Scritto e diretto dal palestinese Michel Khleifi e dall'israeliano Eyal Sivan, Route 181, frangments of a journey in Palestine-Israel (frammenti di un viaggio in Palestina-Israele) potrebbe essere definito un documentario on the road. Un viaggio diviso in tre puntate dal sud al nord dello stato di Israele, nel periodo in cui era in costruzione il muro che li divideva dal popolo palestinese. Così fin dai primi minuti sappiamo già di cosa si parla e l'aspettativa di chi guarda verrà chilometro dopo chilometro, soddisfatta. Sfatato subito il mito dell'ebreo che si costruisce il kibutz da solo; spesso e volentieri la manovalanza è araba. Molti sono gli islamici che risiedono nello stato occupante – perché le cose si chiamano per nome - verranno intervistati alcuni di loro; l'immagine che si va a creare è quella di una pseudo minoranza che nonostante abbia la cittadinanza sulla carta, non gode dei pieni diritti civili. Parliamo ovviamente dei discendenti di coloro che sono riusciti a sopravvivere ai rastrellamenti, agli stupri, agli omicidi.
Tutto ricorda i crimini passati. Il lavoro dei registi sarà quello di farcelo capire, dai dettagli, perché decenni di mistificazioni hanno permesso di far apparire come propaganda terroristica la semplice esposizione dei fatti. La grande narrazione occidentale è stata editata tagliando via paragrafi emblematici come Al-Nakba, in modo che la premise occidentale fosse soddisfatta. Il problema è che, se la storia può essere rappresentata nel cinema, essa in sé non lo è affatto. Questo e altri gli effetti di una propaganda incessante, che trasforma i crimini sionisti in epopea di civiltà e quelli arabi in terrorismo.
In diversi momenti durante il documentario nelle pareti degli interni è possibile vedere la foto di Theodor Herzl, passa inosservata, colpisce il fatto che non si vedano foto di Simon Wiesenthal o di Ben Gurion. Herzl, chi era costui? Che cos'era l'Haganah, associazione di cui uno degli intervistati – alquanto sclerotico - si vanta di aver fatto parte? Infine, durante il viaggio, tante, troppe sono le occasioni per chiedere agli abitanti se si ricordano dei villaggi arabi esistiti nei dintorni e scomparsi dalla carta geografica. Se li ricordano, ma nessuno nomina Al-Nakba. Andiamo con ordine. Tutto inizia alla fine del XIX secolo con la fondazione del Movimento Sionista da parte di Herzl, già nel 1901 viene creato il Fondo Nazionale Ebraico, con contributi da tutto il mondo. Il progetto è quello di dare uno stato agli ebrei, gli inglesi sono tra i più entusiasti ma pensando ad un territorio dell'Africa, in Uganda magari. Solo utopia, fino a quando non scoppia la Prima Guerra Mondiale. Per quanto gli arabi abbiano contribuito alla sconfitta dell'Impero Ottomano a vantaggio degli alleati anglo-francesi, niente delle loro aspirazioni autonomiste verrà soddisfatta e si fa strada l'idea di accogliere in Palestina insediamenti ebraici. Intanto la Federazione Sionista accoglie ebrei facoltosi, anche dagli Stati Uniti, il presidente onorario è per esempio Lord Rotschild. L'Haganah era un corpo militare creato nel 1920; gli ebrei sbarcano in massa in Palestina, sebbene gli inglesi cerchino di porre dei limiti alla loro immigrazione e non esiste ancora un governo autonomo nella zona, perché altrimenti gli islamici avrebbero avuto la maggioranza, come del resto in tutti gli altri paesi arabi. Si crea una situazione di frontiera, come per gli americani di fine '800 contro gli ultimi irriducibili pelle rossa. I palestinesi si ritrovano il territorio occupato dagli insediamenti ebraici. Come si evince dal documentario, si gioca sporco, non sempre i terreni vengono acquistati regolarmente, non esiste uno stato, né un catasto, ci si regola ancora con la genealogia per stabilire le proprietà. Così spesso vengono prodotti dei documenti falsi che attestano passaggi di proprietà mai stipulati. Nella totale assenza di una tutela giuridica i palestinesi vengono derubati delle loro terre. L'argomento che gli israeliani usano a loro favore è lo stesso usato dai pionieri della frontiera americana – che non basta comunque a costituire una giustificazione – ovvero, le colonie sarebbero sorte in mezzo al deserto, dove non c'era mai stato niente. Resta un mistero allora come facessero ad esserci dei villaggi e come mai fossero ricorsi a documenti falsi per stanziarsi. Non era la norma, intendiamoci, solitamente è come ce la racconta Montanelli in una delle sue celebri Stanze, ovvero ricchi arabi vendettero terre ai coloni ebrei.
