Considerato da Scavolini come credo, uno dei suoi due o tre film preferiti e che reputa davvero come suoi,
secondo il titolo italiano della sua fugacissima uscita cinematografica nel settembre 1987), mescola con abilità almeno tre dei filoni migliori del cinema di guerra degli anni '70-'80.
Producendo questo film, Scavolini mise dentro molte delle sue esperienze e dei fatti a cui assistette come fotografo free-lance durante la guerra del Vietnam. Uno dei pochi italiani presenti nel teatro stesso delle azioni militari, rimase anche disperso per diverso tempo al seguito di un'operazione dell'esercito americano. Il film che ne è venuto fuori è in effetti uno dei tre migliori della sua filmografia non underground, una delle poche pellicole di guerra (viene in mente quasi naturalmente l'accostamento che potrebbe apparire azzardato con una analoga sequenza contenuta nel capolavoro di
Sam Peckinpah “La Croce di ferro”[The Cross of Iron]['77]) a ben mostrare l'inestricabilità della morte insita durante una guerra in ogni atto umano e anche nell'”amore”, attraverso uno smembramento per un'esplosione e un'amputazione che avviene precedentemente ad una fellatio! Scavolini prese in questo film gli elementi più belli dei film sui POW (ovvero i famosi Prisoners of War) del conflitto vietnamita, alcuni lingotti d'oro trafugati dai nazisti anni prima, alcuni compromettenti micro-film, il tutto amministrato da Romano con sapienza, anche grazie ad un budget più alto di quello con cui era solito dover lavorare.
“Dog Tags” riesce a mostrarci anche una scena in uno strip club di
Hanoi che non avrebbe nessun motivo di essere stata inserita nel film, ma girata da Scavolini così dannatamente bene che non avrebbe mai dovuto non esserci, degna delle pagine di romanzi come
“An American risciò”.
Come qualcuno ha meritoriamente scritto su di un famoso sito di cinema, se ti approcci alla visione di
“Dog Tags” credendo di assistere ad un ennesimo war-movie d'imitazione italiana sul Vietnam, alla
Mattei/Fragasso, ma anche alla
Margheriti del periodo, tanto per intenderci, alla fin fine noiosi e ripetitivi, e solo programmaticamente crudi e violentissimi, rimarrai veramente stupito, anni luce com'è da questi modelli imitativi. Questo di Scavolini è un vero
“viet -movie” coi controcazzi e di rara assenza di qualsivoglia retorica ma unicamente dal lucidissimo e crudo disincanto, nel quale i protagonisti corrono di continuo perchè nel tiro dei viet, saltano in aria, e assistono ai loro compagni che gli muoiono intorno, per una missione che nessuno voleva fare e alla quale nessuno rischia di sopravvivere. E per fortuna, qui nemmeno la ragione è dalla loro parte.
Scavolini divide elegantemente il film in cinque parti, tutte con i loro titoli di presentazione, in modo che lo spettatore può facilmente giustificare/si la visione di ognuna di esse, anche distintamente, se come me, è quasi sempre costretto a vedere i film a pezzi e bocconi.
Qui abbiamo un prologo nel quale si prepara il seguito della storia, con un poco di narrazione da parte di uno scrittore che racconta come un elicottero carico di oro rubato vietnamita (ed è da vedere come Romano riesca astutamente a inserire lo spunto di tutto quell'oro già rubato dai nazisti, e arrivato negli anni '70 [!]), fosse stato abbattuto.
Lo scrittore viaggia dunque nelle Filippine in quanto è lì che l'unico superstite dell'intera disavventura, sta vivendo. Era solo un ragazzino viet all'epoca dei fatti, ma per qualche motivo ora è nelle Filippine. (Probabilmente perché è lì che ovviamente è stato girato il film, come quasi tutti i
“viet-movie” più famosi,
“Apocalypse Now” e
“il Cacciatore” inclusi.)
La storia che il film racconta è come detto composta e ben divisa in Tre Atti. Atto Primo: I fatti, Atto Secondo: La fuga, Atto terzo: La caccia. Per darvi un po' del sapore del film, la lunga fuga comprende l'uso di un vecchio cavallo, di un bufalo d'acqua che sta trascinando l'oro, e un soldato ferito sulle spalle.
