mercoledì 29 febbraio 2012

Suzie Superstar 2 (aka: Traci Superstar)

11

A furor di popolo (più o meno) comincia oggi una rassegna sulla bellissima Traci Lords (Nora Louise Kuzma), colei che portò (quasi) al collasso l'industria pornografica statunitense perchè minorenne ai tempi del grande successo hardistico. Rassegna, come al solito, volutamente schizofrenica che affronterà sia la produzione hard che il cinema "mainstream" cui la giovane Traci si dedicò dopo le indagini condotte dall'FBI nel 1986/87 (ne riparleremo a proposito dell'imprescindibile documentario "X Rated Ambitions: The Traci Lords Story" [2003] di Simon Kerslake) prima prendendo lezioni al LeeStrasberg Theatre Institute e poi passando per le cure del Papa dell'Exploitation Roger Corman, via Jim Winorsky, con il precedentemente affrontato "Not of This Earth" (1988), carriera che prosegue ancora oggi.

"Suzie Superstar 2" è il seguito di un altro hard di successo, "Suzie Superstar" (1983), sempre diretto dallo specialista Gary Graver, qui come Robert McCullum as usual, grande personaggio del cinema esploitativo statunitense che lavorò pure con Orson Welles, i cui protagonisti maschili principali, John Leslie e Ron Jeremy, ritornano nei rispettivi ruoli di Z.W. McCain e Raoul, talent scout operante nel music business californiano il primo e fedele aiutante/autista/consigliere il secondo. Via la bionda Shauna Grant, protagonista del primo episodio, dentro la splendida Traci Lords (il film è infatti conosciuto anche come "Traci Superstar") nel ruolo di Barbara, una giovane cantante di belle speranze che si lega, non solo professionalmente, al fascinoso McCain. Il successo di pubblico è proprio dietro l'angolo quando il magnate Mr. Loducca (Ross Roberts, all'attivo solo tre titoli, i due "Suzie" e"Peeping Tom" [1988] del solito Graver con Nina Hartley e Shanna McCullogh) convince la giovane Barbara, che ormai ha adottato il nome de plume di Suzie Wilson, a firmare con la sua prestigiosa etichetta, lasciando i due poveri Z.W. e Raoul letteralmente a culo nudo. Fino a quando non troveranno una degna sostituta in Tina Hickenlooper (Ginger Lynn Allen), prostituta con velleità canore.

Uno degli hard migliori del periodo, contestualizzato in una situazione produttiva in cui la Golden Age of Porn stava per lasciare spazio all'ondata di video che avrebbe poi sommerso il mercato, girato in 35mm e con un cast di altissimo livello, sia per gli attori, John Leslie uno dei più grandi professionisti del cinema Hard, carriera sterminata e legata a doppio filo a nomi quali Annette Haven, Constance Money, Aunt Peg, protagonista di ottimi hard quali "Overnight Sensation" (1977) di Benjamin/Jarry/Manzini"Obsessed/Anna Obsessed" (1977) di Martin & Martin, Ron Jeremy, che non ha bisogno di alcuna presentazione, e Joey Silvera/Civera, altro grande protagonista del classic porn, senza contare il parterre femminile che può contare su Heather Wayne (la prima scena hard nella doccia con Leslie) e le stelle nascenti dell'hard ottantesco, Ginger Lynn Allen e la stratosferica Traci Lords. Per queste ragioni, la qualità dei cimenti hard è, ovviamente, altissima con le sopracitate attrici a rubare la scena alle pur valenti colleghe e grande sfoggio di tecnica hardistica, specialmente nelle sequenze in cui è protagonista Traci Lords, prima in un rovente lesbo dove "subisce" un cunnilingus da parte della compagna di stanza (la moretta Laurie/Lori Smith, misconosciuta attrice hard con all'attivo oltre novanta titoli), poi vs John Leslie con grande sfoggio del suo paio di tette anti-gravità e soprattutto durante il cimento esplicito con Silvera sulla barca, dove si esibisce in un blow-job e conseguente sixty-nine da lasciare basiti gli intenditori e amanti del genere hard, veramente spettacolare, con scopata finale da tergo sulla prua della nave (altro che Titanic) e gli urli che contraddistinguono le esibizioni di Traci, per i quali divenne particolarmente apprezzata e richiesta dai più famosi addetti ai lavori del settore.

La Lords è una di quelle attrici che catturano irrimediabilmente l'attenzione degli spettatori e delle spettatrici, per via di un fisico che potremmo solo definire da sturbo, senza correre il rischio di diventare molto volgari, e per via di quello sguardo freddo, duro, quasi intimidatorio che riservava ai suoi partners durante le performances hardistiche, quasi guardandoli dall'alto con un sublime senso di superiorità. Tutto il contrario della bionda, minuta Ginger Lynn Allen, con occhioni da cerbiatta che sfoggia un' invidiabile arte nel blow-job (e che si mette a cantare subito dopo l'orgasmo, impressionando Z.W. pure per le sue qualità canore) durante la sequenza che divide con John Leslie, tra le migliori di tutto il metraggio, per cui si può chiaramente intuire il motivo per il quale divenne una delle attrici più attive nell'ambito di genere.

Per il resto Graver conduce con il suo classico stile, alternando momenti comici e sequenze hard, che comunque costituiscono la spina dorsale della pellicola, con i numeri musicali di Suzie/Traci, chiaramente doppiata, anche se negli anni novanta la Lords intraprenderà pure la carriera musicale con il singolo "Control" e l'album "1000 Fires" (1995) lasciando il giusto e doveroso spazio a Leslie e Jeremy, veri protagonisti (Silvera si produce come chitarrista della farlocca band di Suzie Wilson, The Sex Pirates) prima in un partouze nel bosco con quattro-ragazze-quattro (Gina Carrera, Beverly Bliss, Pamela Jennings e Jessica Wylde) in una casupola con letto a castello e poi nelle sequenze hard prefinali, ambientate nel bordello nel deserto di Las Vegas, con Ginger Lynn vs Leslie e April Maye/Collette Marin vs Ron Jeremy, puro hard ottantesco di vecchia scuola con facial finale in primo piano. "Old School" nel vero senso della parola, che gli appassionati apprezzeranno come avranno apprezzato il primo capitolo, per chi scrive leggermente inferiore, ma solo per l'assenza della stupenda Traci Lords, valore aggiunto all'opera di Gary Graver, che ne cura pure la fotografia. Siete avvisati. Dvd della teutonicaHerzog Video, Region 0, Pal, 1.33:1, audio tedesco con il titolo "Dynamite Sex Girls". C'è anche una versione italiana della Overseas Video, ex noleggio.

Quindi, altamente consigliato. Buona visione.
Belushi


martedì 28 febbraio 2012

Café Muller

10

Per chi non la conoscesse, Pina Bausch (27 luglio 1940 – 30 giugno 2009) è considerata, universalmente e senza obiezione possibile, un genio della danza moderna, in particolare come innovatrice e massima esponente del Tanztheater (Teatrodanza) tedesco. Questo spettacolo (e film), accompagnato dalle arie di "The Fairy Queen" e "Dido and Aeneas", opere teatrali di Henry Purcell, lasciò il mondo a bocca aperta e stesso effetto ha prodotto in me a 34 anni di distanza. Se dovessi darne una definizione breve direi che è un Capolavoro d'espressività interiore.

Parlare di sinossi qua è impossibile. Sono solo riuscito a capire, cercando in giro, che Pina è partita da una base autobiografica, i suoi genitori erano proprietari appunto di un bar. Nessuno però sbilancia, o sarebbe meglio dire azzarda, interpretazioni di quanto viene mostrato. Pina, indosso solo slip e una vestaglia, entra e scorre il bar lungo una parete, porge le lunghe braccia. E' un ambiente buio, la luce naturale compare da una grande porta a vetri che separa da un'altra girevole. Compare una seconda ballerina, s-vestita come lei e poi un giovane che con questa inscenerà una serie di abbracci, ricomposti e in realtà "spezzati" da un altro. Momenti di pazzia, i giovani a infrangersi sulle sedie con altri che queste le allontanano come a proteggerli. Una sola donna è vestita e colorata. Ci sono anche altre figure, tra le quali un inquietante uomo con cappotto nero molto spallato, altre strane ripetizioni di una coppia che si scaraventa  rumorosamente e alternativamente contro il muro e infine un "passaggio di consegne": la donna colorata passa i suoi colori a Pina. Non è una sintesi, solo quale immagine di ciò a cui si assiste.

Una visione notturna del bar per un'espressività ermetica. I movimenti dei corpi e il loro interagire con l'arredamento pare non pilotato da logiche. La sensazione è che i danzatori esprimano, liberandolo, il proprio inconscio compiendo così gesti la cui simbologia proietta sulla visione l'inconscio stesso di chi guarda. Ho "giocato" con Pina, con tutto quello che mi faceva venire in mente mentre la guardavo. All'inizio ho visto un'anima in cerca di amore, che si apriva, un po' timidamente. Penso a lei e penso al dramma del popolo tedesco uscito culturalmente distrutto dalla guerra. Il bar è un luogo dove avvengono di giorno incontri, di ricostruzione del tessuto sociale, ma quelle sedie sono troppe, non c'è spazio per liberare l'ego. Il bisogno di amore lo puoi reprimere, non cancellare, l'umanità non si cancella. Ecco che i giovani si ribellano a chi vorrebbe codificare loro il modo di amarsi e le lotte sono sempre incessanti, quelle interiori più di quelle esteriori tendono a soccombere e quindi poi una disperazione. La giovane si spoglia, un disperato gesto per chiedere aiuto, chi cerca di aiutare è impotente. Il pianto libera, recupera il bambino, il quale però come tutti i bambini è anche dirompente, violentemente reagisce ai divieti. La donna colorata, madre, assiste crescere la figlia e un popolo figlio. C'è anche un padre, a malapena lo noti, convenzionale, amorevole, sostanzialmente inutile. Il nazismo incombe come passato, di uomini repressi che han represso gli altri volendo uccidere sé stessi e ancora propongono la loro soluzione come la più semplice, così come per negare la propria omosessualità, latente e stupidamente temuta, ci si accanisce sugli omosessuali. In questo mare di sofferenza riemerge la grazia di movimenti circolari, lievi. Pina si accarezza, si abbraccia e vuole abbracciare tutti, allora Madre le passa lo scettro, che faccia risorgere questo popolo, che possa trasformare la vergogna in virtù e che la virtù non sia un accumulo di tabù, che non rimuova ma comprenda per non ripetere, perché rimuovere vuol dire comprimere ulteriormente l'inconscio fino a quando una falla, in quella pressione, causerà una nuova eruzione.

Nulla, ma proprio nulla di quello che ho pensato, è da attribuire a Pina Baush. Gli scossoni che ho provato, accelerazioni cardiache, stupori, le lacrime finali... quelli sì invece, solo che non so come descriverli, posso solo dire che mi sono capitati ma il vero perché è nascosto là dove non arrivo col ragionamento.