La situazione era feconda di conflitti futuri, coi sionisti che aggiravano disinvoltamente i limiti imposti dagli inglesi per la loro immigrazione. L'Haganah dovrebbe difendere gli insediamenti ebraici dalle comprensibili proteste arabe. A quanto pare invece esasperano la situazione creando un clima soffocante. Il senso di claustrofobia del resto si sente anche durante il documentario, non viene suscitato in noi, ma si denota nei personaggi, nelle storie e nell'aspetto dei luoghi. Pensiamo solo all'impatto che da il muro divisorio al paesaggio. Così nel 1925 scoppia la prima grande rivolta araba; nella strage di Hebron 199 ebrei vengono uccisi, 397 feriti. Avvengono massacri anche a Gerusalemme. Una seconda rivolta scoppierà nel 1936 e continuerà fino al 1939. Durante l'avvento del nazismo giungono ebrei facoltosi che fanno aumentare l'influenza economica dei sionisti nella regione. E' in questo periodo che viene attuata una politica di licenziamento dei lavoratori arabi. Nel 1937 la commissione Peel propone un piano di spartizione, che poi sarà attuato nel 1947 con la risoluzione 181 dell'ONU, che ispira il titolo del documentario. Gerusalemme doveva essere territorio internazionale; la maggioranza del territorio assegnato alla minoranza ebrea; il resto alla maggioranza araba. Una spartizione iniqua. Tanto nel '37, quanto nel '47 gli arabi non si lasceranno prendere in giro. Motivo per cui non esiste ancora uno stato palestinese riconosciuto. Durante la Seconda Guerra Mondiale opera la Banda Stern, un gruppo terrorista ebraico che addirittura cercherà contatti coi nazisti ed effettuerà attentati non solo contro i palestinesi ma anche contro gli inglesi che hanno ancora il protettorato della zona. I sionisti hanno fretta di creare uno stato ebraico, con o senza l'accordo dei palestinesi. Dopo l'ultimo conflitto mondiale gli inglesi sciolgono le unità militari arabe ed esiliano i capi del Movimento Nazionale Palestinese. Gli inglesi non vogliono più saperne di quella regione e si preparano alla decolonizzazione, come già stavano facendo in India. Lo stato di Israele nasce nel sangue. Dal 1948 al '49 avviene la Al-Nakba, in sostanza la pulizia etnica ai danni dei palestinesi: villaggi rasi al suolo, in alcuni tutti i maschi dai 10 ai 50 anni vengono uccisi; nel massacro di Tantura vengono rastrellate 3000 persone che vengono chiuse in appositi campi di concentramento. Infine si vengono a creare 7 milioni di profughi palestinesi, cacciati dalla loro patria. Nel documentario qualche israeliano si chiede come mai non se li pigliano i paesi arabi confinanti; facile parlare di ignoranza, ma non si tratta di questo. In Israele esiste un buon sistema scolastico, che di norma non guarda in faccia nessuno, tutti gli intervistati nel documentario appaiono colti e ben consapevoli della loro storia. Qui si parla di banalità del male, e sono gli stessi autori del film a suggerirlo, quando si trovano a dialogare con un giovane volontario dell'esercito israeliano, appassionato di filosofia. La banalità del male è un concetto formulato da Hannah Arendt e serve a spiegare come persone colte e per bene finirono per rendersi responsabili dello sterminio di sei milioni di ebrei. Ecco, diciamo che Al-Nakba non aiuta a difendere la memoria della Shoah, ed uccide due volte le vittime dei lager, molto più di quanto possa fare un somaro negazionista delle camere a gas; nella misura in cui l'aver subito una violenza genera una coazione a ripetere, dove la vittima si identifica col carnefice. E' successo già coi boeri che in Sud Africa subirono il genocidio degli inglesi nella fine del XIX secolo e poi si ritrovarono ad applicare leggi razziste contro i neri. Succede anche ai pedofili, che spesso sono stati a loro volta dei bambini brutalizzati.
