venerdì 18 maggio 2012

Alien

4

Sul pianeta Terra correva l'anno 1979. Nello spazio profondo, presso la costellazione di Zeta II Reticuli, tra polveri di stelle, galassie scintillanti e nebulose siderali, l'astronave mercantile Nostromo, con il suo carico umano avvolto in un sonno criogeno, intercettava una trasmissione di soccorso e galleggiava, con placida ineluttabilità, verso un satellite alieno e inesplorato: il famigerato planetoide dal nome in codice LV426/Acheron.

Sono passati oltre trent'anni da allora, trent'anni di vita terrestre, e secoli di vita cosmica durante i quali i mostruosi, ributtanti xenomorfi, o per dirla con tassonomica pedanteria, gli esemplari di Linguafoeda acheronsis, sono usciti dalle loro uova mucillaginose, inoculando le proprie pestifere declinazioni cellulari in centinaia di corpi, ed evolvendosi secondo modalità e formulazioni estetiche tra le più varie.
Eppure, rivendendo dopo anni il secondo lungometraggio di Ridley Scott, non puoi che riservare il più caloroso apprezzamento agli altri capitoli della saga, e indirizzare invece quell'amore alchemico e proustiano, che senti per ogni opera prima, che provi per ogni ricordo cinefilo d'infanzia, all'unicum settantesco. È da lì che tutto è cominciato, è a quell'anello virale, partorito dal cervello sanamente malato di Dan O'Bannon e Ronald Shusett, che le nostre connessioni neurali e mnemoniche, con ciclica periodicità, ritorneranno.

Alien è un film per tutte le età, nel senso che per capirlo veramente bisogna vederlo più volte, a distanza di tempo, e ad ogni occasione la pellicola si arricchisce di significati, si frange in gradazioni contraddittorie ma complementari. Visionarlo la prima volta, con lo stupefatto timore di un ragazzino, è un'esperienza strana, indefinibile a tratti, perché la magia per il proibito si mescola alla sessualità subliminale della creatura, e l'oscenità di quelle fauci a matriosca, incastrate le une nelle altre secondo altrettanto innominabili congiunture freudiane, determina brividi se non inconfessabili almeno perversamente pruriginosi. La seconda, invece, è meno traumatica, ma non meno deliziosa, perché al fascino mortifero della violenza, all'odore primitivo di sangue, si mescolano sensazioni intermedie, sfumature delicate, follemente erotiche, come l'androginia manifesta di Sigourney Weaver, bellissima, immensa, immortale: una dichiarazione d'amour fou cinéphile per il corpo, per la carne, per tutto ciò che è femminile ma non troppo. E poi, la terza volta che lo vedi, in età adulta per così dire, quando agli impulsi dell'organismo si affiancano quelli della ragione, riesci a cogliere l'architettura dell'intero: non ti concentri più sulle nervature, sui montanti, sulla trabeazione, ma sull'opera complessiva, e allora le nuance che avevano inebriato i tuoi sensi, in gioventù, si raccordano con un odore più esteso, fatto di desiderio, paura, folle e palpitante ammirazione.

Siamo sempre lì, se non è amore ne è un cugino di primo grado, un affetto eccessivo, morboso, che fa urlare al capolavoro e obbliga a profondersi in mille, servizievoli salamelecchi. Sì, perché niente è lasciato al caso, il particolare è un ingranaggio di un meccanismo più complesso che, incastrandosi tra mille altri ingranaggi, determina una simmetria speculare e armonica, come un brano di musica classica. La regia di Ridley Scott è d'altronde di un'eleganza agghiacciante, un teorema di perfezione geometrico-matematica che, dai suoi piani-sequenza iniziali, sinuosi e serpentiformi, per non dire sensualmente alieni, raggiunge il trionfo in un formalismo di scrupoloso rigore: i movimenti di macchina, scivolosi e leggiadri, si insinuano nei pertugi labirintici del Nostromo, affondando in un'oscurità minacciosa e bagnata; il montaggio rapsodico, anch'esso regolato da rapporti di aurea proporzionalità, suggerisce più che mostrare, seduce anziché penetrare, si fa sottile presenza piuttosto che ingombrante manifestazione di esibizionismo; la direzione degli attori è magistrale a dir poco, con la mai abbastanza citata Ripley e la sua collega Lambert, la bella Veronica Cartwright, capelli corti, fisico dinoccolato e sguardo deciso, deliziosamente mascolina pure lei anche se pochi se ne sono accorti; e poi il giovane John Hurt, aggredito dall'insettiforme facehugger, in una scena che da sola completa e annienta tutto il cinema horror, ingravidando al contempo, seppur in forma germinale, come un embrione depravato, le suggestioni che giusto l'anno successivo si sarebbero assaporate ne La cosa carpenteriana. E come non citare Harry Dean Stanton, in una particina, quella dell'aiuto-tecnico, che però ha lasciato il segno, con quella fisionomia svagata, intimidita, quasi da bohémien un po' beone che inseguendo un gatto fa la fine del topo.

Ma il vero differenziale, il fattore che fa scattare lo spread di rendimento tra Alien e tutti gli altri sci-fi movies del periodo e non solo, è comunque la fastosa sinfonia gotica orchestrata dall'elvetico Hans Giger. Ve la ricordate? Uno scenario post-industriale e decadente, con le sue tubazioni intestinali che si intrecciano in un viluppo di condutture, le concavità uterine che, come organiche rientranze, si incastrano in un intricato ginepraio di corridoi e misteriose fessure. E su tutto questo, il mesomorfo Linguafoeda, l'alieno che, tautologicamente, intitola l'opera intera, e che secondo le regole di un darwinismo camaleontico e mimetico trasmuta la propria pelle in un'estensione biomeccanica, adattandosi ai più anonimi meati, scivolando con accurata nonchalance tra dotti di areazione e canali di passaggio. L'alieno è l'astronave, e l'astronave, in un'espansione organica del proprio sé, diviene l'alieno fino a quando non si ha la sensazione che i veri estranei, nel saliscendi peristaltico del Nostromo, siano proprio gli umani.

Alien è un concetto olistico, composto da elementi integrativi, particelle schematiche e superfici perpendicolari che, agglutinandosi secondo sulfuree fermentazioni, determinano una somma che è sempre maggiore dei suoi fattori costitutivi. Il film di Ridley Scott è allora una riflessione, lucidamente disarmante, sulla corporeità e sulla sua violazione, sulla mutazione e sull'annientamento. Nelle sue spirali, nei suoi interstizi sfalsati, tutti giostrati sulle più perfette incongruenze, sugli squilibri più puntigliosi, c'è spazio per considerazioni di matrice cronenberghiana come per ragionamenti estetici su ciò che è la fantascienza (o l'orrore, o entrambi) e ciò che potrebbe essere in futuro. Da lì a The Thing, altro titolo pleonastico che fa dell'esibizione il proprio cardine, il passo è breve, come lo è per Blade Runner, ulteriore tassello (e capolavoro) di oscura matrice gotica.

Marco Marchetti


4 commenti:

  1. ne ho parlato anche da me tempo fa, ho recuperato tutti i film della serie, devo vedere solo l'ultimo film, quello con winona ryder diretto da Jean piere jeunet, condivido, è un capolavoro :)

    RispondiElimina
  2. Prometheus ragazzi.. non vedo l'ora!!! Ridley è il migliore!

    RispondiElimina