Capolavoro sta fin stretto a un'opera del genere che giustifica una vita. Se l'avessi avuta davanti sarei corso ad abbracciarla, come ho letto ha fatto Federico Fellini quando ne ha avuto la possibilità e lo capisco. So che Wim Wenders le ha dedicato un film documentario che mi dicono essere splendido e lo guarderò prestissimo.

Guardate questi 40' di emozione senza indugi! Ignorate ogni interpretazione compresa la mia. Se lo riguarderò - e accadrà sicuramente tra un po' di tempo - altre opinioni, letture, studi, soprattutto esperienze di vita, contribuiranno ad apprezzarlo ulteriormente.
Robydick

lunedì 27 febbraio 2012

Vengeance Is Mine (aka: Sunday in the country)- La Giustizia privata di un cittadino onesto

12

Vengeance Is Mine” (conosciuto anche con il titolo canadese, “Sunday in the country”) proviene da una filiera di titoli di film della cosìddetta Canuexploitation realizzati in Canada grazie ad un regime di detassazione fiscale sulla produzione dei nuovi film, nata nei primi anni '70. Questo “La Giustizia privata di un cittadino onesto”, secondo il titolo dell'uscita cinematografica italiana nel 1974, diretto da John Trent, è a rivederlo tutt'ora, forse uno dei migliori e più riusciti esempi di film sull'abusato e ricchissimo tema del “vigilantismo”, mai realizzati. Un film intelligente sociologicamente e profondamente drammatico, che pone molte problematiche, quasi niente a che spartire con il filone del vigilantismo ultra-violento che aveva inondato gli schermi cinematografici appunto negli anni '70. Il film ci presenta Ernest Borgnine, eccezionalmente bravo, come un pio contadino il quale fortuitamente cattura per poi torturarli, tre rapinatori di banca che durante la fuga capitano casualmente nella sua fattoria, e i quali inizialmente prendono in ostaggio la sua famiglia. Come nei simili exploitation canadesi di quel periodo dai titoli famosi tipo“Death weekend”(Un lungo week-end di terrore) ('76) di William Fruet, (per non parlare di “Rituals-Il Trekking della morte” ['77] di Peter Carter, “Shoot- Voglia di uccidere” ['76] di Harvey Hart,e “Deadly Harvest” ['77]), “Vengeance Is Mine” vanta tutti gli ingredienti tipici di un thriller rurale canadese: un solitario, la violenza all'aperto senza compromessi la quale provoca una risposta dura e cruda, la sopravvivenza, oltre ad una certa dose di esistenzialismo e una parte finale raccapricciante,che lascia tutti i personaggi principali o morti, o sopravvissuti a malapena.

Accanto ad altri film realizzati dai “cugini” americani, Vengeance Is Mine” venne all'epoca abbastanza biasimato e bistrattato dai critici canadesi per tre motivi: per aver assecondato i gusti del mercato americano incassando sui gusti di base del pubblico dei drive-in, restituendo in questo modo molti dollari delle tassazioni sul cinema tramite la CFDC. Particolarmente critica è stata la recensione schiacciante di uno dei più celebri recensori cazzoni canadesi, Martin Knelman, nel suo libro “Adverts Where We Came In”, nel quale si è scagliato contro il film (a fianco de “Il Demone sotto la pelle” ['76] [Shivers]di David Cronenberg e “Black Christmas-Un Natale rosso sangue” ['76]di Bob Clark, che tra l'altro sono eccezionali), per i soliti eccessi. "Si esce calcolando quanti siano stati i più bassi impulsi del pubblico che siano stati sfruttati” egli scrive, sostenendo che Straw Dogs”(Cane di paglia) ('71)di Sam Peckinpah, rechi al suo confronto una certa sottigliezza di sguardo."Il film di Peckinpah, il quale è tuttavia ripugnante (!), ha avuto dietro di esso l'abilità e il talento, per cui tutto ciò che succede sullo schermo è provenuto e ben padroneggiato dalla visione del regista, e non per assecondare il gusto di un certo pubblico." Non è così con questo film”, che Knelman sente come "non solo odioso, ma falso." Un altro critico fellone Gerald Pratley lo deride come un "melodramma sanguinoso e artificioso", marcando il film come l'inizio di un "periodo pseudo-americano (cioè statunitense)” per il cinema di genere canadese, nel momento in cui i talenti di casa (principalmente provenienti da Toronto) si sarebbero accodati agli attori e alle impostazioni stilistiche a sud del 49 ° parallelo, il confine con gli Stati uniti. Mark Miller, scrivendo in Canada Cinema, ha espresso un'opinione simile, sostenendo che "Se la violenza genera violenza, come (John) Trent si sforzi tanto e tanto si entusiasmi per le suggestioni di questo film è, in un certo senso, una parte dello stesso processo."

Ulteriori aggravanti secondo i critici, i produttori vollero apparente sfruttare una connessione con il film di Bloody Sam, “Straw Dogs”, nella sua campagna pubblicitaria (”Dopo “Cane di paglia”, lo schermo esplode di un'altra giusta vendetta!” ). Questo ha soltanto contribuito a far percepire e sigillare il film marchiandolo come apparentemente solo un altro derivato Canuck con manie di grandezza, un rip-off buono solo per le sue velleità al box-office, da vendere subito dopo alle TV via cavo di tarda notte e al noleggio delle videocassette. Che è un peccato, perché proprio per tutto il film, “Vengeance is Mine” rimane invece un avvincente e ben fatto racconto di suspence degno di rivalutazione. Sottile non è, ma è anche un film che possiede egregiamente una sua vera e propria convinzione, nell'atto d'accusa che lancia a quelli che ci si aspetterebbe essere i presupposti di questo filone popolare, e comunemente associati all'etica dell'occhio per occhio, quando invece la pellicola rivela una vera e propria sfida al machismo imperante nei film americani del genere, applicandovi intelligentemente una netta distinzione tipicamente canadese, e anche se in un film che si poteva pensare come destinato quasi esclusivamente ai drive-in, ma senza alcunchè dell'etichetta abusata di questo tipo di pellicole, ed anzi con una dignità tale, che non vi si può non parteggiarvi.
La nostra storia inizia in una cittadina americana rurale abbastanza anonima dal nome di Locust Hill. Siamo introdotti alla figura di Adam Smith (Ernest Borgnine), un virtuoso contadino dedito al suo raccolto, che vive quasi da solo nella sua casa colonica, con a fianco soltanto la nipote Lucy fanciulla in fiore, (Hollis McLaren) e il bracciante Luke (Vladimir Valenta). Interpretato con un gusto appropriato da Borgnine, Adam cammina in una linea sottile tra il devoto, gran lavoratore e patriarcale, fanatico religioso sempre in conflitto con la “crusca del diavolo”, che egli vede ovunque, ma anche con più di un'eccesso dovuto all'ira, nel suo armadio personale. Due aspetti di Adam sono presto rivelati. In primo luogo, oltre ad essere un vedovo, è anche ossessionato dall'ombra di sua figlia (e defunta madre di Lucy), che ha lasciato la casa per morire in giovane età. "Forse la sua morte era la cosa migliore che poteva capitarli ", addirittura pensa, sospirando. "Morire è un bene per alcune persone se per loro la vita non vale la pena di essere vissuta'". In secondo luogo, sta diventando sempre più agitato circa lo stato della sua nazione. Dopo essere sceso a partecipare a una locale riunione di agricoli, ha amaramente lamentato con sua nipote, che con la terra che non basta più per pagare sé stessa e i politici locali che non vogliono dare una mano, il mondo sta diventando troppo brutto per essere un luogo sopportabile. "Io vi dico," ringhia, " Che questo paese sta andando diritto alla dannazione, nient'altro più." Lucy fa del suo meglio per tollerare l' amarezza di fondo del nonno e il conservatorismo folkloristico che gli dardeggia come un grano di sale nel cervello. Ma ahilei, anch'essa sarà impreparata per le ire che presto scateneranno in Adam una rabbia di Dio.
Il catalizzatore della rabbia più profonda di Adam si presenta sotto forma di tre viscidi criminali-rapinatori provenienti dalla città. Dinelli (Louis Zorich), Ackerman (Cec Linder) e lo psicotico, ma anche abbastanza idiota Leroy (Michael J. Pollard, come al solito semplicemente portentoso), tutti e tre grandi facce e caratteristi del cinema americano anni '70. In fuga dopo una rapina in banca, e un omicidio, i fuggitivi si ritrovano per sfuggire alle autorità, a piedi nel cortile di Adam . Ma Adam, dopo essere stato precedentemente informato dallo sceriffo (Al Waxman) e seguendo i suoi istinti, ha preparato e impiantato una trappola per il trio, se mai passerà dalla sua fattoria. E così è. Prima spara al capo dei tre Dinelli, e prende Leroy e Ackerman prigionieri. Per il disgusto di Lucy, Adam non li consegna immediatamente alla polizia, decidendo di infliggere ai suoi ospiti un po' della propria “giustizia fatta in casa”. "Ho sempre protetto la mia famiglia e la mia proprietà." dichiara, e "Non ho intenzione di fermarmi ora."
Dopo aver sadicamente umiliato i due criminali sopravvissuti con le loro proprie armi da fuoco su un mucchio di letame, Adam li appende entrambi in cantina, appesi per il collo. Infuriata, Lucy cerca di scappare e informare le autorità, solo per essere fermata da Luke. Impossibilitato a giustificare ai suoi parenti la presunta saggezza delle sue azioni, Adam non capisce neppure che la sua “piccola lezione” debba a questo punto terminare. Quando, per umanità, Lucy cerca di offrire un bicchiere d'acqua fredda per i prigionieri quasi disidratati, Leroy sfugge per un attimo e cerca di violentare la povera ragazza. Adam, invece, si prende del tempo prima di intervenire, pensando così di dimostrare alla sua nipotina quanto questi banditi si meritino ciò che egli sta facendo passare loro. Ma la lezione si ritorce contro Adam, il quale ne viene fuori come un grande manipolatore, rivelando veramente a Lucy perché sua madre se ne sia presto andata via di casa . Questa svolta nella sua nipote alla fine lo costringe a compiere una decisione che sarà una fuga in avanti sventurata, la seconda e ultima.
Ora, Adam decide che si può anche fare un altro piccolo gioco. Egli libera i due fuggitivi, lancia una moneta, e gli concede di correre verso il camion della fattoria e fuggire, uno solo dei due potrà però farcela, in quanto avranno scatenati ad inseguirli dei cani feroci a guardia della proprietà. Nonostante ciò, Ackerman riesce ad arrivare oltre i cani da guardia del contadino. Nel climax sanguinario del film, il teppista è però poi lacerato a brandelli e sbranato nel suo tentativo di fuga, mentre la caduta di Adam dalla grazia di Lucy e Luke è completa: la polizia finalmente arriva a prendere in custodia l'istericamente ridacchiante Leroy, che adesso guarda Adam come se sarà infatti lui adesso, l'incriminato per un duplice omicidio, e Lucy e Luke, le uniche due persone a cui egli fosse veramente affezionato, se ne vanno dalla fattoria e lo abbandonano disgustati.

