Spaventapasseri” portò Schatzberg all'attenzione di tutti coloro che seguivano il cinema grazie alla Palma d'Oro vinta a Cannes. Hackman e Pacino sfiorarono in Premio per Migliore Attore ad entrambi, e si avviarono a diventare due degli attori principali della loro generazione.

Schatzberg con questo film, come detto contribuì a definire lo stile del film americano della New Hollywood degli anni Settanta, con la sua enfasi sulla alienazione. Dopo “Lo Spaventapasseri”, avrebbe proseguito conDandy, The All American Girl” (Aka Sweet Revenge) (1976) e La seduzione del potere” (The Seduction of Joe Tynan) (1979), notevole ma misconosciutissimo come il primo, eppure vi semi esordì una giovane Meryl Streep. Dopo gli anni Settanta, Schatzberg ha cominciato a perdere il suo seguito negli Stati Uniti, non potendo certo competere con l'ascesa di registi come Coppola, Scorsese, Spielberg e Lucas. Schatzberg era stilisticamente più in sintonia con il cinema internazionale, con le sue atmosfere malinconiche sul tramonto definitivo del sogno americano, dai caratteri forti, ma dalle narrazioni più frantumate. Entro la fine degli anni Ottanta, i suoi film migliori, come “Street Smart” (1987) e soprattutto il bellissimo “L'Amico ritrovato”(Reunion) (1989), furono effettivamente accolti molto meglio in Europa che negli Stati Uniti. Quest'ultimo film venne girato a Stoccarda e scritto da Harold Pinter. Lo stile dei film di Schatzberg era per forza di cose un po' un'estensione della sua esperienza come fotografo di paesaggi (da qui le splendide e memorabili aperture paesaggistiche della fotografia di Zigsmond, in “Scarecrow”), di scene di strada, e ritratti di persone. Schatzberg ha sempre avuto ben poco o nullo interesse per gli effetti speciali. Invece, la sua enfasi era da sempre concentrata sui rapporti umani. La sua esperienza come fotografo ritrattista gli ha permesso di lavorare in modo efficace con i suoi attori e trarre da loro le migliori prestazioni. Quando gli è stato chiesto del suo ruolo preferito nell'intera carriera, Gene Hackman ha infatti citato -e non è uno scherzo- Lo Spaventapasseri”, definendolo "l'unico film che abbia mai fatto in assoluta libertà e in cui mi è stato permesso di cogliere tutti i tipi di opportunità che mi si sono presentate, e realmente costruire il mio personaggio".

La Storia: “Scarecrow” è molto più del ritratto di un personaggio narrativo tradizionale, essendo ben più ricco di sfumature e di quelle che sono le tensioni umane. Non c'è molta trama per il film e quindi non voglio disvelare troppo di quel poco che c'è, ma eccone un breve abbozzo. Max (Gene Hackman) e Francis (Al Pacino) sono una coppia di sbandati che si incontrano per caso, perché finiscono per fare l'autostop nello stesso punto su una delle principali strade statali (bellissima sequenza iniziale che sembra uscita da pagine di Steinbeck o Dos Passos). Max inizialmente non vuole avere nulla a che fare con Francis, ma, quando il suo accendisigari non funziona, Max accetta il fuoco che Francis gli offre con il suo ultimo fiammifero. Per un paio di hobos, l'offerta della propria ultima partita di sigarette o del fuoco, è una vera e propria offerta di amicizia, così i due iniziano a viaggiare insieme. Ognuno di essi è in viaggio con un sogno nella propria testa, mentre si allontanano dalla California. Max è un orso burbero, appena uscito di galera dopo una condanna a sei anni per aggressione e dispone di 2600 dollari depositati in un conto di risparmio a Pittsburgh. Il suo sogno è quello di aprire un autolavaggio. Egli vuole anche fermarsi a Denver per visitare sua sorella. Francis, d'altra parte, ha appena terminato un periodo di lavoro nella Marina Militare, di ritorno da un lungo viaggio di 6 anni per i mari, e vorrebbe tornare a Detroit, dove ha abbandonato una donna, lasciandola incinta. Almeno le ha inviato ogni mese una cifra assegnatali dal suo stipendio di servizio. Vorrebbe soprattutto incontrare suo figlio, senza neppure al momento sapere se si tratti di un figlio o una figlia. Max chiede a Francis se vuole essere il suo socio nell'attività dell'autolavaggio, Francis è d'accordo. Max ha però un problema. Non gli piace il nome "Francis" e gli chiede se abbia per caso un altro nome. E '"Lionel". D'ora in poi è così che Max lo chiamerà.

Si avviano insieme. Il piano è di andare prima a Denver per la visita di Max a sua sorella, poi a Detroit in modo che Lionel possa incontrare suo figlio, e poi a Pittsburgh a incominciare la gloriosa nuova vita che li attende nel settore degli autolavaggi. Sono entrambi quasi senza un soldo, in modo che viaggeranno saltando nei vagoni dei treni merci e facendo autostop, o eseguendo piccoli lavori per guadagnare denaro lungo la strada. Fermandosi nelle tavole calde e nei bar, quando possono permetterselo. Max e Lionel sono entrambi una sorta di spaventapasseri, cioè di mantenersi le persone a distanza di braccia. Max è un uomo con un temperamento difficile che spesso sfodera tutta la sua ringhiosa grinta e rabbia repressa contro le persone, non tirandosi indietro di fronte allo scontro fisico con chiunque. I suoi sei anni di galera sono stati il risultato di uno di questi combattimenti. Lionel, al contrario, disarma la gente facendola ridere. Lui fa il clown in giro e racconta barzellette - tutto quello che solitamente gli serve per disinnescare ogni brutta situazione.

Ecco un esempio delle situazioni che seguiranno. Max vuole rubare un regalo da un negozio per il compleanno di sua sorella e chiede a Lionel di distrargli la cassiera. Lionel, tuttavia, rende questo pagliaccio di sé stesso talmente completo che Max è tanto distratto quanto la cassiera e si dimentica di far scivolare la merce sotto il cappotto. C'è un intermezzo prolungato a casa della sorella di Max, Coley (Dorothy Tristan). Coley ha una cara amica e partner, Frenchy (Ann Wedgeworth, tutte attrici che erano vere e proprie nomi tutelari del cinema americano degli anni '70), e le coppie di Max con Frenchy e Lionel con Coley come felice quartetto, per un po ', che escono a mangiare e ballare compone una bellissima e soffusa sequenza, interamente circonfusa di sentimenti contraddittori, dei due uomini a contatto con due donne sessualmente molto piacenti, dopo tanto tempo.

Max è ripetutamente coinvolto a fare a botte. Una di queste risse fa sì Max e Lionel, coinvolto solamente per aiutare l'amico, vengano assegnati per un mese a un campo di lavoro, una sorta di quelli istituti di detenzione a bassa sicurezza. Max accusa Lionel per la loro detenzione, ma ovviamente in realtà è stato lui che ha iniziato la rissa. Lionel viene addocchiato da un altro prigioniero, Jack Riley, che altri non è che il nostro grande Richard Lynch, il quale facendosi passare per un suo nuovo e sincero amico, gli carpisce l'amicizia, e poi lo picchia e lo violenta sodomizzandolo. Max aspetta di poter arrivare quasi alla fine del periodo di detenzione per massacrare Riley in un recinto di maiali, lasciandolo un vegetale per tutta la vita e non potendolo così accusare. Freschi rilasciati dalla casa circondariale di lavoro agricolo, la coppia riprende a procedere con il suo viaggio, ma, in una tavola calda, Max sta per lasciarsi coinvolgere in un'altra rissa. Lionel, che ha però cercato con il suo meglio di insegnare al suo amico un altro modo per affrontare i conflitti e sopravvivere, riesce finalmente a farlo desistere, e invece di combattere, Max intrattiene la folla al ristorante con uno spogliarello per finta, con un sacco di risate generali di tutti gli astanti bevitori e una bonaria cantata di “hootin 'e hollerin''.

Temi: Il tema principale è il contrasto tra come queste due performance tengano a bada l'una con l'altra- il duro contro il comico. Max è una personalità conflittuale e rude, sempre sull'onda dei ricordi e delle previsioni più ottimistiche, che sappiamo sarà difficile si possano concretizzare, mentre Lionel disinnesca le situazioni con i suoi pagliacceschi alleggerimenti. Lionel racconta a Max la parabola del film, illuminante su come gli spaventapasseri in realtà non spaventino i corvi. Però gli fanno ridere così forte che le cornacchie vadano altrove che sul loro appezzamento.