Per darvi ancora più sapore, appena due dei suoi compagni hanno dovuto amputare ad un soldato la gamba maciullata e affetta da cancrena, è una ragazza viet a rimuovere infine l'arto reciso e per lenirgli in qualche modo l'atroce dolore non abbastanza calmato dalla morfina e dall'alcool, e a fargli quindi un pompino! La migliore sequenza di amputazione mai vista MAI sullo schermo!
Le cose cominciano con una missione apparentemente normale per il salvataggio di POW. Un gioco pericoloso ordito e ordinato dagli alti superiori. Invece di ottenere di essere riportati a casa da un elicottero , come furono portati a credere, L'Alto Comando li informa che hanno bisogno di procedere verso un altro punto di raccolta e recuperare parte del materiale classificato precedentemente, dal luogo dell'incidente dell'elicottero.
Peccato per loro, ma grande per gli spettatori, perché questo offre ai soldati ampie opportunità di trasformarsi in picchiatori duri. Come il tizio nero che continuava a essere sempre ligio agli ordini e a parlare profferendo termini come “affermativo”/”non affermativo”, e urlando cose come "sissignore!" Più e più volte verrà invece apostrofato con epiteti razziali, prima di vagare nella giungla per saltare infine in aria su di una mina!
O la recluta con gli occhiali che stava cercando di dimostrare a se stesso di avere le palle uccidendo un vietcong con un machete! Il vietnamita stava cercando di creare per il quattrocchi una sorta di trappola con una granata, quando egli è con i suoi quattrocchi sul viet e cercando di trovare il coraggio per ucciderlo con il machete.
Infine, lo fa, ma ferendolo soltanto alla spalla, e spingendo così i suoi compagni a dover finire il lavoro alla vecchia maniera, sparandogli. Poi, uno di loro finisce anche QuattrOcchi ferito gravemente alla vecchia maniera. Si tratta davvero di un plotone massiccio.
E poi, i fan di trappole ameranno altri momenti del film, così come gli appassionati di fpellicole su di operazioni dietro alle linee nemiche. C'è un ragazzo che viene colpito con dei bastoni appuntiti, uno che su un ponte di corda come quelli di Indiana Jones si fa saltare in aria, piscine di sangue e due proiettili da estrarre dai fori d'entrata, uno dei quali avviene durante una scena successiva ad un basso trabocchetto. Non meravigliando chiunque sostenga che la guerra è sempre una cosa sporca.
Come tutti i film veramente grandi incentrati sui bottini d'oro, il semplice profumo della “roba” scatena le paranoie. Il ragazzo che deve avere la gamba mozzata è fin da subito coinvolto in tutto un complotto per privarlo della sua quota. I suoi compagni lo rassicurano che otterrà la sua parte, se non avrà amputata la gamba infetta. Sicuramente Scavolini ha visto molto
“Il Tesoro della Sierra Madre” (The Treasure of the Sierra Madre) ('48) di
John Huston. Bèh, tranne che per il fatto che poi il ragazzo lo rivedremo, e con un lungo cresciuto barbone.
Di ritorno al quartier generale, uno dei soldati sopravvissuti incontra il loro malvagio comandante in uno strip club. Gli spiegherà che fin da principio si era parlato sul recupero dell'oro e solo dell'oro - senza bagaglio in eccesso.
Questo ci conduce al gran finale in cui l'elicottero si abbassa per ottenere l'oro, ma si trova sotto attacco. Soccombendo all'estrema attrazione dell'oro, il malvagio comandante si rifiuta di lasciare che l'elicottero decolli senza il carico e viene fatto saltare in aria. I nostri eroi si strappano quindi le loro piastrine di riconoscimento (le
Dog Tags, “medagliette per cani” nel gergo militare da cui il titolo del film, ovvero
“Il Collare della vergogna” secondo l'incisivo sottotitolo) e si gettano a terra, nella migliore sequenza del film, più di quelle delle trappole, di quelle delle operazioni nella giungla, allo strip -club, o dell'attacco con il machete.