Ma ancora non è finita.
Vengeance is Mine” è un diamante grezzo, ma come in ogni pietra di merito, ci sono alcuni difetti veri e propri. Per esempio, i temi rurali, che Trent e i suoi co-sceneggiatori cercano di incapsulare sono troppo unidimensionali, tendenti a volte ad una semplicità un po' sguaiata. In questo non è molto aiutato, quando Borgnine pur nella sua eccellente interpretazione, calca occasionalmente il personaggio di Adam come uno zotico campagnolo che non ha mai lasciato il suo cortile, con la sua mentalità chiusa in un guscio ed i suoi aforismi sempre incentrati sul granoturco. Inoltre, il film manca di un come noi diremmo centrato “regionalismo”, il quale avrebbe potuto essere a sua volta imbevuto di un senso più genuino di tempo e luogo, accentuando così le tensioni sottostanti tra Adam e il mondo oltre la sua comunità agricola d'appartenenza, mondo che non dovrebbe avere una visione datagli un po' evidentemente da persone che provengono dal cuore di Hollywood. In aggiunta a questo è un po' fastidiosa la fredda musica delle canzoni campagnole e western di Paul Hoffert, guadagnandoci di più grazie alla sovraeccitata e tesa musica di William McCauley, che si gonfia però nei momenti più inopportuni. Durante l'incontro l'amore di Lucy con il fidanzato Eddie, la musica diventa più nauseante della carneficina del film.

Sebbene il dialogo dello script a volte vacilli, il film è aiutato dalle buone interpretazioni di un solido cast, e dalla fotografia illuminata dal sole di Marc Champion, con la quale viene contrapposta la quiete luminosa della campagna alla carneficina sullo schermo. A dispetto di tanto in tanto di un po' di “over-acting” nella parte di bifolco del paese, Borgnine è come detto meravigliosamente impegnato in uno dei suoi migliori ruoli post-”Marty”. La sua testa grande come una zucca, gli occhi piccoli e luccicanti, le gigantesche sopracciglia nere e il suo sorriso dai larghi e grossi dentoni, ne possono fare un uomo sia benevolo che malevolo. La sua presenza è completata da un grande Michael J. Pollard, il semi-ritardato Leroy, dalla risatina maniacale. Con i suoi capelli unti, il viso rincalcato, l'enorme naso da maiale, l'animalesco, selvaggio e trasandato Pollard è una gioia maligna dall'inizio alla fine, e le cui buffonate da eccitato pazzoide possono dar luogo ad ogni sorta di reazioni. Come la sua presenza di spontaneo depravato, diventa e molto, un distintivo stesso del film e grazie soprattutto al quale, almeno io, l'ho sempre avuto così ben impresso nella memoria, offrendo naturalmente il contraltare di Adam, e infondendo al loro confronto finale un tono quasi ''shakespeariano''.
Vengeance is Mine” colpisce anche per il suo passo, soprattutto quando si attacca alle nude ossa che sono la base stessa dell'exploitation.
Anche se la violenza, per tutto l'impatto che può raggiungere nel film, è mite rispetto a certi viscerali salassi contemporanei, il film merita e molto un'attenzione e una stima seria, ben lontana da certe “arlecchinate” di ritorno compiute con smodate e livellanti riscoperte. Questo è un film importante e purtroppo abbastanza misconosciuto se non ai veri cultori, ma interessante anche per ritornare agli atteggiamenti contrastanti verso gli uomini e la violenza portati sullo schermo negli anni '70. L'assalto del cinema ultraviolento dalla fine degli anni '60 alla metà degli anni '70 era in gran parte improntato a personaggi quasi esclusivamente maschili. Di solito l'eroe anti-eroe opponeva il caos come mezzo sia per opporsi al sistema che per far valere il peculiare trionfo della propria volontà, non più ostacolata dalla Hays o altri codici obsoleti di censura e d'onore. Billy Jack, il tenente Frank Bullitt, Jimmy “Popeye” Doyle, “Dirty” Harry Calla-g-han, lo sceriffo Buford Pusser, il detective John Shaft, Travis Bickle, Alex e i suoi Drughi, ecc.. erano adesso liberi di giurare fedeltà al distintivo, come anche di fornicare, di mutilare, e bastonare qualcuno. La corruzione delle forze di polizia, del governo civile, e della società in generale ha fatto sì che divenisse una necessità fare secchi da sé i bastardi, così come essa era divenuta una forma di liberazione maschile. I critici, come la famosa femminista Pauline Kael hanno deplorato questa posizione (più di una volta ci si riferiva ad essa come "fascista"), ma se anche l'atteggiamento fosse stato cinico, ha comunque aperto un enorme potenziale filmico catarticamente anti-establishment, il quale ha fatto sì che cineticamente si schizzasse molto sangue.

Ovviamente, il lavoro di Peckinpah era il sinonimo stesso di questo spirito secondo alcuni “machista”, e mentre la regia di John Trent certamente potrà mancare della forza estetica di Peckinpah, sa bene però come si distribuisce la violenza cinematografica, energicamente e rapidamente. Scene come quella dell'assalto a Lucy, o dei due passanti innocenti uccisi dai banditi hanno un tratto, una loro bruciante brutalità, simile a quella di un toro che carica in un negozio di porcellane. Esaminando i due film faccia a faccia , però,Vengeance” si pone come antitesi a tutto ciò che “Straw Dogs” e il “machismo cinematografico” degli anni '70, rappresentava.
Nella sua critica aVengeance is Mine”, Mark Miller in ultima analisi adduce erroneamente ai suoi creatori come im personaggio di Adam presenti un fianco scoperto, la sua scrittura e descrizione: "(Adam) non offre alcuna ammissione o rimorso. Né il film suggerisce che avrebbe dovuto: Sono chiaramente scritte a suo favore le sue razionalizzazioni. Le quali a loro volta, parlano per la morale semplicistica del film." In realtà, chiunque guardi il film sarebbe altrettanto incline a trarre la conclusione opposta. E 'abbastanza chiaro che Adam sta discendendo su un piano morale appena po' meglio di quello dei banditi che egli sta torturando. Eppure non si tratta solo del marchio di auto-amministrazione della giustizia da parte di Adam che lo spinge giù per un pendio così scivoloso. Come tanti anti-eroi, egli sta veramente utilizzando sia Leroy che Ackerman per sfogare la sua rabbia contro il mondo esterno, un mondo che ha rivendicato la sua unica figlia e che lo ha tradito ad ogni occasione. Ciò diventa più evidente nella sua condiscendenza verso Lucy, che si sviluppa inavvertitamente ma volutamente come vero e proprio ancoraggio morale del film. Restituita con accattivante sensibilità dalla McLaren (meglio conosciuta per la sua parte come Liza in “Outrageous!” ['77] di Richard Benner), Lucy funge inizialmente da intermediario tra Adam e la comunità circostante, quindi ancora una consenziente partecipante della società circostante che Adam tanto disdegna (lei è, dopo tutto, una studentessa di college). Con l'arrivo dei rapinatori, Lucy diventa non solo la voce della ragione che Adam non ascolta, ma purtroppo, la vittima involontaria della sua veemenza. Nessuna scena dimostra meglio questo, rispetto a quando Lucy infine fugge, con Eddie nel suo furgone, portando Adam a puntare addirittura momentaneamente la propria pistola contro di loro mentre stanno fuggendo. Povero Adam. Ancora una volta, ha perso i suoi unici parenti per il mondo che è la fuori, oltre alle recinzioni della sua fattoria.
In “Straw Dogs”, l'accademico e pacifico David (Dustin Hoffman, strabiliante) trascorre la maggior parte del confronto in atto nel film, evitando i locali teppisti di sesso maschile. Adam, invece, è fin da subito pronto per il confronto sapendo già da una posizione di destra, dove esso lo potrà condurre. David, verso la fine, prende la bellissima decisione definitiva di prendere finalmente una posizione, proteggendo lo scemo del villaggio locale, Niles (David Warner, a detta di molti da sempre il mio sosia, ben quattro film con Bloody Sam, grandissimo e qui in uno dei suoi tanti ruoli più famosi, e migliori) dalla folla di bulani all'esterno che vorrebbe linciarlo. La sua semplice logica del "Questa è casa mia" è la stessa visione alla quale aderisce anche Adam. Sia David che Adam sono dello stesso condiscendente parere verso l'unica donna in mezzo a loro, sia ammonendo il gentil sesso di andare al piano di sopra e di smettere di preoccuparsi, lasciando agli uomini di prendersi cura dell'”affare”. Ma qui è dove finiscono le somiglianze. “Straw Dogs” è chiaramente dalla parte di David, come lui stesso afferma,sua moglie è vile, oltre a essere una discreta zoccola, anche se più potenziale che altro (Susan George), quando ella cerca di acconsentire alla folla di bifolchi all''esterno di entrare in casa a prendersi Niles. Ma con”Vengeance”, come già notato e fatto notare, è Lucy che ha la moralità più alta, rifiutando di arrendersi al nonno, e fronteggiando sempre in un modo o nell'altro, la sua concezione e il suo stile di “giustizia”.

Infine, vi è la differenza di tono finale fissato dai finali dei due film. C'è sempre stato un certo dibattito sul fatto che in “Cane di paglia” David perda la sua bussola morale, dopo aver fatto della propria casa un macello degli stronzi del paese, ma è d'altronde il luogo nel quale è evidente che ha preso nuovamente piede la sua virilità. Non più rannicchiato di fronte al mondo, è lui ora in piedi e ben preminente in altezza rispetto a tutti gli altri che gli si credevano ben più forti. Questo non può certo essere trovato in “Vengeance is Mine”. Dopo essere stato preso in custodia, Leroy maniaco ma anche quasi demoniaco, riesce ad avere la meglio sugli agenti uccidendoli, blocca il veicolo della polizia incidentandolo, e tiratosi fuori barcollante, torna alla fattoria di Adam. Ancora ammanettato e ancora tenendo la pistola dello sceriffo, ritorna alla fattoria gridando ad Adam di uscire e affrontarlo. Scoraggiato, Adam sta accasciandosi nella più completa noncuranza prima che il suo ex ostaggio arrivi di ritorno dalla strada che porta al paese, allora egli esce fuori, il fucile tenuto mollemente al suo fianco, come se preparato a prendersi la sua giusta ricompensa. Quello che esattamente succeda dopo è un po' ambiguo, e proprio per questo splendido, e memorabile. La scena è incorniciata in modo che possiamo vedere solo Leroy che lo tiene a tiro, per poi subito dopo sentire cadere la sua arma, senza farci capire se sia la sua pistola che ha fallito o se Adam ha veramente sparato con il fucile. Ma uno splendido piano finale ravvicianto ci mostra Adam ancora sulle sue gambe, da solo, a contemplare con la faccia rassegnata ma anche molto amareggiata, i frutti delle sue azioni. Il punto è che gli uomini impersonati dai due personaggi, infatti, sono ovviamente entrambi specularmente psicotici: uno depravato, l'altro ipocrita. Entrambi sono stati trattati con la loro giusta ricompensa: uno con la morte, l'altro con i peggiori rimorsi e l'isolamento affettivo. Come Re Lear, Adam è stato dunque punito per il suo travisato e patologico orgoglio maschile, abbandonato da quelli che amava, con solo l'altro pazzoide (anche se morto) a tenergli compagnia. Le vigne dei frutti dell'ira, alla fine hanno prodotto un vino veramente molto amaro.