Un secondo importante tema, alla fine quello decisivo, è l'ossessionante rimorso di Lionel per il bambino e la moglie che ha abbandonato. Questo è il suo grande senso di colpa di base, al quale viene dato il definitivo colpo di grazia dalla moglie stessa Annie (Penelope Allen) che con una orribile e crudelissima bugia vendicativa, gli dice al telefono che il bambino è morto quando lei era incinta di sei mesi, scivolando sul ghiaccio mentre lui non era lì per aiutarla. Tutti gli spettatori stanno intanto guardando un bambino di circa cinque anni di età, mentre in silenzio sta giocando accanto a lei al telefono. E gli aggiunge, che secondo lei il povero bambino dovrà restare nel limbo perché non era stato neppure battezzato. Questo terribile, malvagissimo shock, unitamente alla violenza sessuale subita in precedenza nella prigione da Lionel, presumibilmente è decisiva nel mandarlo a pezzi, addirittura in uno stato schizoide di disperazione prima, e di catatonia poi. Verosimile o meno, poiché secondo ogni manuale di psichiatria gli individui catatonici guardano senza capire con gli occhi aperti, e anche se quindi travisa un poco la cosa, Lionel sembra essere invece finito in una sorta di coma. L'ultimo disperato atto di Lionel, prima di perdere ogni contatto con la realtà, sarà quello di cercare apparentemente di "battezzare" un ragazzino che stava giocando con lui nella grande fontana del parco nel centro di Detroit, in una fredda giornata d'inverno. Max nello splendido finale andrà allora a ritirare i suoi risparmi, per tornare a Detroit e prendersi cura dell'amico, ricoverato in un reparto psichiatrico.

Valori del film: Lo script di questo film offre come detto in precedenza molto poca trama, ma un sacco di opportunità per la rappresentazione dei caratteri. Nel cinema americano di quella grande stagione, questo era spesso una prerogativa e un grande pregio, come in questo film. La percezione di ciò più o meno dipende dalla sensibilità del singolo spettatore. Se vi piace poter studiare i grandi interpreti sviluppare altrettanto grandi personaggi, sarà obbligatorio finire per amare questo film, come molti spettatori lo hanno amato, apparentemente. Ma anche per chi potrà preferire le trame forti, non sarà certo una delusione. La sua fine poi, è veramente molto forte e straziante, finanche feroce, tanto che fa quasi sempre venire alla mente il potentissimo e indimenticabile finale, per certi versi analogo, di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”(One Flew Over the Cuckoo's Nest) ('75) di Milos Forman. Altro capolavoro tutelare del cinema americano settantesco.
Non si può non parlare ancora e più diffusamente della magistrale fotografia di Vilmos Zsigmond.

La composizione fotografica di questo film potrebbe stare in ogni saggio sull'arte della fotografia cinematografica, non si può aggiungervi quasi niente a parole e lodi, se non tutto quello che Zsigmond è riuscito ad ottenere certo anche attraverso un qualche tipo di filtro che ha conferito al film un tipo di lucentezza così artistica e satinata. E senza mai togliere il piacevole effetto di avere un'immagine sempre molto chiara. Vedi sempre le facce dei due grandi Pacino e Hackman in dettaglio, almeno nel bel dvd Warner R1 che posseggo. D'altronde è immaginabile che un simile altissimo risultato fosse stato dovuto alla storia personale di Schatzberg come già celebre fotografo. E d'altra parte, è anche molto bello questo grande spazio lasciato a lunghe aperture fotografiche sui paesaggi e in special modo delle campagne, le quali diventano quasi un unico altro grande protagonista, oltre agli altri due, determinando anche un ottimo controllo delle diverse parti della pellicola . Questa tattica è stata senza dubbio un fattore importante nei virtuosismi che le luci e la fotografia di Zsigmond sono stati capace di generare. Devono essere dati dei voti alti anche al realismo delle impostazioni della pellicola stessa – come nelle sequenze sulla strada, nelle tavole calde, negli squallidi squallidi, e nella fattoria prigione.

Il clou di questo film risiede sicuramente nelle emozionanti prestazioni attoriali. Vantando due degli attori più talentuosi della loro generazione, al culmine del loro talento, e offrendo interpretazioni che si collocano tra il meglio di tutto quello che abbiano saputo fornire durante le loro illustri carriere. Il ruolo di Pacino era per lui forse anche un po' atipico, ma lo ha gestito ugualmente con grande abilità. Dopo “Lo Spaventapasseri” o giù di lì, fu subito di nuovo impegnato nel suo personaggio divenuto famosissimo di duro sensibile in “Serpico” (1973) di Sidney Lumet, e poi di nuovo di Michael Corleone, uomo di ghiaccio senza scrupoli, cuore né pietà, ne Il Padrino II” (1974). L'interpretazione di Hackman come rimarcato, è anch'essa assolutamente avvincente, oserei dire immensa. Mentre Richard Lynch, per cui è stata scritta questa rece e al quale è dedicata, alla sua prima e importante parte cinematografica, è assolutamente convincente, e rimanendo da subito nella memoria con quel volto da rapace bruciato, nel ruolo di supporto, del cattivo Riley.
In linea definitiva, questo film è allo stesso modo di base di classici come “Un Uomo da marciapiede” (Midnight Cowboy) (1969) di John Schlesinger e Easy Rider(1969) di Dennis Hopper – nei quali dei protagonisti Drifter, fuori da tutto e tutti, stavano inseguendo un sogno. Soprattutto, però, era un film in un certo qual modo anche a dispetto delle tendenze abituali della Hollywood del suo tempo. Ciò vuol significare che a questo film ho sempre conferito quattro stelle Le prestazioni e le rappresentazioni dei personaggi sarebbero pure da cinque, di stelle.

Non da meno anche la magnifica colonna sonora malinconica e dolorosa composta dal grande Fred Myrow.

Bodil Awards Anno 1974 Ha Vinto il Bodil come Miglior Film Non-Europeo (Bedste ikke-europæiske film) a
Jerry Schatzberg (regista)
Festival di Cannes Anno 1973 Ha Vinto il Premio OCIC a Jerry Schatzberg
Palme d'Or a Jerry Schatzberg
Ex-aequo con “Un Uomo da affittare” (1973).
Premio Kinema Junpo Anno 1974 Ha Vinto il Premio Kinema Junpo come Miglior Film Straniero
a Jerry Schatzberg

Prima di girare il film, Hackman e Pacino, si vestirono da hobos e in autostop girarono attraverso la California per meglio entrare nei loro personaggi.

Quando Max e Lion vanno in un ristorante per pranzare all'inizio del film, il brano in riproduzione sul jukebox è la hit top 40 "Silver Moon" cantata dall'ex Monkee Michael Nesmith , poi con la First National Band.

Hackman disse che il fallimento al botteghino di questo film lo aveva così deluso, da farlo successivamente concentrare su progetti puramente commerciali.

Hackman ha dichiarato che la propria performance ne “Lo Spaventapasseri” è la sua preferita.

Napoleone Wilson

giovedì 28 giugno 2012

Ninja (aka: Ninja 2009)

5

Noi ad Isaac Florentine vogliamo bene e non solo perchè è il regista degli ultimi due grandissimi Undisputed 2 e 3, ma perchè ogni suo film ci riporta indietro di almeno 10 anni verso quel cinema che esiste solo rantolando, quel cinema di mazzate semplici e trovate a volte geniali, miserabile sotto il contesto produttivo, ma ricchissimo in quello delle invenzioni, visive soprattutto, che ricorda un po' il nostro cinema di genere.

E vogliamo bene pure a Scott Adkins, l'attore che sotto l'ala del nostro Florentine interpretò il ruolo di una vita, Yuri Boyka, il cattivissimo russo con l'idea del combattente perfetto, icona di culto che ha reso immortale Undisputed 2 e 3. Quindi il cerchio sembra perfetto: Isaac Florentine + Scott Adkins sono l'accoppiata perfetta per un altro capolavoro.

Peccato non sia così semplice e soprattutto nel cinema la matematica diventa un'opinione. Se così non fosse già il precedente The Sheperd pattuglia di confine con il nostro Scott e Gianni Claudio insieme sotto la regia del buon Isaac avrebbe fatto faville e invece, colpa di uno colpa dell'altro, era un film dimenticabile. Questo Ninja, a cavallo tra il secondo e il terzo Undisputed, non è brutto, ma neanche bello, dura un'ora e 20 scarsa ed è tremendamente prolisso. I combattimenti, ciliegina sulla torta, dovrebbero essere emozionanti, sanguinosi, complessi, e invece si riducono in scontri apatici, non virtuosi e senza l'ingegno della messa in scena che ogni buon B movie ha nell'anima. Sembra che al regista non interessi molto della storia, come se davvero pensasse solo al suo Yuri Boyka che da lì a poco avrebbe combattuto contro il combattente Dolor per essere finalmente libero.

Scott Adkins dal canto suo ce la mette tutta e i suoi calci volanti fanno davvero male, sfida la legge della gravità e pesta come copione impone, ma può fare poca cosa davanti ad un film che nel 2009 dovrebbe rivaleggiare con il Ninja assassins di James McTeigue, e sarebbe davvero come combattere nudi contro una folla di checche isteriche e pretendere di non venire inculati. D'altronde nella storia ci sono buchi grandi come un cratere (come fa il ragazzo bandito dal dojo a diventare così ricco da comprarsi apparecchiature così costose?), personaggi analizzati pochissimo (il rapporto tra il protagonista e la ragazza, ma anche tra lui e il cattivo) ed escamotage narrativi (l'happy end) abbastanza insulsi. Però gli ultimi venti minuti con lo scontro tra i due nemici, uno vestito da Ninja Hi-tech e l'altro in maniera classica, per il possesso della Yoroi Bitsu, una mitica cassa contenente tutto l'armamentario del perfetto assassino, è notevole, girato con ritrovato ed inaspettato dinamismo da Florentine.

