Forse il miglior film del decennio, ancor più grande di Canicola. Un capolavoro collocato in una zona nebulosa oltre il cinema, le cui immagini simmetriche, freddamente pulite, hanekianamente stranianti, lo trasfondono in un oggetto al di là di sé e delle proprie premesse. L'opera di Ulrich Seidl è qualcosa che ti resta dentro, ma non subito, appena terminata la visione, piuttosto un poco alla volta, frammento dopo frammento, goccia per goccia. Ti mangia e ti corrode, offuscandoti gli occhi di lacrime, graffiandoti l'anima con le sue unghie incrostate. Quando lo riguardi, il processo di necrosi acuisce l'intensità altrimenti edulcorata, e il veleno che ti ha iniettato nel sangue scorre fino ai polmoni, inondandoti il petto con le sue plumbee zavorre, rendendo sudicio e gravoso ogni tuo respiro.
Import/Export, presentato a Cannes in concorso (benché nessuno se ne sia accorto), è una storia che storia non è, perché troppo reale e quotidiana per definirsi tale. Inizia con un campo lungo su una periferia ucraina, brutti casermoni all'orizzonte, un cielo bigio, la terra ricoperta di neve. Bianco accecante ovunque, che ti entra in bocca, ti raggela i sentimenti. Un uomo tenta di mettere in moto la motocicletta. Non ci riesce. Ci prova e riprova, ma il suo piede aziona il predellino d'avviamento più per una questione di disperazione che di convincimento. La moto non parte. Entriamo allora in un ospedale, dove alcune infermiere stanno medicando un neonato la cui patologia ci resta ignota. Parlano una lingua a noi sconosciuta, ed è proprio questa incapacità di comprensione a rendere i vagiti del piccolo paziente tanto più frastornanti e insopportabili. Terminato il turno di lavoro, la bellissima infermiera Olga (Ekateryna Rak, esordiente) si reca all'ufficio pagamenti per richiederne lo stipendio. I soldi sono pochi, ogni mese la busta paga viene ridotta per i problemi economici che ancora oggi, a oltre vent'anni dal crollo del socialismo, nessun politico, economista, stratega finanziario è stato capace di risolvere o perlomeno arginare. Una somma così esigua non basta per mantenere il figlioletto che la giovane, non fosse per l'aiuto della madre, è costretta a crescersi da sola; il modo migliore per arrotondare è affidarsi agli esperti consigli di un'amica (Natalya Baranova) che, lavorando in un peep-show, introduce Olga alla prostituzione virtuale, semplice, pulita, sicura. Ci si spoglia davanti a una cam, e nel giro di pochi minuti o di poche ore il conto corrente comincia a lievitare. Ma Olga vorrebbe un lavoro rispettabile, così grazie a una conoscenza austriaca (un'altra amica da tempo emigrata), trova il modo di trasferirsi a Vienna, svolgendo prima la professione di babysitter, quindi finendo a fare la donna delle pulizie in una casa di riposo.
È proprio da Vienna che prende avvio la seconda vicenda di Import/Export, narrata parallelamente alla principale: quella di Paul (Paul Hofmann), una giovanissima guardia metropolitana che, perduto il lavoro a causa di un brutto scherzo, la fidanzata e i pochi soldi che aveva per pagarsi i debiti, chiede aiuto al viscido patrigno (Michael Thomas) affinché venga da questi coinvolto in un ben remunerato affare lungo il confine cecoslovacco; i due dovranno caricare pesanti apparecchiature da sala giochi su un furgone di famiglia, e inabissarsi per le più trucide bische del mondo slavo. Mentre Olga lascia la propria patria per essere “accolta” alle porte di un Occidente crasso e opulento, ma paradossalmente sempre più becero e intollerante, l'avvilito Paul, perseguitato dai creditori e da una vita grama che ormai non riesce più a gestire, parte per un percorso inverso. Import/Export. Qualcuno va, qualcun altro viene. Pochi restano.
Seidl costruisce una pellicola perturbante e conturbante, utilizzando piani sequenza, inquadrature di allarmante fissità, insomma tutto il repertorio del buon cinema d'autore. E lo fa nel modo più politico che la sua verve polemica, già assaggiata nel precedente Hundstage (addirittura accostato, nei più farneticanti balbettii della “sinistra” spettatoriale, all'amministrazione Heider), riesce a inscenare senza mai scadere nella retorica o nell'apologia del buongusto. Seidl non punta il dito addosso alle istituzioni, piuttosto ne penetra gli inesplicabili meccanismi per studiarne i più riposti ingranaggi, le curvature segrete, le crepe imperscrutabili che, a dispetto di tutto, scalfiscono la superficie esteriormente rispettabile della loro burocrazia. Svelandone la vacuità, rimarcandone la fatua oratoria. Nel ventre dell'Austria (come dell'Europa “unita”), sobbolle qualcosa di marcio e putrescente, che delinea invisibili confini tra le persone, innalza nuovissime frontiere lungo i paesi, allontana il diverso osservandone con sospetto ogni movenza. In questo mondo libero e democratico, tra i suoi vessilli e le mostrine appuntate all'impettita uniforme del diritto, basta un cenno del capo per licenziare l'imbelle Olga, la cui unica colpa è scappare dalla povertà e da un futuro che non c'è; e quando Paul viene cacciato dall'agenzia di pubblica sicurezza presso cui presta servizio, altro non gli resta che frequentare un ridicolo corso preparatorio, organizzato da un magnate/magnaccia dei colletti bianchi, propedeutico ad affrontare nel modo più consono un colloquio di lavoro. Evita alcune risposte, non incrociare le braccia, non accavallare le gambe. E oltre la finzione, oltre la plastificata facciata della teoria, la di gran lunga più tremenda verità: il viaggio all'estero, il rapporto conflittuale col patrigno, le umiliazioni e le cattiverie, la povertà e il meretricio che abbondano per le strade di una società immiserita sia nel corpo che nello spirito.