E questo finale è stato intenzionale, e così tipicamente canadese. Un film americano avrebbe finito per avallare Adam, in cima a tutto, da solo, ma indomito, ancora un modello per il pubblico. “Vengeance is Mine” fa coraggiosamente l'esatto contrario, giudicando e mostrandoci il vigilante e uomo forte della casa come oramai abbandonato, e svuotato, riempito solamente dai rimpianti e dalle amarezze. In qualche modo, e forse neanche voluto dai produttori, il film diventa una critica Canuck delle zone rurali più chiuse dell'America, ipocrite e in definitiva sempre auto-indugenti, così come una dissezione delle ambiguità che circondano la moralità dell'occhio-per-occhio. O come iscrisse una volta Dennis Valdron in un compendiale approccio al cinema canadese di genere degli anni '70, scritto anni fa in occasione di una retrospettiva al Festival di Toronto, "Questa ambiguità può rappresentare un approccio decisamente canadese: Un rifiuto o una riluttanza a credere che una calza o un passamontagana bene aderente alla mascella risolva tutti i problemi del mondo" E 'questo approccio che dà a Vengeance is Mine” la sua statura. Come esempio della lunga e fiorente progenitura dell'industria cinematografica Canadese di quel periodo, a lungo esclusa dagli annali di quello che era considerato a livello nazionale corretto da inserire in una visibilità più internazionale, non è niente di cui vergognarsi, anzi.

Questo è stato il film finale della Releasing Cinerama, mitica casa distributiva canadese di cinema indipendente e B-Movies anni'70

Napoleone Wilson

domenica 26 febbraio 2012

Mad Monster Party?

7

Capolavoro targato Rankin/Bass ancora in grado di lasciare a bocca aperta gli spettatori ma, soprattutto, gli amanti della stop motion. "All Monsters Together!", sembra quasi di trovarsi in un film Universal degli anni 40, quelli diErle C. Kenton tanto per intenderci, solamente che da queste parti tutti i mostri sono animati a passo uno e non disdegnano la danza e i bagordi.

La Rankin/Bass Production Inc. (o Rankin/Bass Animated Entertainment) fondata da Arthur Rankin Jr. e Jules Bass nel 1960 conobbe grande successo di pubblico con i suoi special televisivi (un titolo su tutti,"Rudolph The Red-Nosed Reindeer" [1964]) improntati in massima parte sull' Animagic, tecnica di animazione in stop motion che divenne un vero e proprio marchio di fabbrica della casa di produzione. Nel 1966 aRankin e Bass venne l'idea di imbastire un progetto con protagonisti tutti i mostri più famosi dell'industria culturale, piazzando nel bel mezzo della festa proprio Lui, il grande Boris Karloff/William Henry Pratt, a dare"voce", naturalmente, al Barone Boris Von Frankenstein.

Il buon Barone, dopo aver inventato un composto in grado di distruggere la materia (durante il bellissimo incipit lo inietta in un corvo che automaticamente si tramuta in una specie di ordigno atomico), decide di andare in pensione e di lasciare la baracca in mano al nipote Felix Flankin, maldestro e timidissimo tuttofare in un drugstore, che viene dunque invitato ad un prestigioso ed esclusivo party al quale, come da copione, saranno invitati tutti i mostri degni di tale nome, quindi Dracula, L'Uomo Lupo, Il Gobbo di Notre-Dame, L'Uomo Invisibile, Il Mostro della Laguna Nera, La Mummia, Jekyll&Hyde e King Kong, accreditato come "It" per problemi di copyright, senza contare l'allegra brigata del Barone, comprendente il Mostro di Frankenstein, la cariatide Monster Mate(doppiata da Phyllis Diller), la bomba sexy Francesca (Gale Garnett) e Yetch, il maggiordono/schiavo del Barone disegnato e plasmato sulle sembianze di Peter Lorre (doppiato dal poliedrico Allan Swift, autore di numerose performances vocali nel film in questione). Naturalmente il Conte Dracula, sedotto dalla rossa Francesca, assistente del Barone, tenterà di mettere fuori gioco il povero Felix, fino al pirotecnico finale.

Bellissimo, cultissimo, geniale, questo "Mad Monster Party?" è pietra preziosa da conservare e ammirare senza nessun senso di colpa o di "perdita di tempo", per via di una realizzazione tecnica per molti versi straordinaria (le produzioni Rankin/Bass si avvalevano del genio dello stop animator Tadahito Mochinaga [1919-1999], un pioniere di questa tecnica), una cura dei dettagli maniacale (strepitosi tutti i mostri, la riproduzione del castello, i numeri musicali, frutto di un lavoro certosino da parte degli animatori) e un tono da spoof in stile Abbot eCostello che non stona con il citazionismo impossibile da evitare visto l'argomento trattato. Musical, horror, commedia, la sceneggiatura di Len Korobkin, supervisionata dal creatore di Mad, Harvey Kurtzman, non si fa mancare nulla e male non fa, perchè il risultato è realmente spettacolare, con grandi momenti quali il già citato incipit, nostalgica e riuscitissima citazione/parodia dei film Universal di James Whale sul Mostro diFrankenstein, il viaggio in nave con il capitano e il suo secondo grandi spalle comiche, l'arrivo al castello dei mostri, il party che dà il titolo al film e il finale con l'arrivo di King Kong/It che un amante/appassionato del genere semplicemente non può non apprezzare, nonostante qualche lungaggine e prolissità di troppo, specie nella seconda parte.

Questioni di lana caprina, comunque, perchè vedere Karloff e Lorre ancora insieme, seppur ricreati virtualmente in plastilina (Lorre scomparve nel 1964, Karloff morirà nel 1969) come ne "I maghi del Terrore/The Raven" (1963) di Roger Corman e "Il Clan del Terrore/The Comedy of Terrors" (1964) di Jacques Tourneur (manca solo Vincent Price all'appello) è sempre esperienza inebriante per chi si è ubriacato con l'horror classico. Per il resto, beh, quando in un film di animazione viene scelto Jack Davis della EC Comics, altro genio, come character designer, si può capire subito la portata dell'opera, che ve lo dico a fare, anche se il film va visto e toccato in prima persona, le parole (almeno le mie) non rendono giustizia al parto Rankin/Bass, piccolo classico misconosciuto che nell'ultimo decennio ha goduto di una riscoperta in digitale grazie alle versioni 2003 e 2005 dell'Anchor Bay e quella definitiva della Lions Gate del 2009 (con extra e interviste ai realizzatori) con una qualità video superiore a quella delle vhs d'epoca (la Embassy Pictures, casa di produzione del film stesso ne curò un'edizione), derivanti da un 16mm non proprio impeccabile, grazie al ritrovamento da parte della Sony Pictures Television di un print in 35mm restitutivo dei colori originari. Il film conosce un seguito, "Mad Mad Mad Monsters" per la serie "The ABC Saturday Superstar Movie" trasmesso il 23 settembre 1972, che abbandona la stop motion per la cel animation, molto bello, seppur minore, uscito pure in Dvd per la Classic Media. Consigliatissimi, tutti e due. Grande colonna sonora, mai edita su qualsivoglia supporto audio fino al 1998 con Ethel Ennis che canta il pezzo d'apertura, "Mad Monster Party", appunto. Chissà cosa ne avrebbe tirato fuori il vecchio Gerry Damiano, autore nei seventies di una versione hard dei Muppets, "Let My Puppets Come" (1976) titolo che dice tutto quello che c'è bisogno di sapere.
Vabbè. Buona visione.

Belushi

sabato 25 febbraio 2012

Flandres

0

L'età inquieta
. L'umanità. Flandres. Tre schegge di un cinema che non è cinema, ma un tessuto amorfo in costante mutazione e forse nemmeno quello. Tre visioni culturalmente assonanti, la prima che determina la seconda, la seconda che presuppone la terza, e l'ultima che ne sintetizza gli opposti. Vederne una significa non vedere nulla, vederle tutte significa vedere tutto. Nel trittico, un unico comune denominatore: Bruno Dumont, che con questo suo quarto lungometraggio vince (meritatamente) il Gran Premio della Giuria Cannes 2006, costituendo una filmografia mai veramente completata, in cui ogni tassello è propedeutico al successivo e la cui composizione si rivela puntualmente maggiore delle sue parti.

Sì, perché il regista francese, pur mantenendosi fedele a un formalismo metafisico, dechirichiano in alcuni tratti, antonioniano in altri, ha di fatto ricostruito lo stesso film, girando, con accentuato amore per il paradosso, versioni completamente diverse della sua opera prima. Come se, non soddisfatto a sufficienza, avesse sentito il bisogno di riscrivere la medesima pellicola, rimaneggiandola così tanto da renderla altra rispetto a se stessa, diversa da quanto la sua mano sicura aveva in principio diretto.

Allora che cos'è Flandres, e quindi, per compensatoria sineddoche, che cos'è l'intero cinema di Dumont? La risposta, a volerne trovare una, è racchiusa nella domanda, perché come L'umanità era un film sull'umanità, e quindi sul bene e sul male, sulla colpa e sulla redenzione, Flandres è un film che si riassume in ciò che il suo titolo, tautologicamente, esibisce: le Fiandre, il paesaggio fiammingo che riempie di splendore e desolazione buona parte dei suoi lavori, i campi lunghissimi su questo cielo piovigginoso, fatto di nuvole plumbee, colline verdeggianti in attesa di un temporale che non verrà mai. Flandres non ha una narrazione, o se ce l'ha è talmente minimale da confondersi con le sue immagini; e anche quando la sua impostazione, a uno sguardo disattento o superficiale, sembra palleggiarsi tra gli estremi del social drama e quelli dei contes moraux, questi sì dumontianissimi, nessuna delle sue storie senza storia cade mai nella retorica (politica, sociale) o nell'allegoria gratuita. No, è piuttosto il simbolismo a dettare le regole, a impregnare l'aria elettrica di primavera dei suoi campi incolti, a bilanciare i suoi ineluttabili cicli fino a raggiungere un perfetto equilibrio tra stile e contenuto, organicità ed essenza. Flandres è allora e innanzitutto uno stato d'animo, col quale nasci e insieme al quale muori. È amore e bellezza, dolore e passione, natura e cultura che si scontrano (e convivono con altrettanto contraddittoria inevitabilità) in un mondo dove la biologia determina quanto la spiritualità rinnega, e dove la ricerca di un dio è in fin dei conti subordinata alla presenza del male.