Peccato perchè le premesse erano buonissime, ma il film a fatica si guadagna la sufficenza non riuscendo, tra l'altro, a saziare neanche la nostra fame di ninja visto che per tutto il film ce n'è solo uno.
Keoma

mercoledì 27 giugno 2012

Sleeping Dogs - Unica regola: vincere

7

Col. Willoughby/Warren Oates
:- [Rivolto a Smith] “Ho tenuto il mio occhio su di te, ragazzo. Ho tenuto i miei occhi su di te veramente per bene.”

Smith/Sam Neill :- [Dopo aver scoperto perchè è stato inquadrato come un terrorista] “Bastardi, bastardi.”

Trama: Un uomo di nome Smith (Sam Neill) in cerca d'ispirazione e di cambiare la sua vita, lascia temporaneamente la moglie, un bambino e la sua casa, affittandone un'altra su un'isola disabitata al largo della penisola di Coromandel.Ma lì si trova un deposito di armi lasciate dal movimento di resistenza, Smith subito dopo viene quindi arrestato come sovversivo dal governo totalitario della Nuova Zelanda. Imprigionato, gli viene offerta l'opportunità di fare una confessione falsa e andare in esilio o altrimenti verrà passato per un'esecuzione sommaria. Contrariamente, egli riesce a fuggire e si rifugia per tutto il paese cacciato dalle Force Speciali del governo, venendo a malincuore coinvolto con il movimento della Resistenza.

Finalmente affrontiamo un film il quale è una delle pietre angolari del cinema kiwi. Si tratta naturalmente di “Sleeping Dogs”, secondo il bel titolo originale, Unica regola:vincere” in quello italiano che non c'entra praticamente un cazzo.
Personalmente conosco parecchio attraverso libri di storia, politica, cinema e curiosità varie la magnifica Nuova Zelanda, e anche un poco di persona per averci soggiornato un mese, 15 anni fa. E' una nazione dal territorio grande almeno quattro volte l'Italia e con una popolazione solamente di ca. 3,5 milioni. L'intero paese è costituito di centri abitati e città molto piccole, a parte ovviamente Auckland, Wellington, e sull'isola meridionale unicamente Christchurch e Dunedine, sono medie città. All'epoca ben pre- Peter Jackson e WETA Productions in cui questo film venne realizzato le produzioni cinematografiche neozelandesi erano quasi del tutto trascurabili - forse 3-4 film all'anno, e la produzione televisiva limitata a una singolo soap opera adolescenziale (“Shortland Street”), più forse una sitcom e una serie drammatica prodotte in un anno. Certamente una tale minuscola industria cinematografica nazionale e con così poche uscite ebbe comunque già alcune sorprendenti storie di successi - con registi come Vincent Ward ( “The Navigator:Un'odissean nel medioevo” 1988, “Al di là dei sogni”“1996), che ben precorse Peter Jackson (“Il Signore degli Anelli” 2001), Lee Tamahori (“Once Were Warriors -Una Volta erano guerrieri” 1994, poi anche “007 -Il Domani può attendere” 2003), Jane Campion, la peggiore (“Lezioni di piano” 1993, ”In the Cut”, 2002 Martin Campbell (“Agente 007 -Goldeneye” [1996], “Agente 007: Quantum of Solace” [2008]), e attori come Russell Crowe, Lucy Lawless, Kerry Fox, Anna Paquin, Temuera Morrison, Keisha Castle-Hughes, bellissima, e il compianto Bruno Lawrence, forse il più dotato attore kiwi ad avere maturato esclusivamente una carriera “australe”. Naturalmente “Sleeping Dogs” si avvalse anche di due eccellenti nomi che poterono garantire al film una distribuzione internazionale- Sam Neill nella sua prima interpretazione su grande schermo, e il regista Roger Donaldson (sotto citerò almeno alcuni dei suoi film successivi).
Sleeping Dogs” fu davvero la pietra angolare dell'industria cinematografica della Nuova Zelanda. E' difficile oggi credere che nello stesso anno in cui venne prodotto "Star Wars”, il 1977, la produzione totale di film in Nuova Zelanda poteva contarsi su di una mano e un paio di dita. Come Sam Neill stesso sottolinea nel suo eccellente documentario “Cinema of the disease: A Personal Journey of Sam Neill” (1995) -potete trovarlo in rete-, l'immagine culturale della Nuova Zelanda era (e in larga misura ancora lo è) determinata da influenze straniere, prima come colonia dell'Inghilterra, e successivamente in gran parte attraverso la schiacciante prevalenza del cinema e della tv americani. Come osserva Neill, è stato strano andare la prima volta nelle sale cinematografiche locali e vedere i volti e gli accenti della nazione, senza per una volta scorgervi dietro i soliti riflessi della cultura e del predominio statunitensi.