Eppure lo sguardo di Seidl, così impietoso e virulento, ha sempre la duplice capacità di colpire allo stomaco e riscaldare al contempo il cuore, di sollevare il fruitore con quelle stesse braccia che fino a poco prima ne avevano affossato le speranze. Quando Olga si insinua per le stanze orribili e sovraffollate del ricovero, stando a contatto con la vecchiaia, il decadimento e l'alienazione, riesce comunque ad avvicinarsi agli anziani pazienti che attendono, con rassegnata ineluttabilità, il macabro compiersi del proprio destino. In una scena la vediamo pettinare una vecchia, con amorevole semplicità e incredibile empatia per le sue sofferenze, in un'altra la seguiamo mentre balla una qualche melodia popolare con un ricoverato, poco prima che questi, sentitosi ancora giovane dopo tanti anni, lasci questo mondo con la soddisfazione di non essere stato da tutti abbandonato. Il viaggio di Olga verso la vita la porta a contatto con la morte, come comprendiamo benissimo durante la grottesca celebrazione del Natale: gli ospiti del nosocomio sono riuniti in un salone addobbato, circondati da festoni e cascami rutilanti, un valzer malinconico e nostalgico ne accompagna i volti rinsecchiti e svuotati dalla ragione; qualcuno ha avuto la bizzarra idea di decorarne i visi incartapecoriti, con cappellini e cappellacci, occhiali e nasi posticci e pinocchieschi, benché nessuno di loro abbia veramente motivo di solennizzarne la ridicola ritualità. Sembrano divertirsi più gli infermieri, soprattutto l'intraprendente Andi (Georg Friedrich), che colta l'occasione per danzare con Olga, scatenerà le ira gelosissime di un'altra sua spasimante non dichiarata, Maria Hofstätter (l'autostoppista tocca di Canicola). La festa si muta in farsa, la farsa in baruffa. Le due donne si picchiano, nel salone continuano i mummificati cerimoniali. Mentre al contempo, un Paul sempre più spaesato sarà coinvolto dal patrigno in una specie di orgia; il giovane si rifiuterà di prenderne parte, e scapperà nella discoteca annessa all'hotel in cui i due dovranno pernottare, dove tenterà (pur rifiutato) di attaccar bottone con i presenti, finendo per ballare da solo in uno dei momenti più strani della pellicola.
Quello di Seidl è un film cangiante, le cui fratture si intrecciano in un groviglio di interpretazioni semantiche e brutali sfumature, e dove l'incanto di uno sguardo si stempera nella crudeltà di un gesto o nella ferocia di una parola. La bellezza raggiunge alle volte un tale livello di perfezione da sconfinare nel dolore, e la grazia di un momento, sfumandosi nell'inconsapevole tragedia del quotidiano, si contamina fino a volgersi nel suo contrario. Su tutto, resta la nozione della fine imminente, di qualcosa che, nonostante i tentativi di preservazione, è destinato a corrompersi e perdersi nel vuoto. Di quella stessa meraviglia, racchiusa tanto nel volto di Ekateryna Rak quanto nelle colpe del giovane (e sprovveduto?) Paul Hofmann, nelle nevi ucraine, nelle linde geometrie dei quartieri austriaci, per le strade e per i sobborghi d'Europa, permane, con fatalità, il senso di impotenza e di sconfitta. Dell'umanità. Di noi tutti. Della vita. È proprio con una riflessione sull'esistenza che si chiude la pellicola, con quell'immagine potente e disturbante che costringerà la nostra coscienza a rimuginare per giorni su quanto recepito: inquadratura totale sulla camera dell'ospizio in cui lavora Olga. I pazienti si stanno per addormentare, le luci si spengono, soltanto due di loro ancora parlano nel delirio della senescenza. L'uno chiede costantemente di identificare la misteriosa, metaforica presenza che galleggia, invisibile, sulla soglia d'ingresso; il dirimpettaio recita con altrettanta disperata convinzione una preghiera. Due voci che si scontrano, all'apparenza, essendo la prima frutto della demenza, la seconda un prodotto dello scoramento, ma che in verità, ascoltando con attenzione, si incastrano alla perfezione l'una nell'altra componendo un dialogo di senso precisamente compiuto.
“Wer ist da?” dice un vecchio.
“Tot, Tot, Tot” risponde l'inconsapevole interlocutrice.
“Chi c'è?”
“Morte, morte, morte”.
Il sipario nerissimo di una dissolvenza cala su di loro (e su di noi), e con esso quella parola ripetuta per sempre. Morte, morte, morte.
Marco Marchetti
bravissimo Marco, hai descritto magnificamente un film non facile, e davvero bellissimoo!!!
RispondiEliminaecco, gli scambi economico/culturali cosa sono, nei fondi di bottiglie delle vite più nascoste
urka,questo mi manca,il canicola mi piacque un fottio,bene bene metto in cantiere
RispondiEliminadevi vederlo Stefano... già visto anche Canicola (la rece arriverà sempre da Marco, è lui il nostro esperto sul regista), fantastico, ma pure secondo me questo è ancora meglio.
RispondiEliminal'ho visto un paio d'anni fa, è davero bellissimo, inquietante, a tratti sociologico, in senso buono dico
RispondiEliminadici bene Francesco, stavo infatti per mettere anche *sociale tra i tag...
RispondiEliminanoooo,niente sottotitoli italiani,mi sa che mi tocca attendere
RispondiEliminavero Stefano, come puoi vedere anch'io me lo sono visto coi sub eng, non ci sono per ora alternative. ormai mi ci sto abituando, mi capita spesso...
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