Eppure Flandres cambia, costantemente e impercettibilmente, fino a diventare qualcos'altro rispetto a L'età inquieta, fino a integrare, come complemento speculare e simmetrico, il discorso estetico perseguito ne L'umanità. C'è André (Samuel Boidin), un giovane contadino che, in questo villaggio sperduto nel mezzo della campagna, si divide tra i campi, gli amici e la fidanzata Barbe (Adélaïde Leroux). Ogni giorno trascorre uguale a tutti gli altri, nella stessa rustica monotonia, il lavoro, gli incontri al bar, il sesso sporco e selvaggio, consumato nei fienili, tra i prati e gli alberi. Tutto è di un verde scuro, materno ma inquietante, spruzzato di arbusti sporadici, di elettricità baluginante, di bagnato e fradiciume che si respira in ogni angolo. Riesci quasi a intrecciare le dita nel ventre butirroso della terra, ad affondarci dentro le mani, tanto lo senti, tanto ti entra a fondo la sua forza greve e onnipresente. Ma quella di André è una vita troppo disillusa e ordinaria perché il ragazzo si renda conto della morte che lentamente lo corrode. E anche se tutto quel verde lo distrugge, contaminandolo, infettandolo con le sue estensioni piovigginose, fatte di argilla e terriccio, la sua mente è troppo abitudinaria per fargli sognare un'esistenza diversa da quella che ha sempre avuto. Almeno fino a quando l'esercito non arruola tutti i giovani in forze del paese e li spedisce a farsi ammazzare in un non meglio precisato conflitto mediorientale. Allora Flandres, in un déroulement tanto radicale quanto sorprendente, tinge quel verde profondo di un giallo luccicante e implacabile, e le sue colline cedono il posto a una distesa eterna fatta di sabbia e roccia, i suoi prati rugiadosi a scheggiate pietraie che divampano nel sole. Il puzzo di temporale, di pioggia, di primavera si trasforma in pelle bruciata, in zolfo, in gragnole di proiettili scoppiettanti. L'odore di sesso in odore di carne.

Lo sguardo di Dumont è essenziale e impietoso, tanto nel seguire le vicende belliche di André, tanto nel delineare la quotidianità di un villaggio francese spopolato di uomini, dove le donne, Barbe e la sua amica, si lasciano sedurre da ogni maschio disponibile. La violenza della guerra e gli accoppiamenti bestiali determinati dalle più ataviche connessioni alchemiche e neurali. Lo stupro di gruppo di una guerrigliera mediorientale, concluso con una vendetta ancora più atroce dell'atto, e parallelamente la carnalità debordante delle due compaesane di André. E quando la guerra finisce, senza né vincitori né vinti, con le sue cicatrici che mai si dimenticano e mai si cancellano nel sangue, André torna alla vita di sempre. Alle sue Fiandre, ai campi da coltivare, alla sua fattoria, alla fidanzata. Nulla è cambiato per davvero, se non nell'animo del giovane. Nei suoi occhi restano i ricordi degli abusi, degli stupri, delle mutilazioni di prigionieri, civili e soldati. Le pallottole che incendiano la polvere, l'odio che accende gli animi di chi s'è votato alla ferocia, il puzzo del sangue che inebria e penetra nelle narici.

Flandres non è mai un film sulla guerra, come non lo è mai sulla vita di provincia, sulle sue ipocrisie, sul senso di frustrazione che la mancanza di stimoli intellettuali presuppone. È piuttosto una pellicola epica, cosmogonica, una riflessione sul Grande Tutto che ci rende uomini e al quale, indipendentemente dalla moralità delle nostre azioni, tutti quanti torneremo. Inesorabilmente. Flandres è la condanna e la sua remissione, la macchia e la salvezza, la grazia e l'afflizione. Quando ci sei dentro, non ne puoi più uscire. Cerchi disperatamente di urlare, di fuggire, di arrampicarti lungo quelle colline ondulate e mostruose. Correndo in preda all'orrore come Pharaon De Winter, il poliziotto de L'umanità, amando come il giovane Kader de L'età inquieta, o restando a margine degli eventi, impotente e impietrito da tanta incomprensibile crudeltà, come il disperato protagonista di questo film. Ma ovunque andrai, ovunque si poseranno i tuoi occhi, avrai sempre quella distesa dentro di te, verde, sinuosa e infinita. Le Fiandre.

Marco Marchetti

venerdì 24 febbraio 2012

Roma

14
Diretto da Federico Fellini e co-scritto con Bernardino Zapponi,Roma” racconta due storie basate sulla vita di Fellini. Il primo racconto riguarda la vita di Fellini da giovane negli anni '40 e il suo primo arrivo nella città che avrebbe così in meglio cambiato la sua vita, mentre il secondo racconto parla di un regista cioè Fellini maturo ed affermato, che sta cercando di realizzare un film sulla sua amata città.
Con le apparizioni di Peter Gonzalez come il giovane Fellini, insieme a suoi compagni di lunga data come Anna Magnani, Gore Vidal, Feodor Chaliapin (che da queste parti abbiamo già conosciuto almeno come Architetto Varelli di “Inferno” di Dario Argento), e Fellini come se stesso.
Roma” è un film incantevole, un grande capolavoro e una deliziosa e al contempo delirante, lettera d'amore alla città nella quale Fellini è riuscito a costruirsi il nome che sarebbe divenuto talmente famoso e celebrato in tutto il mondo.

E' circa il 1930 quando ad un gruppo di ragazzini delle scuole elementari di Rimini vengono insegnate le vicende del mondo di Roma e la sua ricca storia. Per un ragazzo di nome Federico, la scoperta del mondo di Roma, sarebbe avvenuta soprattutto attraverso il medium del cinema. La vita del ragazzo viene cambiata davvero nell'anno dell'entrata in guerra dell'Italia mussoliniana il 1940, quando egli giunge a Roma dove può vedere e scoprire la città in tutte le sue meraviglie. Va a vivere con una grande ed eterogenea famiglia in un appartamento-pensione, vede la cultura di Roma, la quale è, Roma. Con un balzo temporale ci ritroviamo subito dopo nel 1971, mentre Roma è molto cambiata, ma non per il meglio. Il vero Federico Fellini mette in scena un memorabile apocalittico ingorgo autostradale romano, nella celebre strabiliante sequenza del raccordo anulare, dove la troupe del suo film riesce a catturare surrealmente la città piovosa, la coesistenza delle antiche rovine con luoghi moderni prodigiosamente ripresi dall'occhio di Fellini come anch'essi prossimi alla rovina.

Fellini si chiede ora al riguardo del suo approccio per realizzare il proprio film su Roma, se ritenere o meno di dover mostrare al mondo i sempre più negativi lati della città, contribuendo a indurre un'immagine e un messaggio quindi fortemente negativo, della città e dei suoi abitanti, Eppure, ci sono anche quelli che si sentono ben stanchi dell'aspetto commerciale della città, come i tempi che stanno cambiando così tumultuosamente. E anche se Fellini ci ricorda la sua esperienza in un teatrino d'avanspettacolo che egli frequentava nei suoi primi anni romani, una delle parti più memorabili e strepitose dell'intero film. I suoi ricordi della guerra, per l'irrompere improvviso e drammatico dei bombardamenti nel quartiere di San Giovanni, mentre egli giovanotto sta vedendo le prestazioni grottesche e divertentissime dei guitti sul palco, tra cui un ragazzo in frac e cilindro di nome Alvaro (Alvaro Vitali nella terza delle sue partecipazioni ai film di Fellini, dopo “Il Satyricon” , e prima di “Amarcord”) che sta eseguendo tra mille volgarissimi sfottò, un balletto di tip-tap in omaggio a Fred Astaire. Eppure, nonostante gli irresistibili lazzi e frizzi di alcuni impareggiabili coattoni indisciplinatissimi, lo spettacolo seppur fra i mille sfottò e ferocissimi triviali sberleffi (come lanciare un gatto morto -vero- a Vitali/Fred Astaire mentre balla: -”A Fred Astèr, tiè beccate stà pelliccia!”), è sempre condotto fino alla fine. Purtroppo, c'è appunto la guerra e Fellini come gli altri incredibili avventori sono costretti a nascondersi nelle gallerie della appena costruita metropolitana, durante il famoso bombardamento aereo sul quartiere di San Basilio. Quando è finita, tutti credono che il peggio sia passato, ma purtroppo, le sirene si sentono risuonare ancora una volta, così come il giovane Federico è costretto a vedere da lontano l'orrore delle ambulanze che trasportano i feriti tra la gente disperata..

Trasportati negli anni '70, con una sola magnifica sequenza Fellini ci mostra tutto il disprezzo per la cosiddetta generazione hippie, da parte dei numerosi romani più reazionari della cosìddetta “maggioranza silenziosa”, i quali inneggiano e appaludono ad un immotivato e completamente gratuito, brutale sgombero con la forza, da parte della P.S., di un gruppo di “capelloni” intenti a cantare e suonare le chitarre, a Campo dè Fiori. Ancora, ritornando indietro ai propri ricordi degli anni '40, la scoperta del “libero amore” contro l'amore a pagamento, immancabilmente conosciuto nei bordelli, come “formazione” della sua generazione. Fellini ce lo ricorda nel segmento forse in assoluto più strabiliante del film, descrivendo nei suoi modi visionari e carnascialeschi il mondo sotterraneo dei bordelli, da quelli di lusso e costosi per i veri “signori” e per i notabili “in visita privata” come il podestà, a quelli per soldati in libera uscita, con le “prostitute-operaie” del sesso, quando non delle donne obese e vecchie, o precocemente invecchiate, distrutte e completamente impazzite dalla “vita” condotta per tanti anni, che caratterizzavano la stessa “vita” anche dei semi-attraenti bordelli eleganti con le prostitute più belle e giovani, frequentati da Federico ragazzo con un amico (il quale è tra l'altro interpretato da Francesco "Franco" Di Giacomo dei Banco del Mutuo Soccorso) . Il mondo che Fellini ci ricorda non è molto diverso o destinato ben diversamente da quello che la sua troupe ha visto e catturato, quando sono andati nell'enorme galleria in escavazione della metropolitana, laddove insieme ad alcuni studiosi e archeologi scopriranno una casa patrizia romana di 2000 anni prima, sepolta sotto la città con i suoi dipinti murali, i quali subito cominciano a svanire al contatto dell'aria penetrata nella catacomba. Di nuovo negli anni '40, Fellini frequenta una cerimonia con una vecchia principessa che diventa questa presentazione fantastica di moda ecclesiastica riguardante l'attenzione del Papa, mentre torna ancora indietro nel tempo per vedere come la città è cambiata attraverso le diverse epoche.