E' con “Sleeping Dogs” che tutto questo cambiò. Fu il primo film importante realizzato in casa e che divenne un successo, almeno di accoglienza critica. Venne visto come l'opera realizzata da un regista neozelandese, destinato a dirigere film anche di grande successo, negli Stati Uniti, che inesorabilmente ma sempre originalmente, incorporava insieme stili internazionali del fare cinema - ma soprattutto accenti locali che per la prima volta erano visti sullo schermo. Il successo del film portò nello stesso anno direttamente alla creazione della New Zealand Film Commission - un organismo finanziato dal governo come nell'industria cinematografica della vicina Australia che con la “First Wave” proprio in quegli anni stava esplodendo, che avrebbe finanziato il cinema sia con finanze locali, che fungendo da agente di vendita internazionale.
Il successo di ”Sleeping Dogs” fu lungo e duraturo, riflettendosi sulla produzione a venire, e sull'immagine cinematografica stessa del paese, all'estero. Un paese che era e si immaginava così placido e tranquillo, come la Nuova Zelanda, dove la polizia ancora non portava armi e il tasso di criminalità nazionale era poco al di sopra dei 2-3 omicidi l'anno, a senso di ciò, nel 1977 la sorpresa di vedere tutto questo superamento dell'immagine classica e stereotipata, raffigurando una Nuova Zelanda caduta sotto l'oppressione del fascismo (a questo punto è utile una breve digressione, spiegai in una precedente rece degli Ozploitation, come anche in Australia questo fosse timore molto radicato e ben presente, data la relativa vicinanza con il continente sudamericano, quasi interamente sotto controllo delle dittature militari appoggiate dagli Stati Uniti, in quel periodo storico. E in Nuova Zelanda e Australia, fuggirono, vennero accolti con l'asilo politico, molti esuli, politici no meno, fuoriusciti da quelle dittature) – nella quale squadre antisommossa con casco e tutto il resto picchiano con i manganelli i manifestanti in strada, controllando ad ogni isolato le carte d'identità dei cittadini, costituendosi dei movimenti di resistenza armata, mentre vengono effettuati arresti senza un giusto processo - deve aver avuto un elettrizzante effetto di shock. Un ulteriore senso di immediatezza, che ciò stesse davvero accadendo, è rafforzato dall'immagine di Dougal Stevenson come un lettore di news sugli schermi delle tv, un ruolo che Stevenson conduceva anche nella vita reale in alcune trasmissioni della televisione neozelandese, poi soltanto al telegiornale della sera su uno dei due canali nazionali del paese. E la cosa spaventosa di “Sleeping Dogs” era il modo profetico con cui precedette questo tipo di immagini, che fu solo una questione di pochi anni più tardi (il 1981), quando si sarebbero viste davvero, con le stesse forze di polizia in tenuta antisommossa con il casco e tutto il resto, a bastonare con i manganelli i manifestanti durante i tafferugli per le strade, in occasione delle proteste a livello nazionale contro il tour della celeberrima nazionale Springboks di rugby, del Sud Africa pro-apartheid. La cosa più evidente è che”Sleeping Dogs” quando venne distribuito a livello internazionale fece quasi vicino allo zero, in quanto ad incassi- e facendolo addirittura dimenticare dall'eccellente accoglienza critica ovunque venne fatto uscire.
Seguendo lo standard dei film distopici, “Sleeping Dogs” lo rivolge coniugandolo ad un maggior senso dell'azione, così tipico del cinema Ozploitation, con il quale riesce ad ampliare ancora di più la risonanza di una Nuova Zelanda completamente rovesciata, nei suoi aspetti più familiarmente percepiti, in casa come all'estero.
L'attore e poi regista Ian Mune (vedi "Bridge To Nowhere”, forse il suo film migliore e maggiormente distribuito all'estero, adattamento del romanzo scritto nel 1971 da CK Stead, -oggi una delle figure letterarie più acclamate del paese-, ma anche de “L'Uomo di Dunedine”[Man of Dunedine] [1985], e fra gli altri di “Once Were Warriors 2- Cinque anni dopo” [1999] ) è anch'esso presente nel film come attore e sceneggiatore, mentre la forte scrittura di Stead, qui presente come co- sceneggiatore, viene da Mune prosciugata dell'aspetto sociopolitico trasformando la storia in un film d'azione. Il film ha però davvero alcune ambizioni più alte, che l'essere soltanto un film d'azione. Certamente non si innesta in una qualsiasi delle diatribe politiche che solitamente compongono il filone della SF distopica- il governo ritratto è solamente totalitario e repressivo, in un generico e futuro stato di polizia, senza una maggiore profondità di tutto ciò.
La regia di Donaldson che operò con un budget ridotto, prolunga bene il movimento e l'azione. Il film tende anche trascinarle in qualche modo, queste scene d'azione. Donaldson in più aggiunge spesso un senso dell'umorismo tra il beffardo e il parrocchiale come lo scambio tra Sam Neill e l'anziano Maori che gli affitta l'isola e gli dà in compagnia un cane - "Qual è il suo nome?" :-"Non lo so. E' il tuo di cane."
Sam Neill doveva ancora a sviluppare tutto il carisma che lo avrebbe etichettato come uno degli uomini più affascinanti, “sexy” del mondo nel 1990, in quelle stronzate di apposite classifiche da riviste patinate. Un paio di anni più tardi Neill avrebbe interpretato il protagonista maschile in My Brilliant Career” (1979) di Gillian Armstrong, poi Damien adulto in “Conlitto finale”(Omen III: The Final conflict) (1981) di Graham Baker e ottenuto la fama internazionale per la serie tv del tutto magistrale Reilly, Ace of Spies” (1983), il resto è storia; ma qui Neill è ancora abbastanza nuovo come presenza sullo schermo, e anche se è lui l'eroe della storia, il suo Smith è un personaggio piuttosto passivo. Il ruvido personaggio di Mune è ben caratterizzato come il teppistico Bullen. Ancor prima che in Nuova Zelanda fosse d'abitudine di avere la partecipazione di attori americani per aumentare quindi la vendibilità dei film autoctoni sulla scena internazionale, Donaldson ebbe l'opportunità di ottenere la partecipazione al film in una breve apparizione e appositamente in trasferta, del grande Warren Oates, come un ufficiale militare americano.
Roger Donaldson avrebbe successivamente diretto Smash Palace” (1981), un film inquietante ed emotivamente coinvolgente imperniato sulla rottura di un matrimonio, che è uno dei film più belli dell'emergente cinematografia neozelandese al principio degli anni ottanta, e rimane il film migliore dell'intera carriera di Donaldson, oltre ad essere una delle interpretazioni giustamente più celebrate e ricordate, di Bruno Lawrence.
Il successo di Smash Palace” portò Donaldson oltreoceano dove avrebbe realizzato “Il Bounty” (The Bounty) (1984) con Mel Gibson e Anthony Hopkins, molto bello, l'enorme successo di pubblico ma thriller mediocre con Kevin Costner “No Way Out” (Senza via di scampo) (1987), e di fronte a tale prodotto molto convenzionale ma di buonissima presa commerciale, Donaldson insistette con i prodotti mercantili: Cocktail” (1988), Cadillac Man -Mister occasionissima” (1990), l'orrendo remake di “The Getaway” (1994), ma almeno anche il bello e sottovalutato thrillerWhite Sands -Tracce nella sabbia” (1992). A seguire diresse tra gli altri il non disprezzabilissimo disaster-movie “Dante's Peak -La Furia della montagna” (1997), e il sopravvalutatissimo thriller storico- politicoThirteen Days” (2000) sempre con Costner. Negli anni 00 e più recenti ha realizzato alcuni validi pretendenti ai Razzie Award nella categoria peggior film dell'anno, ad esempio con “Indian -La grande sfida” (2005) protagonista “alimentare” l'imbolsito Anthony Hopkins, il ridicolissimo e insignificante “Solo per vendetta” (The Hungry Rabbit Jumps) con Nicolas Cage e Hugo Weaving l'anno scorso, salvandosi parzialmente solo con “La Rapina perfetta”(The Bank Job) con Jason Statham, girato in Gran Bretagna nel 2008, tratto da una storia vera e ambientato negli anni settanta. Donaldson ha anche inaugurato una joint di discreto successo nel genere SF con il primo film della serie di “Species -Specie mortale” (1995).

Il film venne limitatissimamente distribuito e in pochissimi cinema italiani, nel giugno del 1980 dai mitici Distributori Regionali Associati. E' poi uscito unicamente in una rarissima vhs da nolo della Futurama nel 1987, casualmente trovata dal sottoscritto alla UPIM in uno di quei cestoni di cassette, nel 1998. Si trova una splendida “Special Edition” in dvd e a doppio disco, ovviamente solo in R4.
Geoff Murphy è il curatore degli effetti speciali del film. Murphy in seguito avrebbe anch'egli diretto film di alterno successo e riuscita, negli Stati Uniti. Nel 1985 ancora in Nuova Zelanda avrebbe però diretto “La Terra silenziosa” (The Quiet Earth) con Bruno Lawrence protagonista, considerato giustamente uno dei maggiori e più riusciti film post-apocalittici dell'intero filone, e uno dei migliori film di fantascienza degli anni '80. Oltre che probabilmente il miglior film neozelandese in assoluto, di quel decennio. Nel 1984 diresse sempre con Lawrence protagonista, anche “Utu -Il Massacro dei Maori”, imponente e significativo affresco storico sulle prime guerre dei coloni bianchi contro i Maori, nel 1860.

Warren Oates venne pagato 5000$ per la sua apparizione come Col. Willoughby. Il regista Donaldson avrebbe voluto nel ruolo Jack Nicholson, ma l'agente di quest'ultimo rifiutò il ruolo quando furono informati del basso budget del film.

L'allora primo ministro della Nuova Zelanda, Robert Muldoon, richiese un'anteprima privata del film prima della sua uscita, dopo aver sentito voci secondo le quali il film era stato inteso come una critica della sua leadership.

Warren Oates ha il copione del film in mano, quando si tira su a bordo della piscina nel motel.

Questa fu la prima pellicola prodotta in Nuova Zelanda ad ottenere una distribuzione cinematografica negli Stati Uniti.

A causa di restrizioni alle armi esistenti in Nuova Zelanda al momento di girare il film, tutte le pistole e le armi automatiche erano repliche di legno con flash aggiunti successivamente sulla canna.

Napoleone Wilson

martedì 26 giugno 2012

Ninja assassin (review #2)

8

Sembra più che un ninja un cantante di una boy band!

(poliziotto guardando il protagonista interpretato dal cantante Rain)

Che sorpresa questo Ninja Assassin, ad un passo dal sublime, dal capolavoro, dal fumettaccio grondante sangue e ossa rotte. James Mcteigue forse non riesce a scrollarsi di dosso ancora l'eredità dei fratelli Wachowski e il loro cinema di rallentamenti velocissimi, ma ha un estro nel filmare la morte non comune. Il suo Ninja assassin è in tutto e per tutto un horror camuffato, dall'uso massiccio del sangue, della carne squarciata, dei ninja ritratti come i mostri di Alone in the dark, della messa in scena che echeggia i survival horror con l'oscurità falciata dalla luce di torce.

Non male per un film che nasce, nelle intenzioni, come spin off del vituperato (eppure delizioso) Speed racer, concentrandosi sulle vicende del pilota asiatico interpretato dal cantante Rain, alle prese in una scena con dei ninja. Il progetto strada facendo diventa altro, come si è visto, resta solo lo stesso attore, ma cambia il nome del personaggio, non più Taejo Togokahn ma Raizo, e vengono lasciati da parte i deliri pop per mettere in scena una storia molto classica che prende spunto dal violentissimo film d'animazione Ninja scroll. La pellicola inizia in maniera perfetta, con un prologo scollegato dalla storia, dal sapore appunto di horror (c'è dietro al Dark castle di Sam Raimi non per caso) dove un anziano tatuatore viene messo alla berlina da una gang di mafiosetti armati di tutto punto. Infatti è appena arrivata una lettera contenente soltanto polvere nera.

- Che cazzo è questa?
- Non lo so ma anni fa vidi recapitare la stessa polvere e poi arrivarono loro...
- Chi?
- Non posso dirlo, ma una lama mi trafisse il cuore solo che per un difetto congenito avevo il cuore dalla parte opposta...
Ecco che l'anziano apre il suo kimono e mostra un ninja tatuato.
- Non riuscivi a dire NINJA???
- Non nominare quel nome...
- Sennò che cosa vecchio? Ninja! Ninja! Ninja!