Questo ci porta alla epilogo in cui lo scrittore sta guardando le foto del ragazzo viet oramai adulto, pensando ai suoi compagni ancora rimasti nell'esercito. Poi l'immagine si blocca un po', e ci viene mostrato un montaggio di tutte le scene che abbiamo appena veduto attraverso tutto il film, ma luminose, perché oramai sono soltanto un ricordo. E qui, si riconosce bene lo stile di Scavolini, già presente e descritto in
“Cuore”, dei “freeze-frame” dall'immagine solarizzata.
Infine, lo scrittore dice che non può credere che questo ragazzo sia riuscito a inserire così tanti ricordi in una piccola scatola. Così come senza vederlo non si potrebbe credere che Romano sia riuscito a inserire così tanti momenti memorabili in un film così apparentemente e volutamente “sporco”.
Alcune recensioni dell'epoca riportate dalla Rivista del Cinematografo -RdC.it :
"Simile a 'Platoon' nel rappresentare la guerra-trappola e nell'usare le tenebre e le tonalità scure per simboleggiare la claustrofobia interiore più che quella reale, 'Dogtags' se ne distanzia però nei ritmi, rallentati, e in un più accentuato interesse per le notazioni documentariste e descrittive del paesaggio. Un maggiore immobilismo nelle inquadrature volutamente prolungate, qualche concessione di troppo alle sequenze raccapriccianti e un'atmosfera di devastante cinismo talvolta nuocciono all'economia generale del film, probabilmente penalizzato dalle eccessive ambizioni di partenza. Efficaci le musiche di John Scott aiutate dal Dolby Stereo e la fotografia di John McCallum ingigantita dal Panavision."
(Fabio Bo, 'Il Messaggero', 15 Dicembre 1987)
"A parte questa novità, però, il film, realizzato a basso costo da una produzione anglo-americana e interamente girato nelle Filippine, non ha nessun altro motivo di interesse. La guerra è sempre quella, la sua documentazione è insistita e scoperta, i ritmi sono lentissimi e, in alcuni momenti quasi statici, i modi di rappresentazione, sia quando indugiano sulle comici sia quando si stringono attorno ai personaggi indulgono con compiacimenti eccessivi ad immagini lambiccate e preziose che, oltre a tradire qualsiasi occasione realistica (senza sostituirla con occasioni visionarie), rasentano in luoghi addirittura la calligrafia: in contraddizione con i temi, l'ambiente e le intenzioni polemiche. Qualche pagina, se vogliamo arriva ad imporsi per certi climi angosciosi che gravano sui personaggi e, qua e là, pur fra gli impacci dell'azione, si fanno strada dei momenti risentiti e drammatici di qualche rilievo, ma sono eccezioni: in un contesto in cui tutto o è troppo facile o troppo voluto e di maniera; sia narrativamente sia visivamente. Un Vietnam in sedicesimo, insomma, di cui non si sentiva proprio il bisogno."
(Gian Luigi Rondi, 'Il Tempo', 17 Dicembre 1987)
"Concepito come una tragedia in tre atti, un prologo e un epilogo, questo 'Dogtags'. Il collare della vergogna (in americano dogtag significa piastrina di riconoscimento), è un film che apparentemente non esce dai canoni del genere, ma che, a ben guardare, vi introduce alcuni elementi nuovi. A cominciare da una strana storia di cassette contenenti lingotti d'oro, smarrite e poi recuperate al prezzo di sacrifici disumani, che pare un motivo drammaturgico ricalcato sui modelli del western o del film gangsteristico. E proprio la tensione, il ritmo, la suspense, di questi modelli, costituiscono l'impalcatura formale che regge l'intera vicenda (con qualche insistenza un poco ridondante e fastidiosa, e un pizzico di gusto per l'orrido) dell'impresa di un gruppo di soldati americani attraverso la giungla vietnamita, ai confini con la Cambogia. (...) Girato nelle Filippine, con dovizia di mezzi e un grande senso dello spettacolo, 'Dogtags' rinuncia ai discorsi politici o moralistici per affidarsi totalmente all'azione."
('La Stampa', 1 Settembre 1987).
Napoleone Wilson