Anche se il film non ha molto di unitario, è comunque una lettera d'amore alla città di Roma. Mentre molte delle scene di flashback del film si basano sulla vita di Fellini, il film ci parla di Roma attraverso i suoi giorni quando era un impero, ai primi anni del 20 ° secolo, laddove era una città di promesse. Quando la pellicola si sposta attraverso gli anni '70, era già una città molto diversa, nella quale i turisti da tutto il mondo arrivano per vedere le sue meraviglie ma non certo la realtà (irresistibile in tal senso, la sequenza nella quale le vecchie tardone tedesche scese dal pullman vengono irretite a Villa Borghese da alcuni strepitosi coattoni marchettari). Anche se circonfonde i suoi hippies attraverso l'idealismo, l'idea di ciò che è l'essenza vera dell'essere e sentirsi romani sembra ben perdersi con i tempi che cambiano, come il modernismo attraverso la tecnologia, e tutti i cambiamenti in arrivo che ne comporta. Mentre il film poteva già essere un po' in ritardo nel '72 rispetto alle problematiche politiche e sociologiche di allora, Fellini rende comunque Roma al meglio attraverso il suo occhio che brandisce la propria personalissima e inimitabile visione, presentandoci la Roma dei vecchi tempi con la inarrivabile capacità felliniana di evocare e costruire immagini di inusitata ricchezza scenografica e fascino visivo. “Roma” infatti termina con quello che è anche uno dei migliori finali mai realizzati, coinvolgente i monumenti storici e le vestigia miliari della stessa antica Roma. La celeberrima “corsa” notturna finale dei centauri motociclisti, per il centro della città illuminando con la luce dei loro fari e sommergendo completamente tutto con il rombare dei motori, i moumenti più significativi di Roma, fino a imboccare il raccordo anulare e ad andare simbolicamente non si sa bene dove.

Ad una domanda specifica di un giornalista straniero, su quale significato vi fosse se ce n'era, o potesse simboleggiare questo famoso criptico finale, chiedendo appunto a Fellini, dove secondo lui andasse nella notte questa moltitudine di centauri motorizzati, egli rispose:- "Màh, dove vuole che se ne vadano, al massimo, fino ad Ostia"-.

Il Direttore della fotografia Giuseppe Rotunno conferisce un aspetto dallo sguardo meravigliosamente naturalistico, all'inizio del film, per l'illuminazione stravagante di Roma in alcune sequenze, in particolare gli interni e le inquadrature della città stessa. La cinepresa di Rotunno cattura benissimo la bellezza e anche l'aspetto decadente di Roma, con i suoi splendidi esterni. Lo scenografo Danilo Donati e il set decorator Andrea Fantacci compiono un lavoro meraviglioso, creando e accumulando per il film un look unico e inimitabile, dalle scenografie dello spettacolo di varietà nel teatrino dell'avanspettacolo, alla sfilata di moda ecclesiastica a cui assiste il giovane Fellini, e sempre più caricatamente verso la fine del film, che colma realmente lo spettatore di stupore. Donati ovviamente crea anche i costumi del film, che sono altrettanto ricchi ed esotici come lo stile e la personalità fantasiosa dello stesso Fellini. Il montatore Ruggero Mastroianni realizza un lavoro eccellente, soprattutto nel trasferimento delle sequenze per veicolare la struttura non convenzionale del film. Il missatore del suono Renato Cadueri compie anch'egli un lavoro mirabile per trasmettere nelle sequenze l'atmosfera del film, in particolare per le sirene antiaerei in una sequenza alla fine del film.

Il collaboratore di lunga data di Fellini, e che non necessita assolutamente di alcuna presentazione Nino Rota, porta al film una varietà di musica che va da quella tradizionale alla musica popolare italiana, alle sonorità swing e jazz big-band anni '40 dell'arrivo degli americani, nonché alcune del suo lavoro di compositore orchestrale. L'apporto al film di Rota è densissimo di magia ed eleganza, trasmettendo superbamente il romanticismo di Roma, nelle sequenze iniziali del film, e per la perdita di innocenza che attraversa la sua (la mia) amatissima città, nelle sequenze degli anni '70. E sono questi alcuni dei momenti più sottili del film e delle intere carriere del grande compositore e del grande regista, anche se potrebbe apparire un lavoro minore rispetto agli altri del lungo sodalizio con Fellini.

Il cast del film è in gran parte un ensemble con pochi personaggi più preminenti di altri. Gli unici attori che risaltano maggiormente sono Peter Gonzales, scelto benissimo come diciottenne Fellini, e Stefano Mayore, Fellini ragazzo. Tali prestazioni sono molto memorabili e al contempo fellinianamente gioiose nel sottolineare l'innocenza di Fellini dalla giovinezza all'età adulta. Altre sequenze includono Pia De Doses come una principessa cariatide della nobiltà vaticana romana, e Renato Giovannoli, come un cardinale nella scena della sfilata di moda ecclesiastica, e sono memorabili; cosi' come il cameo dello scrittore Gore Vidal nella mitica, lunga sequenza “trimalcionesca” ripresa alla “Festa dè No'artri” a Trastevere, o quello di Anna Magnani (poco tempo prima di morire di tumore) che rientra nel portone di casa sua a Trastevere (“A federì, propìo nùn me fido delle tue domande..., ma và a dormì và...”, e a chiudere la sua inimitabile risata, inimitabile, se non da Gastone Pescucci), Alvaro Vitali come portentoso imitatore di Fred Astaire, Feodor Chaliapin, e nella raramente vista, (la versione dell'anteprima al mitico Cinema Barberini e poi contenuta solamente nella prima rara edizione in vhs della Durium), sequenza con Alberto Sordi e Marcello Mastroianni, che ripresi da Fellini sempre alla “Festa dè No'artri”, irritati e non sapendo di finire nel film, danno abbastanza un'immagine antipatica di sé, soprattutto il primo. Il film comprende anche cammei degli allora abbastanza sconosciuti americani Dennis Christopher e Cassandra "Elvira" Peterson, come hippies a Trastevere.

Anche se questo è stato da alcuni considerato per un certo periodo, come un titolo secondario di Fellini (realizzato appena un biennio prima del suo quarto Oscar come Miglior Film non Americano, con “Amarcord”) in confronto ad alcuni dei suoi altri film precedenti, “Roma” è invece uno dei suoi capolavori maggiori, forse la prova migliore, più compatta e notevole oltre che personale, del periodo della sua maturità. Nonostante la mancanza di una trama, performance attoriali che risaltino più di altre, o problemi di sintonia con alcuni sviluppi e fenomeni politici e sociologici in atto in Italia in quel periodo, è un film visivamente e immaginativamente sensazionale. Anche e non solo per tutti coloro che sono interessati alla città di Roma e di come Fellini l'ha vista e dell'importanza centrale di essa nel suo cinema, oltre che per come ha sempre saputo restituircela, superlativa e quasi inedita ad ogni nuovo sguardo. Questo è veramente un visibilio gioioso per ogni fan del cinema di Fellini che ne voglia godere, ma non da meno per tutti gli altri. Oltretutto, “Roma” è anche il titolo felliniano più “sentito” e denso di riferimenti che riguardano e rimandano ad altri suoi famosissimi film. Alla fine, “Roma” è una splendida lettera d'amore (se non la più splendida) alla città di Roma da parte di uno dei più grandi registi in assoluto, il quale l'ha saputa raffigurare e alfine celebrare come nessun altro.

Nominato per l'anno 1974 al BAFTA Film Award per la Miglior Art Direction aDanilo Donati
Festival di Cannes anno 1974 ha Vinto il Gran Premio Tecnico a Federico Fellini

Sindacato francese dei critici cinematografici Anno 1973 Ha Vinto il Critics Award per il Miglior Film Straniero a Federico Fellini.

Golden Globes, USA Anno 1973 Nominato al Golden Globe per Miglior film straniero in rappresentanza dell'Italia

Sindacato Nazionale dei Giornalisti Cinematografici Italiani Anno 1973 Ha Vinto Il Nastro d'Argento per il Miglior Production Design (Migliore Scenografia)

Originariamente pubblicato in una versione di 128 minuti. Successivamente tagliato a 119 minuti:
  • La versione italiana ha solo alcuni doppiaggi di Federico Fellini per oche decine di minuti, all'inizio di alcune scene. La versione in lingua inglese dispone di un ulteriore narrazione in prima persona attraverso la maggior parte del film, dando maggiori informazioni di base per aiutare gli spettatori non italiani. Questa voce fuori campo inizia immediatamente durante i titoli di testa, informando lo spettatore che il film che sta per vedere non ha una "storia" nel senso tradizionale, con trama e personaggi, ma è un semi-documentario su una città.
  • Le scene con le apparizioni di Marcello Mastroianni, e Alberto Sordi, come se stessi (intervistati durante il segmento "Trastevere") sono state rimosse dalla maggior parte delle versioni non-italiane e dalla versione televisiva italiana. Sono inoltre mancati dal DVD R2 pubblicato in Italia dall'Istituto Luce.

Le due edizioni (da Wiki):

Il film venne presentato in prima nazionale al cinema Barberini di Roma il 18 marzo 1972, con una durata di circa 130 minuti. Il 15 maggio 1972 ebbe la sua vetrina internazionale al Festival di Cannes.
Per la presentazione sul mercato estero Fellini, in collaborazione con il produttore del film e con Bernardino Zapponi, decise di alleggerire il film riducendolo a circa 115 minuti. I tagli, decisi in autonomia e senza interventi da parte della censura cinematografica che aveva già dato il nulla osta al film, con un divieto ai minori di 14 anni, riguardarono alcune sezioni della pellicola, mentre altre vennero lasciate indenni.
Le sezioni del film con modifiche sono le seguenti:
  • L'arrivo a Roma: manca integralmente una sequenza comica all'interno del tram, ripresa da una striscia a fumetti già pubblicata sul Marc'Aurelio (scena 5);
  • L'arrivo a «casa Palletta» è stato accorciato, manca il finale con alcune battute tra la servetta e il giovane Fellini, nella camera di quest'ultimo mentre disfa i bagagli (scena 6), e l'immagine di un cinema all'aperto ripreso dall'alto che il protagonista osserva dalla finestra (scena 7, che manca integralmente);
  • Villa Borghese: il dialogo tra i giovani universitari e Fellini, è stato accorciato e rimontato in maniera differente;
  • Teatrino della Barafonda: manca del tutto l'esibizione del comico che precede sulla scena Alvaro Vitali;
  • I bordelli: alleggerimento di alcune piccole parti relative al bordello economico (scene 4 e 6);
  • Il defilé di moda ecclesiastica: tre tagli, al modello n° 4 Suora Missionaria e in due altri momenti della sfilata dove compaiono in una, dentro due teche, una mano ed una maschera metalliche e nell'altra un modello per vescovo. Manca anche un dialogo tra coloro che assistono alla sfilata. Tagli piuttosto evidenti dal fatto che, nelle immagini mantenute, si nota in lontananza il modello n° 4 sfilare via dalla sala e per dei bruschi salti nella colonna sonora;
  • Festa de' Noantri: eliminati del tutto gli interventi di Marcello Mastroianni ed Alberto Sordi
  • Motociclisti: alleggerita di alcuni dei monumenti filmati.
  • La versione integrale del film, curiosamente, non è diventata la versione ufficiale, in quanto sulla totalità dei supporti in vendita, DVD e VHS, è stata inserita la versione corta approntata per il mercato estero; è anche quella che normalmente viene passata in televisione. L'unica commercializzazione della versione lunga avvenne nel 1989, su una VHS della DeltaVideo, da anni fuori catalogo.
Napoleone Wilson

giovedì 23 febbraio 2012

A Better Tomorrow

8

A better tomorrow non è il miglior film di John Woo, ma è senza dubbio un film importante, un'opera che, pur con tutti i suoi difetti di apripista al nuovo poliziesco hongkonghese che da lì a poco avrebbe invaso, con la forza di Godzilla sul Giappone, tutto il mondo, è materia pregiatissima.