E come la fata dentina di Al calar delle tenebre o il Candyman di barkeriana memoria ecco che arriva un ninja, vestito di nero, con katana e stelline. E' un'orgia di sangue raramente vista in una produzione mainstream: arti che volano, ginocchia tranciate, teste decapitate e poi un'esplosione di shuriken che dilaniano la carne come proiettili in geyser di sangue generosi. Il resto del film è sullo stesso piano con combattimenti crudelissimi da una parte e la storia del ricercato ninja Raizo, abilissimo nell'uso della Kusarigama (un falcetto attaccato ad una catena), dall'altra. Il ragazzo fin da piccolo ha imparato, attraverso prove durissime e sadiche, a non provare sentimenti, a non avere quindi un cuore, ma la morte di un'amica lo costringe a ribellarsi al suo clan e, come un dramma shakespeariano, al suo stesso padre. La pellicola deliziosamente debitrice dei videogame sul tema (Shinobi, ma anche il mai troppo compianto Tenchu) ricorda nei flashback passati il serial Kung Fu con un mai troppo decantato David Carradine, in una poetica di fondo che mischia diversi media, ma soprattutto una concezione di spettacolo classica e una più moderna. I combattimenti sono coreografati magnificamente (uno è stilosamente ripreso in controluce con solo il sangue in evidenza che schizza) ed immaginifici (il pazzesco combattimento in mezzo all'autostrada tra ninja investiti da macchine impazzite). Si può dire che il piatto servito, forte della sua breve durata (80 minuti), è gustoso e non lesina nel finale, forse inconsciamente, a citare un grande classico del B movie di arti marziali, American ninja, con tanto di bazooka alla Cannon dei bei tempi che furono. E la presenza, dopo quasi più divent'anni di assenza, del grandissimo Sho Kosugi, mito degli action sui ninja della nostra infanzia.

Difficile volere di più da un'opera che diventa un moderno caposaldo del genere.
Promosso a pieni voti.
Keoma

lunedì 25 giugno 2012

Blood Sabbath

7

Tempo d'estate, tempo per una bella rassegna di film con satanassi e streghe (possibilmente ignude) che chiameremo "Satanic Witchcraft", così, a caso. Cominciamo con weirdissimo prodotto del 1972 diretto dalla cinematographer Brianna Murphy, intitolato "Blood Sabbath".

David (Anthony "Tony" Geary) è un reduce del Vietnam che se ne va in giro con chitarra acustica a tracolla con tanto di ballad in stile Stephen Stills periodo primi album da solista in sottofondo. Incontra subito un combie van ripieno di hippies che lo deridono lanciandogli la birra addosso ( dal finestrino si affacciano nientemeno che le tette di Uschi Digard, uncredited). Il buon David è un tipo tranquillo e la notte vuole dormire, per cui quando un trio di ragazze infoiate e nude cerca di farselo nottetempo, lui fugge. Tutto questo è solo una breve introduzione alla ciccia della pellicola. Si, perchè David incontra nel laghetto in cui è caduto una ninfa, Yyalah (la Susan Damante di "The Student Teachers") di cui si innamora follemente. Bisogna ora aggiungere che nel boschetto si aggira pure Alotta, the Queen of Witches (nientemeno che la mitica Ilsa in persona! Dyanne Thorne, con vestale rosso fuoco e bandana) e uno strano santone di nome Lonzo, il quale si prende a cuore le sorti del giovane. I due, Lonzo e David, una sera se ne vanno in una la locanda dove suonano dei messicani tristissimi, nel senso che piangono e suonano melodie struggenti, e proprio qui veniamo a conoscenza di El Padre, il prete locale (Steve Gravers), il quale è vessato dalla strega Alotta che non perde tempo a provocarlo offrendogli delle fanciulle nude pronte a farselo. Grande scena.

Bene. La travagliata storia d'amore tra David e Yyalah si complica ulteriormente perchè ci mette lo zampino la strega Alotta, che vorrebbe irretire il reduce. Gli fa credere che sta per sacrificare una bambina sull'altare di Satana, per cui il buon David si offre in cambio della giovane vita. Tutte cazzate, perchè lo scopo è quello di convertire David al satanismo durante il sabba con le streghe. Se vi piacciono i film in cui delle ragazze ballano seminude intorno ad un altare mentre Dyanna Thorne masturba un cero, questa pellicola fa al caso vostro.

Cultissimo e sleazy come pochi, il parto della Murphy (regista solo di un altro titolo, un teen-movie con droga e alcol starring Ami Dolenz, ma direttore della fotografia in una valanga di serie tv) rimane nella memoria più per le intenzioni che per il risultato finale ma, a conti fatti, poco importa data la mole di materiale degno di essere custodito dall'amante di chincaglierie seventies. In questo senso tutto il finale è da prendere e salvare in blocco, sia per la psichedelia spiccia della messa in scena, sia per l'andamento onirico della vicenda, sia per la Thorne che balla con le megatette al vento e monologa con la testa decapitata del povero El Padre. Non ha prezzo. Però attenzione anche al finalissimo in cui David viene inseguito e schiantato dal furgoncino di hippies incontrato all'inizio; durante il metraggio si sono visti dei cialtronissimi flashback del Vietnam in cui si suggerisce, ma non si dice a chiare lettere, che David (praticamente vestito da giardiniere per farlo sembrare un soldato) potrebbe essere stato ucciso dal fuoco amico durante la battaglia. Dopo l'incidente, il reduce si risveglia nel laghetto con l'amata ninfa. Fine. Non è poco, dai. Il mitico Tony Geary è stato protagonista di un plotone di episodi di "General Hospital" e di altre millanta serie Tv, ma pure di un misconosciuto filmetto intitolato "Assalto al Network" (1988) di David Geary con Bill Paxton e Tim Curry. Musiche del grande Lex Baxter accreditato come Bax e canzoni interpretata da Chuck Conway.

Buona visione.
Belushi

domenica 24 giugno 2012

Il Giudice e la minorenne

5

Il Giudice e la minorenne” è l'ultimo film che affronteremo in questa piccola e doverosa rassegna dedicata alla carriera cinematografica del grande Mino, in questo caso non attore ma solamente compositore della bella colonna sonora, assieme al fido fratello Franco.

Unico film diretto da Franco Nucci, è una stravagante e velleitaria commistione dei diversi filoni del cinema popolare italiano, che in quel periodo stavano riscuotendo notevole successo: ondivagando senza un baricentro preciso tra il poliziesco, l'erotico-drammatico coniugato all'elemento maladolescenza, quindi falsamente moralista, solamente pruriginoso e scollacciato, e persino lambeggiando il thriller politico-terroristico sempre in voga in quegli anni. Era anche un film molto raro fino ai recenti e recentissimi passaggi tv su Italia7 Gold, in una buona copia ma purtroppo dal formato molto scannato, anch'esso come “Tara Pokì” esistendo prima solamente in una vhs australiana in lingua italiana.

Chris Avram, il noto attore di origine rumena del B-bis italico anni '70, interpreta un giudice di mezza età, il dott. Serra, il quale dai suoi soliti casi è chiamato a doversi occupare di un fascicolo apparentemente semplice in realtà scottante, riguardante un presunto caso di violenza carnale ai danni di una ragazzina. Piero Mazzarella, irresistibile e bravissimo come sempre, interpreta il sagace idraulico Mariani, il presunto colpevole. Il quale però si difende, accusando la minorenne di avere fatto di tutto per provocarlo, adescandolo in cambio di 100'000£ -che neppure gli darà, è pur sempre un idraulico-. In effetti, ella è già una bella e impudente mignotta, che sfruttata dalla madre vedova, procura a marchette i soldi che mancano in casa dalla morte del padre. La quale ragazza, conferma però l'accusa di essere stata violentata. Da qui in avanti il film vorrebbe diventare anche una generica inchiesta sulla diffusa immoralità del mondo d'oggi, soprattutto tra le minorenni. Distaccandosi da quelle che possono sembrare le coordinate di un genere preciso, ma non riuscendovi fino in fondo perchè troppo didascalico e semplicistico in troppi passaggi, senza apparente capo né coda in altri, costruiti sbrigativamente e buttati lì. In quanto alla diffusione di quest'immoralità in un mondo di cui non aveva conoscenza, il giudice Serra avrà modo di averne esperienza in prima persona, allorquando diverse sedicenni lo troveranno inspiegabilmente irresistibile : dalla compagna di banco di sua figlia Mirella, la quale sarebbe subito disponibile, dopo essersi scoperta voluttuosamente le gambe mentre è intenta a studiare nella poltrona del suo salotto, fino alla sedicente giovane vittima dell'idraulico, vera seduttrice per bisogno.

Ma questo non è tutto, una disillusione decisiva gliela dà proprio la molto ambigua figlia Mirella, la quale lei no, non fa proprio la zoccola ma sarebbe addirittura una giovane estremista facente parte di un'organizzazione eversiva, e partecipando seppur indirettamente anche ad un pestaggio di giovani fascisti. Alla fine, il prevedibile colpo di grazia ad un già periclitante equilibrio personale, glielo dà la moglie perchè il nostro giudice ovviamente ha pure le corna, infatti è sposato con Laura che però non chiava più come una volta, ed essendo lei una gran topona interpretata dalla nota super passerona spagnola Susan Scott/Nieves Navarro, ella “con tanto rammarico” lo tradisce. Indovinate con chi? Ma con un giovane pilota di linea aerea, con tanto di Citroen DS color argento, interpretato da un'esordiente Teo Teocoli, curiosamente chiamato “Theo”. Che bisogna dire, da ragazzo pareva un bel pischello super pugliese e dai peli nel naso perfettamente pettinati(chissà come si vedrebbero bene se questo film fosse mai riversato in HD!), certo meglio del nostro giudice Serra-Chris Avram, dai capelli Rockabilly alla Tony Renis. Sorpresi insieme nella suddetta DS argento, Serra da un costone sovrastante si scaraventa assurdamente con la propria macchina contro la loro, provocando tre morti nel rogo conseguente delle auto. Qualcuno ha trovato questo finale anche coerente con il tono drammatico e gravemente negativo del protagonista.
A me però è dispiaciuto tanto solamente per la DS.