Certo prima di John Woo e dei suoi antieroi dall'onore simile ai samurai c'erano già stati gli yakuza movie del grande Fukasaku e almeno un'opera potentissima come il The club di Kirk Wong, ma mai come in A better tomorrow si era assistito prima ad una tale eleganza in una messa in scena iperrealista, a sparatorie coreografate come balletti, a colpi, colore, fiamme e redenzione dai caldi pastelli di un Leonardo da Vinci con la mdp in mano.

Con A better tomorrow entra nella leggenda il look di Chow Yun Fat, stuzzicadente in bocca, occhiali scuri, giacca lunga, ma anche immortali scene come la leggendaria sparatoria con le pistole nei vasi. E' l'idea di un saldo noir dalle ambizioni di un Melville deloniano che riesce a contaminare l'Occidente, i vari Desperado di Rodriguez e Banderas, le sparatorie con le pistole puntate che guardano il west di Leone attualizzandolo, il melò che si tinge di sangue. Ai meno sensibili A Better tomorrow resta, più dei suoi seguiti e degli altri John Woo successivi, indigesto soprattutto nella commistione ancora grezza di patetismo e sparatorie, ma è a tutti gli effetti un cult movie non solo del cinema orientale, ma di quello mondiale.

Le battute da imparare a memoria, la potenza delle scene d'azione fatte di coltelli crudeli e rivoltelle fumanti, di corpi crivellati da inaudita ferocia che non si decidono a morire, ma sparano con due pistole come se benedicessero i nemici, le colombe oltre le fiamme, hanno fatto invidiare il cinema di Hong Kong da tutto il mondo e lentamente, per assurdo, ucciso. Ecco che tra polizieschi ottimi oltre John Woo, di action successivi o riscoperti dopo A Better Tommorrow, i City on Fire, i Full Contact, i capolavori di Ringo Lam, di Kirk Wong, magari meno conosciuti dalle masse, ma che, Madonna santa, spaccavano il culo a italiani, americani, francesi, si è arrivati all'eccesso imitativo di tante opere sciacallesche che bastava mettevano in scena sangue e onore per vendere vhs su vhs. Ma se da un lato abbiamo cose immense come Organized crime and triad bureau dall'altra abbiamo pasticci caciaroni con lo stesso Chow Yun Fat in fase parodistica (Tiger on the beat). Si possono accettare ancora le cafonate alla Wong Jing (God of gambler), soprattutto alla luce di uno stile elegate nell'eccesso popolano che andrebbe studiato a parte, ma è stato il proliferarsi di imitazioni in Patria, ma anche estere (Hong Kong 96 di Albert Pyun, Coppia omicida di Claudio Fragasso) a portare questa meravigliosa macchina cinema ad un passo dall'abisso. Senza contare la vergognosa tratta delle bianche dei registi dell'ex colonia inglese negli States: a qualcuno è andata bene (i primi John Woo), altri si sono vandammizzati con originalità diventando Re Mida dell'action, ad altri è spettata la miserabilità di direct in video infimi o scialbi film di guerra con vietcong usciti da farse di Aldo, Giovanni e Giacomo.

E' certo che è servito un certo rigorismo del periodo Johnnie To per intravedere la luce ed evitare l'Armageddon vissuto dai nostri generi italiani. A better tomorrow conta un seguito wooiano meno sbilanciato con una carneficina finale da applauso, un prequel diretto dal produttore Tsui Hark (suo il bellissimo The blade) dai toni melò più marcati, e un proseguo solo nominale con altri personaggi, ma girato dal Carlo Vanzina del cinema di Hong Kong, Wong Jing, non senza una certa abilità e stile. Certo che davanti ad A Better Tomorrow, per citare un immortale autore, Fernando Di Leo, “il cappello ci dobbiamo levare”. D'altronde come potrebbe essere diversamente davanti ad un film che a quasi trent'anni dalla sua nascita riesce ancora ad appassionare e ad essere avanti mille anni anche nei suoi difetti strutturali? Magari ci fosse così perfezione nell'imperfezione in tanti film odierni...

Keoma

mercoledì 22 febbraio 2012

Basic Instinct

15

Johnny Boz, ex star del rock’n’roll, viene trovato assassinato nel suo letto, lo trova la cameriera, l’uomo è completamente nudo e sembra aver avuto un rapporto sessuale prima di morire, la principale sospettata è la scrittrice Catherine Tramell.

Interpretata da Sharon Stone, che grazie a questo ruolo diviene una diva di fama internazionale, Catherine è una donna furba e perversa, una dark lady che sa giocare bene le sue carte, il motivo per cui è sospettata è che scrive romanzi i cui delitti, si compiono nella vita reale, Nick (Michael Douglas) è un detective che più che seguire il fiuto investigativo mette il naso sotto la gonna delle donne, e da perfetta dark lady, Catherine gioca a sedurre il detective.

Il suo è un gioco al gatto col topo, che inizia e non finisce più, ed è legatissimo a ciò che scrive la protagonista, e la sua realtà, in un continuo incastro tra realtà e finzione, dove non si capisce dove comincia l’uno e finisce l’altro, e questo incastrerà Nick che sarà come un burattino nelle sue mani, in una parola riesce a tenerlo per le palle grazie al suo fascino seduttivo in cui lui non riesce a resistere, la tensione erotica tra i due è palpabile, si può toccare, si può assaporare, ma è un gioco più grande di lui, ed è un gioco appetitoso, allettante, in cui è impossibile non giocare, ma il detective fiuta la sua preda, gioca con lei, e crede di domarla, ma in realtà è lei che doma lui.

Paul Veroheven è un regista che sa giocare bene sulla trama, e a proposito della trama, è scritta da Joe Eszterhas, che grazie a questo film diviene uno degli sceneggiatori più richiesti e pagati di quegli anni, ma diciamoci la verità, Basic Instinct è un film che gioca molto sull’ambiguità, prima di tutto sull’ambiguità sessuale, dei ruoli, e del sesso, perché quello che si vede è o meglio era all’epoca del sesso piuttosto spinto per i tempi, dimenticate l’erotismo patinato di altri film che allora andavano di moda, qui viene mostrato parecchio, anche se non tocca mai punte ardite, ma resta un piatto piuttosto piccante al punto giusto per far scoppiare lo scandalo e rendere la pellicola appetibile per il pubblico, bellissima la fotografia, curata da De Bont, che diventerà regista di altrettanti blockbuster come Speed, e Twister. La colonna sonora è firmata da Jerry Goldsmith ed è bellissima, e ricalca fedelmente lo stato d’animo dei protagonisti.

Il bello di Basic Instinct non è scoprire l’assassino, perché lo si intuisce già alle prime scene, il bello di Basic Instinct è il gioco tra la dark lady e il poliziotto, il sapere se riuscirà a capire il colpevole o la colpevole in questo caso, e se lei riuscirà a farla franca o meno, lei è come un ragno che tesse la sua tela, e che avvolgerà tutti quanti una volta terminato il gioco. D'altronde il suo libro durante il film praticamente si stava scrivendo da solo, è la sospensione di incredulità, di cui lei parla in macchina prima dell’interrogatorio in cui c’è la famosissima scena dell’accavallamento di gambe senza slip, quando si inventa qualcosa deve risultare credibile, e lei è abilissima a tessere la sua trama, che Nick non riuscirà a capire la verità.

In realtà Basic Instinct più che un ottimo film è un film molto furbo, che sa giocare senza imbarazzi le carte della provocazione e del giallo, centrando in pieno il suo obiettivo principale, che non è affatto quello di acciuffare l’assassino, ma scoprire fino a che punto arriva il gioco di Catherine.
Michael Douglas con questo ruolo dimostra di essere un ottimo mestierante, ma è Sharon Stone, che con il suo personaggio riesce a centrare appieno il successo di un film, che se sarebbe stato interpretato da un'altra attrice non avrebbe avuto lo stesso impatto sul pubblico, Catherine è un personaggio scritto e cucito addosso a Sharon Stone, che poi cercherà sempre di uscirne interpretando ruoli variegati nell’arco della sua carriera.

In conclusione, se amate in thriller con una sana dose di erotismo allora Basic Instinct fa per voi, è comunque più un oggetto di culto soprattutto per i fans della diva, che sarà poi sminuito da una seconda parte piuttosto anonima senza il fervore di questa pellicola.
ArwenLynch

martedì 21 febbraio 2012

Cesare deve morire

16

I Fratelli Taviani, che oramai apparivano da tempo buoni unicamente per le celebrazioni del loro cinema passato, hanno sorpreso un po' tutti, prendendo la logora idea di riprendere del teatro carcerario e modellarlo in una forma anche molto attraente, ma in realtà molto curata e approfondita, niente affatto superficiale, camuffandola da semi-documentario, intitolato “Cesare deve morire”, con il quale hanno addirittura vinto il recente Orso d'Oro al Festival di Berlino. "Semi", perché ogni singola riga del film appare accuratamente studiata, tra digressioni personali, pur se i detenuti e le loro incarcerazioni sono molto reali. La messa in scena della notissima tragedia di Shakespeare "Giulio Cesare", recitata come dicevo dai detenuti del carcere di Rebibbia a Roma, incarcerati a lunghe pene detentive anche per gravi reati legati alla criminalità organizzata, aggiunge quindi una notevole quantità di materiale extra-testuale, arricchendo notevolmente il contenuto del film, ma è incerto se i fratelli Taviani siano abbastanza chiari su ciò che tutti dovrebbero, o vorrebbero dire.< Il risultato è intrigante, a volte impressionante, ma la curiosità che potrebbe però derivarne, scaturita a breve termine dall'importante premio ricevuto (per il cinema italiano il più importante degli ultimi dieci anni, e a venti dall'ultimo Orso d'Oro, ricevuto nel 1991 per l'orrido “La Casa del sorriso” di Marco Ferreri), avrà solitamente soddisfazione soltanto nelle poche e limitatissime sale d'essai.

La sezione di alta sicurezza del carcere di Rebibbia di Roma - temporanea (o meno) ospita importanti mafiosi, assassini, trafficanti di droga, ecc., – e da anni allestisce al suo interno delle rappresentazioni teatrali. I Taviani, collaborando con Fabio Cavalli, direttore responsabile di queste messe in scena, mette in cantiere una versione di "Giulio Cesare" entro le mura del carcere, integrando alcune riflessioni dei detenuti, e riadattando l'opera per poter al meglio adattarsi ad alcuni concetti e riflessioni esistenziali espresse dai detenuti, permettendo inoltre agli uomini di Rebibbia di adattare la traduzione in italiano nei loro propri dialetti.