Eh sì, non c'è più morale in questo mondo dell'irresistibile 1974, il protagonista giudice dovrebbe appunto mantenerci in sintonia con la visione di questo tramonto generale dei valori, quale ci troviamo ad assistere, per non dire della giustizia, mai apparentemente limpida nella sua applicazione. A parte il suo suicidio, era chiaro che il protagonista era un uomo comunque vicino a quel che si chiama il famoso “punto di rottura”, così moralista ma attratto e cedevole verso le sedicenni che lo attorniano nel film, compresa senza suggerire, forse la figlia. L'incarico sarà la classica miccia che lo farà deflagrare.
Ciò è forse esplicato già nella prima sequenza la quale fa il paio con l'ultima, che si conclude sempre con un incidente d'auto. Come quello in cui viene coinvolto il nostro giudice all'inizio, quando viene speronato in pieno ad un incrocio dalla macchina di alcuni banditi, in fuga dopo una rapina in banca. Prontamente arrestati.
Purtroppo, soprattutto il finale ma anche i diversi svolgimenti della trama sono quanto mai inverosimili, se non proprio esagerati, eccessivi. Il finale sarà stato pensato da Nucci sicuramente come liberatorio, e catarticamente ricco di pathos, ma così com'è è solamente molto insensato, ridicolo, non stando né in cielo né in terra.
E' un po' il classico film scandalistico con una punta di accennata violenza, senza sfumature e ad uso e consumo di un pubblico da “maggioranza silenziosa” di quegli anni, moralista per l'assunto allarmisticamente inquietante e per certi enunciati declamatori, in verità con una scena di nudo dopo l'altra, con le giovani e poco vestite protagoniste a dire battute ammiccanti e maliziosette, in alcune sequenze di seduzione anche ben orchestrate e girate, non ridicole, ma avanzate tra un discorso moraleggiante e l'altro, seguito subito dopo da uno spogliarello. Certo, rispetto a quello che si vede oggi non è nulla di minimamente sorprendente, e anzi l'unico aspetto veramente spiazzante rispetto all'oggi potrebbe essere un certo fondo di maschilismo che pervade l'intero film, del tipo di “ne ho conosciute tante di mignotte, ma mai come le donne”. O lo sfruttamento realizzato anche con una certa perizia, dell'efficace descrizione di quanta spudoratezza e ambiguità avanzino queste giovani scostumate, anche se poi, successivi momenti piuttosto trascurati e caotici non mancano, facendo sì che il film non funzioni tutto a dovere.
Funziona abbastanza invece, la insolita per quei tempi struttura a flash-back, ma non gli sbrigativi accenni alle storture e ai malfunzionamenti della magistratura, troppo raffazzonati e semplicistici.

Chris Avram, attore solitamente bravino, e che conosciamo già anche da queste parti (almeno per il ruolo del commissario che viene come Calabresi ucciso in strada a Milano, all'inizio di “Milano trema: La Polizia vuole giustizia” (1974) di Sergio Martino), nel ruolo qui di protagonista è un po' monotono, ma forse a causa del ruolo che non lo convinceva fino in fondo, e come dargli torto. Susan Scott/Nieves Navarro, nei panni della moglie, era già nella fase discendente della carriera, con le bocce comunque splendidamente rifatte, che la porterà/nno di lì a pochi anni (1977) a diventare la sfacciata beniamina di tante rimembrate seghe settantesche, come nelle da lei interpretate scene semi-porno del supercult “Emanuelle e gli ultimi cannibali” der nostro D'Amato/Massacesi.
Ma meglio di tutti sono le tre lascive ninfette interpretate da Flora Saggese, Caterina [Ketty] Barbero, e la più famosa come i nocturniani ben conoscono, Antiniska Nemour, però la meno bbòna delle tre e già centralinista di quell'assurdo programma del Tortora lì, il Portobello. Le prime due in seguito sono state ben poco viste ed è un peccato, essendo coloro che danno maggiore senso e ricordo al film, a parte il come detto e per inciso, sempre splendido Piero Mazzarella. Ma lui si sa, è comunque un grande attore.

Parlando per appunto della colonna sonora firmata dai Reitano Brothers, molto ritmica e piena di percussioni nelle fasi più concitate, e in quelle in cui il protagonista viene assalito dallo sgretolarsi di tutto il suo mondo, fatto di false certezze. Bella ed efficace nei momenti più enfatici del film, come l'inizio e la fine al Cimitero Monumentale.

Come detto, il film non è brutto solo non completamente riuscito, ma è apprezzabile soprattutto per la curiosa singolarità con cui commistiona i vari generi e filoni, una certa amarezza e disincanto di fondo, assieme all'azione (come nell'abbastanza bello e ben girato inseguimento iniziale) e all'intento di denuncia moralistica del malaffare, la quale però funziona a corrente alternata, anche perchè sono troppo scoperte certe assurdità della trama quali la magistrato donna collega ed innamorata del giudice, che vorrebbe nascondere l'inchiesta sul gruppo eversivo perchè coinvolge sua figlia, e la forte componente cochòn del film.
In fondo, alla fine l'unica cosa che rimane del film a cui appigliarsi, peraltro irrisolto in molte altre cose, è che semplicisticamente le donne di oggi sarebbero tutte propositive ed offerenti sé stesse, fin dall'età nella quale dovrebbero essere ancora e soltanto delle bambine, come dirà difendendosi nell'interrogatorio, l'idraulico di mezza età, paccianesco-meneghino, Mariani/Piero Mazzarella.
E soprattutto dietro la promessa di soldi come le 100'000£ a lui chieste, che queste adolescenti solo di età e per bene solo di nomea, donne adulte di fatto, perlopiù di buona famiglia, non fanno altro che provocare gli uomini per delle sane trombate no-stop. Ma dove? Nella Milano anni '70 in cui è ambientato -anche bene- il film. Ma che appunto, è solo un film, per di più infarcito di approssimativi luoghi comuni maschilisti, da sempre molto in voga, in Italia.
Magari 'ste lolite fossero tutte “maiale”, ma purtroppo non è mai stato proprio così. O forse si profetizzava senza saperlo le ben più spregiudicate Papi-girl delle “notti di Arcore”,in cerca addirittura di un posto in Parlamento, o ne L'Isola dei famosi?

Fantastico il manifesto originale dell'epoca, con la “minorenne” inginocchiata a beba e con i piedi nudi, che di culo si prospetta dinanzi al “Giudice”, più che suggerendocela impegnata nell'eseguirli un pompino.

Napoleone Wilson

sabato 23 giugno 2012

Princess of Mars

3
2009, Mark Atkins.

Quando Traci Lords chiama, il sottoscritto risponde. Quindi, già nel 2009 il sinceramente vostro si era andato a recuperare questa pietra miliare dell'Asylum che è la versione cheap di "John Carter", tratto da Edgar Rice Borroughs, uscito pochi mesi fa nelle sale interplanetarie.

Il filmetto di Atkins, che è attore, direttore della fotografia e pure regista (all'attivo ben 12 film della serie cazzate Asylum, spazianti da Mago Merlino a Allan Quatermain fino al tremendissimo "Sand Sharks") era invece uscito solo per il sollazzo dei direct to video addicted. Bene.

A questo punto è utile parlare del plot. Il soldato John Carter (Antonio Sabato Jr.) viene ferito durante un'imboscata in Medio Oriente, motivo per il quale il comando operativo decide di spedirlo sul pianeta Marte (non quello classico, ma un altro) dove viene catturato dalla popolazione locale, dei simil-batraci che si fanno chiamare Tharks. John Carter ,sul pianeta Marte, possiede dei super poteri che gli consentono di fare dei salti a lunga gittata e di spaccare il culo a delle formiche giganti, per cui i Tharks lo eleggono amico e gli danno pure una carica militare. Manca Traci Lords, che si era vista per poco all'inizio e che dopo compare seminuda nel ruolo della principessa di Marte, appunto, Dejah Thoris, concupita dal malvagio della situazione, il mercenario Sarka, che vuole uccidere tutti e sbattersi la principessa. Più o meno così perchè l'ho visto in tedesco.