L'inizio e la fine del film, a colori, mostrano frammenti della produzione dal palcoscenico allestito, alla realtà con il pubblico, mentre la maggior parte, girata in un suggestivo bianco e nero, si muove tutta dentro il carcere comprendendo scene delle prove e delle reazioni dei detenuti. Anche se i Taviani vorrebbero sottolineare il pathos della carcerazione, la loro decisione di utilizzare locali carcerari diversi dalle celle diminuisce il senso di uno spazio restrittivo, mentre in una delle scene finali con Bruto (Salvatore Striano) e Cassio (Cosimo Rega), essi sono sparati contro un cielo bianco, accompagnati dai suoni della natura. In una scena successiva, laddove i detenuti fanno ritorno alle loro celle, essa è studiata per apportare alla realtà una fotografia precisa e acuminata dei luoghi, ma l'immagine prima, di loro circondati da un firmamento senza limiti trasforma involontariamente le celle in un costrutto anch'esso teatrale.

Così come facciamo la conoscenza di Striano, che era stato rilasciato nel 2006, tornando a Rebibbia appositamente per questa produzione (ha fatto il suo debutto come attore nel 2008 in "Gomorra" di Matteo Garrone). Ma anche se come attore egli è potente, il suo inserimento tra i detenuti che stanno realmente scontando le loro condanne, scuote dal presunto obiettivo dei Taviani, per forzare la realtà del film a contemplare questioni di libertà interiore ed esteriore, e l'umanità che rimane ineluttabile, anche se trattenuta da muri reali o metaforici.
In questo la rappresentazione del film è -solo parzialmente- riuscita. Nonostante la contemplazione faciliti la riflessione su di queste vite imprigionate, gli spettatori non possono ignorare il fatto che questi tipi non sono esattamente dei Jean Valjean, e sono in regime di massima sicurezza per un motivo. Si tratta di una nozione che fa sì di comprendere maggiormente come la possibilità di queste attività tetrali possa offrire per l'anima incarcerata un rifugio sicuro, pur tra varie contraddizioni, e il suo ruolo nella riabilitazione, che si sente comunque come molto reale e concreto. Ma qual'è lo spettatore che non colleghi certe cose, dopo aver visto i criminali condannati in scena su di una commedia che tratta dell'omicidio commesso da un traditore? Data la divulgazione dello stereotipo mafioso, c'è una strana sensazione che scaturisce dalle linee di dialogo del dramma shakesperiano, la quale fa sì che battute e parole contenenti "l'onore", generino reazioni indesiderate più pendenti verso la commedia involontaria, che il dramma.

Ci sono momenti, quando gli uomini detenuti reagiscono ai concetti espressi e contenuti nella tragedia messa in atto, e insiti nell'opera come nelle loro vite, che si sente un pò troppo il copione, i ragazzi e gli uomini di Rebibbia probabilmente avranno anche ripetuto le loro battute in presa diretta e una volta sola, ma a volte la loro evidente ripetizione per la cinepresa, è stridente per la mancanza di spontaneità, e in contrasto con quelli che dovrebbero essere stati gli intenti del film. Senza dubbio il film stesso funziona meglio in tutte quelle sue parti in cui deve essere maggiormente aderente all'opera di Shakespeare. Per la maggior parte, le modifiche apportate alla stessa tragedia Shakespeare (anche a causa della traduzione italiana) mantengono comunque la concezione del Bardo dei caratteri e dei personaggi, ma l'uso dei dialetti può essere realmente sorprendente per delle orecchie abituate all'acutezza aspra e brusca dei dialoghi di questa famosissima tragedia. Quando Decio (Juan Dario Bonetti) dice, "fresco, fresco, questa mattina", suona più come un venditore ambulante di uova ai mercati generali di Roma, che le declamazioni di un generale romano. Mentre invece alcuni interventi sembrano essere passati attraverso una certa “distrazione” del doppiaggio, in post-produzione.

E' innegabile che praticamente tutti gli uomini di Rebibbia rendano giustizia ai loro ruoli, ma la reale sorpresa è il Cesare impersonato da Giovanni Arcuri. Il suo fisico possente, il contegno espressivo che ben padroneggia, la palpabile presenza e la facilità con cui declama le sue battute, dovrebbero far valutare ai Fratelli Taviani quanto egli abbia fatto guadagnare all'intero film, e come esso sarebbe stato senza la sua partecipazione, oltre a pensare di poterlo lanciare ancora in ruoli futuri.

Le riprese di Simone Zampagni, l'assistente dell'operatore dei Taviani nei loro lavori più recenti, impagina il tutto crudamente e in bel bianco e nero, semplice e memorabile, anche se alcuni potrebbero trovare che le immagini portino in sè un loro contenuto "arty", il quale mostri le sue credenziali di un po' troppo consapevolmente. Mentre la musica è generalmente ridotta al minimo, c'è una ripetizione di un triste tema in alto sassofono che ben trasmette la sfortuna dei protagonisti, e la canzone "Roma, città senza vergogna" fa guadagnare ancora qualcosa al film.
Napoleone Wilson

Twentynine Palms

3

Erano anni che volevo vedere Twentynine Palms, ed erano anni che ne sentivo parlare malissimo, come se questo non solo fosse il peggiore film di Bruno Dumont ma addirittura uno dei peggiori mai realizzati.

Così, preso tra l'incudine e il martello della curiosità e delle stroncature, ho sempre rimandato la sua visione sine die, pur sapendo che prima o poi, da dumontiano convinto e ortodosso quale io sono, mi sarebbe toccato sorbirmi le sue titaniche due ore. Ebbene, qual è il tanto atteso verdetto? Difficile stabilirlo, perché che Twentynine Palms non sia il miglior Dumont è abbastanza chiaro, ma che la sua visione sia così tremenda da scoraggiare anche il più audace spettatore, questo è di gran lunga meno comprensibile. E francamente non si riesce a giustificare (troppo) la biblica pioggia di fuoco che molta nomenklatura critica s'è augurata cadesse sulla testa del suo regista. Diciamo che se fossi un giudice chiamato ad applicare una qualche sanzione, mi limiterei giusto a una tollerante strizzata d'orecchi. Per questa volta niente bastonate, ma solo perché sei incensurato.

Allora, ci sono David e Katia (Yekaterina Golubeva e David Wissak) che attraversano il deserto per raggiungere la cittadina sperduta che dà il titolo al film. Dormono nei numerosi motel disseminati lungo l'autostrada, assaporano la cucina americana delle stazioni di servizio, chiacchierano di cose futili e si abbandonano spesso e volentieri, cioè ogni dieci minuti, ad amplessi selvaggi e piuttosto spinti. Prima lo fanno nell'acqua, poi su un'antica formazione rocciosa alle porte del deserto, poi su un letto e ancora all'aria aperta. Tra una chiavata e l'altra, ahinoi, succede poco o niente. Non c'è azione, non c'è racconto, e a parte i saltuari momenti di poesia (la scena delle pale eoliche, tanto per dirne una) si attende invano che qualcosa metta in moto gli avvenimenti.

Twentynine Palms è un viaggio metaforico nella natura primitiva e inospitale, un ritorno alle origini dell'umanità, dove i corpi si fanno sabbia, le menti si trasformano in pietra e le anime, in fuga da una modernità asfissiante e indecifrabile, diventano il vento che soffia nelle notti stellate, la polvere delle strade, il calore intrappolato nelle rocce. Il deserto sostituisce il più canonico panorama fiammingo, ma al contrario di quanto succede per L'età inquieta e L'umanità, i personaggi paiono slegati da uno sviluppo culturale e narrativo che non sia un continuo perdersi nell'ambiente, mimetizzarsi in esso, amarsi e odiarsi senza ragione apparente.

Il problema principale della pellicola non è certo la sua lentezza, quanto il voluto ed eccessivo oscurantismo che, dietro la pretesa di fare un film à la manière de Dumont, tempi dilatati, campi lunghissimi su scorci infiniti di paesaggi inospitali, finisce per sembrare una caricatura poco riuscita dei suoi fasti cinematografici. È come se avesse voluto rifare Zabriskie Point, salvo poi somigliare a Brown Bunny di Vincent Gallo (curiosamente presentato lo stesso anno a Cannes). E alla fine non si capisce da quale genitore abbia ereditato il patrimonio genetico. Twentynine Palms ruba la monumentalità antonioniana dei suoi spazi infiniti, e diventa un tripudio di giallo zafferano, corpi nudi avvinghiati su pietre gigantesche e grigiastre, cieli azzurri che si riflettono in piscine troppo grandi e troppo vuote per non apparire tremendamente fuori posto. Ma è anche un tentativo, encomiabile seppur traballante, di costruire un cinema ancor più minimale dei suoi precedenti lavori, dove gli eventi sono ridotti a pochi tocchi di colore, e dove la banalità dell'inutile si trasforma d'incanto in tragedia.

I pregi però si riducono a queste efficaci trovate visive che, proprio perché indipendenti da un corpo narrativo meglio articolato e strutturato, si concludono in se stesse senza aggiungere nulla a quanto si sforzano di rappresentare. Per esempio, gli orgasmi che si trasformano in urla di dolore, la scena del cane investito, un capolavoro di incomunicabilità di coppia, o lo stupro di David che, come un fulmine a ciel sereno, contrasta con la placida immobilità di tutto il resto. Sono guizzi di splendore, che ci colpiscono come un pugno allo stomaco, vuoi con la stranezza di cui si fanno latori, vuoi per la repentinità del loro accadimento. Ma tutto questo non basta a rendere un film mediocre un buon film, e nel complesso resta sempre l'idea di un'operazione riuscita a metà, dove si vorrebbe fare, ma senza risultati ammirevoli, dove si tenta di parlare finendo poi per starnazzare o addirittura per non dire nulla. Non solo Twentynine Palms non termina quando dovrebbe, ma si trascina per inerzia con un finale (che taciamo onde evitare spoiler) indegno per un uomo di grande cultura e raffinatezza come Dumont. Eppure non ci sarebbe voluto tanto per evitare il semi-disastro, bastava tagliare una ventina di minuti di tempi morti e cambiare (o meglio ancora, rimuovere del tutto) la brutta conclusione. Non è andata così, ed è inutile chiudere la stalla dopo che i buoi sono fuggiti. Quel che resta di questo lungometraggio, giudicandolo in ciò che è e non per come l'avremmo preferito, sono soltanto i gusci vuoti dei suoi miti di frontiera, il suo deserto più minaccioso che maestoso, i fast food hopperiani con i loro impiegati senza identità, i ventri delittuosi di motel sempre troppo ordinari.
Avrebbe potuto fare di meglio, ma almeno ci ha provato.

Marco Marchetti