E' difficile assistere ad un film starring Traci Lords senza pompini, lesbo, scopate e quant'altro ma il film di Atkins riesce nell'impresa di essere esploitativo pur con un budget miserrimo. Non è vero, però lo scrivo lo stesso che tanto non lo guarderà nessuno. Vero è invece che Traci è in forma ed è sempre imbronciata e incazzosa come ai bei vecchi tempi, tanto che sembra quasi che da un
momento all'altro sia lì lì per praticare un signor pompino a quel cagnaccio di Antonio Sabato Jr. (figlio di cotanto padre). Ma niente. A dire il vero questa uscita di Atkins sembra leggermente più ambiziosa e meno cialtrona delle altre produzioni Asylum, sopratutto per via dell'ottimo uso delle riprese in esterni, molto efficaci nella rappresentazione di Marte (si, vabbè) ma quando ce ne si accorge, il film è finito. Cosigliatissimo. Dvd Asylum Home Video, Region 1, NTSC, ratio 1.33:1.

Ok, buona visione.
Belushi

venerdì 22 giugno 2012

The Village

5

Un villaggio e la sua comunità, negli Stati Uniti, che vive in una campagna, completamente isolato dal resto della civiltà. Attorno ad esso un bosco popolato da misteriose "creature innominabili" attirate da qualsiasi cosa abbia il colore rosso, colore che quindi è bandito. Governato da un consiglio di anziani, esiste da molto tempo ma qualcosa comincia ad incrinarsi...

Nel rifiuto di ogni modernità o tecnologia, quello che più mette in crisi la volontà dogmaticamente autarchica della comunità è il bisogno episodico quanto drammatico di medicine. Gli anziani non faticano a rinunciarvi, ma i giovani invece vorrebbero recarsi in città per prenderle, sfidando le creature del bosco. Non solo, ma avvengono altri "fatti" che possono sembrare banali e invece non lo sono, come il rifiuto di un matrimonio sostanzialmente combinato. Contestualmente nel villaggio le creature, che ogni tanto lo invadono, compiono strane azioni: uccidono alcuni animali e li lasciano in vista e scuoiati. In un luogo dove si vuole regni l'ordine nasce il disordine. Il promesso sposo paleserà il suo amore per la sorella cieca della promessa e per questo verrà accoltellato e reso in fin di vita dal "pazzo del paese" per gelosia. A questo punto la cieca, proprio lei che nessuno più potrà fermare, in cerca di medicinali per l'amato finalmente si addentrerà nel bosco per raggiungere la città compiendo una grande impresa e scoprendo le verità che sottendono a quel isolamento, che lascio scoprire.

Il girato, la fotografia che nei colori pastello tenui propone chiaroscuri a forte contrasto, soprattutto la vicenda nelle sue parti iniziali con quelle creature misteriose che aleggiano invisibili in ogni fotogramma, fanno pensare ad un horror. Anche il viaggio verso l'ignoto della ragazza cieca ha questi connotati. In realtà siamo di fronte ad un film pesantemente politico, intendendo il termine come una descrizione dell'esercizio del potere che la stessa compie usando la Paura come mezzo primo per attuarlo, mezzo volto ad equilibrare fonti di Disordine e spesso a trasformare queste fonti in ulteriori cause di Paura anche se in questo film forse il termine più esatto è Terrore.

Immediatamente dopo la visione il pensiero mi è andato a un film emblematico in tal senso, "Kynodontas (aka Dogtooth)" (2009, Yorgos Lanthimos), a riguardo del quale scrissi "...il totalitarismo dei regimi dittatoriali è facile da vedere, quello delle democrazie meno, è più subdolo... non c'è filo spinato, non c'è minaccia armata... una sola fonte è ammissibile e detiene la verità, le altre devono essere messe a tacere e dissentire non è solo sconsigliato, ma rappresenta una forma di peccato". Nella comunità è assente la violenza anche come forma deterrente per il crimine, e gli atti criminali nemmeno sono previsti, eppure qualcosa che tenga a bada eventuali "ammutinamenti" occorre ed ecco che le creature misteriose svolgono questa funzione. L'uso politico della Paura non è oggi argomento sconvolgente, ma nel 2004 quando uscì "The Village", a soli 3 anni dagli attentati dell'11 settembre 2001, era meno riconosciuto. Un altro film che ne parla esplicitamente è il famosissimo "V for Vendetta" (2005, James McTeigue), di un anno successivo ma l'omonimo fumetto di Alan Moore e David Lloyd da cui è tratto è del 1988.

"Kynodontas" in una famiglia è una metafora in piccolo, "V for Vendetta" in un'intera società s'incentra sulla rivoluzione di un singolo, "The Village" in una comunità permette in uno spettro di media ampiezza alcune considerazioni sia generali che individuali. E' su queste seconde che mi ha particolarmente attirato. Se da una parte i motivi per cui i potenti vogliono sottomettere le masse sono, forse superficialmente, da ricondurre alla loro avidità, è meno ovvio capire perché è così facile appunto il sottomettere, su quali caratteristiche comuni degli individui questi espedienti fanno leva. Non è materia su cui possa mettermi a dissertare, mi limito a segnalare l'argomento come motivo di visione del film e a invitare a porre attenzione al fatto che non è un caso, a mio parere, che sia proprio la ragazza cieca a mostrare grande intraprendenza (anche se sentimentalmente motivata). Espediente non solo semplicemente narrativo. Pur evitando i luoghi comuni che vogliono i ciechi particolarmente sensibili a "segnali" che i vedenti spesso trascurano, il fatto stesso di non vedere la pone al riparo dai messaggi visivi, molto utilizzati per terrorizzare, con simbologie di vario genere. Per lei ovviamente, per fare un banale esempio, il tabù del colore rosso non ha senso e ne percepisce la presenza dal terrore che incute negli altri. Alla fine risulterà la meno "cieca" nella sostanza di tutti, e il finale sarà... incompiuto. Io chiudo qua citando José Saramago che nell'incipit del suo capolavoro "Cecità" (c'è anche un ottimo film ad esso ispirato) dice: "Non penso che siamo diventati ciechi. Lo siamo sempre stati. Ciechi che vedono. Persone che possono vedere ma non vedono".

Notevole cast. Al solito bravissimo William Hurt in un'ambigua parte a lui congeniale, mentre la grande Sigourney Weaver si vede e si apprezza per troppo poco tempo dato il ruolo. Joaquin Phoenix lo stimo dal Commodo de "Il gladiatore", dà sempre una forte caratterizzazione ai suoi personaggi. Chi ha però le parti più forti, e le svolgono egregiamente, sono Adrien Brody nei panni del pazzo e soprattutto Bryce Dallas Howard in quelli della ragazza cieca.
Bello, consigliato e meritevole del Partenone.
Robydick

giovedì 21 giugno 2012

American Ninja 2: The Confrontation

6

Eccoci al secondo Guerriero Americano e la qualità, non buonissima, a dire il vero, del primo film peggiora ulteriormente.

L'impianto stavolta è molto più cazzone e scanzonato a partire dallo scenario, un'isola tropicale piena di sole, belle donne e divertimento un po' alla film dell'Estate tipo Una pazza giornata di vacanza o il nostrano Sapore di mare. Il bizzarro è inserire in questo contesto dei ninja vestiti di nero che si aggirano come Aldo, Giovanni e Giacomo in una qualsiasi parodia alla Mai dire tv. Le coreografie dei combattimenti sono ancora più sciatte del precedente film, ad un passo dalle botte e risate dei nostri Terence Hill e Bud Spencer, modello che Michael Dudikoff e Steve James incarnano con piacevole mimetismo di spirito. Non aiuta neppure l'arrangiamento musicale, inascoltabile e delirante, una specie di melodia caraibica, nè gli attori che palesemente (e grottescamente) fingono di pestarsi. Il plot ricorda un po' il posteriore Tartarughe ninja 2: il segreto di Ooze con questi soldati mutati geneticamente e resi guerrieri indistruttibili. Peccato perchè sarebbe bastato poco per fare un film per lo meno divertente: i ninja, pur se ridicoli ogni loro appazione, hanno comunque una buona variante di armi negli scontri.

Il sottostimato Michael Dudikoff se la cava a livello attoriale meglio di tanti suoi colleghi più celebri e il compagno di scazzottate Steve James (quando non parla) è efficace, suo marchio di lotta lo strapparsi la maglietta e combattere a petto nudo, un po' come il Van Damme dei primi tempi o l'erculeo Lou Ferrigno. A non funzionare è purtroppo lo spirito del film, troppo virato verso il parodistico e il cretino, troppo da film costruito all'ultimo minuto per cavalcare il successo del precedente, ma senza sapere cosa raccontare davvero.

Se Sam Firstenberg e i suoi attori volevano godersi una vacanza al mare potevano non camuffare il filmino delle vacanze in un American ninja. Tra le cose più tristi un toreador ninja, capo dei cattivi, la scempiaggine di far morire il padre della co-protagonista e farglielo dimenticare la scena dopo, e delle morti da spanciarsi dalle risate, non ultima quella di un soldato curioso che, sbirciando fuori dalla finestra, si becca una lancia nello stomaco. E non dimentichiamo i dialoghi deliranti o le battute simpatiche che non fanno mai ridere...

Dopo questo capitolo Dudikoff si prende una pausa, ma la serie è destinata a peggiorare con o senza lui.

Keoma

mercoledì 20 giugno 2012

Extremely Loud and Incredibly Close - Molto forte, incredibilmente vicino

28

Un film può essere filosofico senza esserlo per davvero, nel senso che partendo da premesse altre rispetto al messaggio che lo spettatore potrebbe cogliervi, finisce per farsi inconsapevolmente promotore di una riflessione cinematografica, culturale o finanche antropologica indipendente dai suoi contenuti.

È il caso di quest'ultimo lavoro di Stephen Daldry (quello di Billy Elliot e The Reader), la cui chiave di lettura è da ricercarsi forse nei titoli di coda, quando nella semioscurità sudaticcia della sala, i commenti del pubblico si inalberano in una struttura a opinioni corali, dove a un aggettivo specifico ne segue uno di segno opposto, e a una determinata visione delle cose si affianca una congettura ad essa contraria. Proprio in tale ingarbugliata ramificazione di percezioni, capita spesso di imbattersi in un parere curioso, vuoi per la sua banalità, vuoi per la supponente convinzione con cui è pronunciato, ma di sicuro abbastanza affascinante da finire rimasticato tra le ganasce di chi ascolta. Molto forte, incredibilmente vicino è allora divenuta, per quello stesso rigore alchemico che trasmuta, attraverso la peristalsi cerebrale dei giudizi, la merda (filmica) in oro, una pellicola “bella”. Non profonda, interessante, originale, ma soltanto bella. Come se qualcuno, pagando un corrispettivo economico per accedere alla proiezione, fosse messo d'ufficio nelle condizioni di assolvere senza nemmeno vagliare le testimonianze, o viceversa di condannare soltanto per un indiscreto sentito dire. Ho pagato, e quindi ho il diritto economico (leggi potere d'acquisto) di sciorinare tutte le cretinerie che più mi si confanno.

Siamo nel 2012, l'Occidente crasso e opulento crede nelle profezie maya, considera ancora Forrest Gump un capolavoro (di cui Molto forte... ha mutuato lo stesso sceneggiatore, Eric Roth) e spende soldi in neri tempi di crisi per profondersi in encomiabili elogi della spazzatura. Pecunia non olet, si sa. Così come si sa che tutto ciò che è a stelle e strisce, per una qualche imperscrutabile deviazione del senso comune, odora di fresco e pulito nonostante il retrogusto di muffa.

Ma veniamo al pomo della discordia. La versione trentacinque millimetri del romanzo di Jonathan Safran Foer, pubblicato nel 2005, è oscena nel senso etimologico del termine, perché inscena, appunto, tutto ciò che per buona educazione sarebbe opportuno, se non esplicitamente necessario, relegare al dietro le quinte dello spettacolo. E lo fa nel modo più pornografico che ci possa essere, ovvero l'abbuffata sinestetica che, da Baaria a Hugo Cabret, ha ormai fatto da apripista per un sottogenere cinematografico in cui l'esibizione (del meraviglioso come del tragico) coincide con l'espansione delle proprie prerogative estetiche. C'è questo ragazzetto in età prepuberale, Oscar Schell (Thomas Horn) che viene coinvolto dal padre (Tom Hanks) in una bizzarra caccia al tesoro per le vie della città: il genitore dissemina indizi per i parchi pubblici, abbandona tracce invisibili nel legno infradiciato di vecchie altalene, inserisce improvvisate segnaletiche nei posti più reconditi e strani, pur di evidenziare l'esistenza di un ipotetico Sesto Distretto, un quartiere metropolitano affondato nel ventre argilloso dei nuovi complessi residenziali e industriali. Così ogni giorno il ragazzo parte per le sue esplorazioni, monitorando tutte le peculiarità geologiche offerte dalle sporadiche aree verdi della Grande Mela, le curvature urbane, gli intrecci e i viluppi dei piani regolatori che potrebbero nascondere, nei loro immobili ventri di cemento, una moderna Ilion avvoltolata nell'oblio. E alla sera, tornato a casa, vaglia dinnanzi agli occhi attenti del padre le sue scoperte, convinto che lo svelamento dell'enigma è sempre più vicino.

L'ombra lunga dell'undici settembre incombe però sulla altrimenti idilliaca famiglia Schell, e quando il padre muore nel crollo delle torri, Oscar non riesce ad accettarne la dipartita. Scartabellando tra i ricordi del genitore defunto, il giovane s'imbatte in una chiave dimenticata sul fondo di un vaso d'antiquariato: non si sa cosa apra, ma un'unica indicazione, stampigliata a penna sulla busta (il cognome Black), è il fondamentale indizio per un'ulteriore indagine, quella definitiva, che permetterà allo spaurito ragazzo di cogliere il senso di tutto ciò che gli sta capitando. Dev'essere quella la soluzione, che come un fil rouge impercettibile unisce le leggende metropolitane del Sesto Distretto all'attentato di Al-Qaida, la morte del padre alle motivazioni che hanno portato proprio alla sua scomparsa e non a quella di qualcun altro. Ecco che aiutato dall'anziano nonno (Max von Sydow), Oscar rende visita a tutti i Black di New York, sperando che uno di loro gli riveli ciò che quella misteriosa, accattivante chiave è in grado di dischiudere: entra nelle loro case, si sofferma ai capezzali dei malati, porta conforto agli scoraggiati, e soprattutto ne ascolta le frammentarie, sofferenti storie. Da ognuno di loro impara qualcosa, a ognuno lascia qualcosa di sé.

Pur sapendo che la sua ricerca sarà probabilmente inutile, e che forse la chiave non aprirà nulla, il ragazzo vuole credere alle fiabe, ne ha bisogno, come ne ha bisogno l'intera America, che scava in una immaginifica età dell'oro (il giovane protagonista, cappellaccio, zaino in spalla e vettovagliamento da Giovane Marmotta, finisce non a caso per somigliare alla versione MTV di un Tom Sawyer) per ritrovare una ormai compianta innocenza morale. Il cinema statunitense elabora il suo lutto collettivo, pur a distanza di anni dalla tragedia delle Torri Gemelle, ma lo fa seguendo la via più abbordabile e scriteriata, con un'uscita in punta di piedi dal fragore degli aerei (o delle bombe?) per entrare nel mondo favolistico della raffigurazione allegorica. Così, il giovane Oscar cessa di essere un ragazzino spaventato per trasfondersi nell'idea archetipica di un'intera generazione, un surrogato (cinematografico e soprattutto culturale) che fa della sua compiaciuta mitopoiesi l'ultima frontiera della civiltà americana.

Purtroppo quella di Daldry è una cosmogonia urbana tutta di facciata, che parte da un fatto di cronaca, ormai già sedimentato nella storia, per inalberarsi in una disamina chiacchierona e impastata di liquirizia: come sempre, si urla quando si potrebbe sussurrare, si sottolinea ciò che di buona creanza si è in grado di evincere, e si dà corpo immaginifico, plasticamente scenografico, a concetti e suggestioni che qualunque persona dovrebbe soltanto fantasticare. Molto forte... diventa allora, forse senza nemmeno volerlo, uno sbrodolio continuo, un gocciolare caramellosità per boccaloni diabetici, un parlottio adulatorio e lusinghiero, che crea i suoi miti, artificialissimi, lontani anni luce da un humus folcloristico e letterario, per il semplice motivo che l'America di grandi miti non ne ha. Daldry (e tutta la schiera di manieristi à la Méliès) si divide allora tra l'invenzione e il gioco di prestigio, reggendosi in equilibrio instabile tra le intuizioni del primo ambito e le furberie del secondo. Il trucco è evidente, pacchiano, logorroico, e di conseguenza del tutto inaccettabile.

Ormai va di moda essere spielberghiani pressoché su tutto, come se l'imitazione ad libitum del regista di Cincinnati rappresentasse di per sé un pedigree di altissima qualità da sbandierare ad ogni cerimoniale da Oscar, o grazie al quale fare esibizione di una concezione altolocata e al tempo stesso popolare del cinema. L'ha capito Scorsese, che oggi il pubblico è immaturo, vuole sentirsi bambino, essere coccolato e preso per mano, e a quanto pare l'ha capito anche Daldry, che pure con The Hours aveva girato un melodramma abbastanza sofisticato da non cadere nella mediocrità di quasi tutto il recente cinema statunitense. Purtroppo il tentativo di guardare al passato, o di rielaborarlo secondo le direttive concettuali di un modernismo barocco e di tutto comodo, è perso in partenza, in parte perché il classicismo magico, quello di Frank Capra per intenderci, è talmente ben inserito nel suo contesto (un'America veramente ingenua e campagnola) che ogni citazione apparirebbe quantomeno indigesta; e in parte perché qualunque cineasta, nel momento in cui utilizza la scrittura filmica per intavolare un'analisi collettiva sul cinema o la società, in questo caso la società post-undici settembre, non può prescindere dalle più recenti pellicole che hanno già sviscerato e interpretato l'anzidetta tematica. E l'hanno fatto con rabbia, con dolore, con la passione virulenta che l'età adulta sottende. L'America è cresciuta, perché il mondo è cresciuto. Se qualcuno non lo comprende, non resta che ricorrere al vecchio adagio morettiano, mai così urgente come in questo momento di cambiamenti e laceranti ferite: pubblico di merda.
Marco Marchetti