Un viaggio nel passato dunque. Senza forzare l'opinione del pubblico, secondo la vecchia regola del “show don't tell”. Effettivamente quanto da noi scritto non è revisionismo storico, si trova in tutte le biblioteche. L'operazione demistificante consiste tutta nel non parlarne o nel dare scarsa diffusione a certi testi, nel tenere ben isolati certi intellettuali, o film; quello che stiamo recensendo non fa eccezione.
Due cose alquanto “forzate” nel film: come già accennato tutti dal tabaccaio alla vecchia palestinese che vive in una casa in attesa di demolizione appaiono decisamente colti, conoscono la loro storia e si esprimono in maniera profonda. Dà l'idea che le interviste fossero molte di più e che poi in un secondo momento siano state selezionate quelle più belle, sarebbe troppo pretestuoso parlare di attori, tenendo conto del fatto che parliamo di due popolazioni uniche, le quali tutt'oggi vedono la morte in faccia. Infine ci fa pensare un secondo episodio; in un posto di blocco israeliano un ragazzo si rivolge in modo sgarbato ad uno degli autori, il quale lo mette subito in riga; subito dopo, nel posto di blocco successivo, abbiamo una adorabile coppietta di militari, che stanno per sposarsi e arrossiscono davanti alla telecamera. Un po' troppo forte il contrasto. Qui possiamo solo fare ipotesi; i permessi per muoversi e riprendere ovviamente li da il governo israeliano ed è probabile che tra un giornaliero e l'altro qualche funzionario governativo facesse sentire la sua presenza.
Da vedere assolutamente – se ci riuscite – perché tutt'oggi non ci si ammazza di fatica per renderlo reperibile al grande pubblico. Nel caso non riusciate a vederlo non disperate, restano sempre le biblioteche; elenchiamo così una piccola bibliografia per chi volesse saperne di più: “Storia del conflitto arabo-israeliano-palestinese” di Giovanni Codovini; “La grande rivolta araba (1936-39)” di Ghassan Kanafani; “La pulizia etnica in Palestina” di Ilan Pappe; “L'ebraismo armato”di Roberto Gremmo. Precisiamo che alcuni di questi autori sono ebrei, a sostegno della loro obiettività. Per chi non avesse tempo c'è online l'inchiesta a puntate di Andrea Pili sulla “Storia di Israele”, ancora in corso d'opera, che si basa proprio su questa bibliografia ed è una delle fonti di questo articolo.
Giovanni Pili
(facebook)
grande Giovanni! chi meglio di te per questa rece? me la rileggo meglio al ritorno in italia
RispondiEliminaBeviti una Guinnes per me ed una cassa in memoria dei Palestinesi e degli Israeliani morti per colpa delle "superiori ragioni di stato".
RispondiEliminaAggiungo che questo articolo spiega cose che il documentario per motivi di tempo ha potuto solo vagamente accennare, quindi conviene prima leggersi l'articolo e poi vedersi il documentario, così si hanno degli strumenti in più per capirlo meglio, sempre che non si sia già informati sulla storia del conflitto israelo-palestinese.
Eliminamolto ma molto interessante..me lo cerco subito..grazie x l'articolo
RispondiEliminade nada :D
EliminaHey Roby... ieri sera ho iniziato a tenere una rubrica di cinema su Radio News di Varese... hai qualche suggerimento per le prossime puntate ?
RispondiEliminabella lì Greg! complimenti... non so, fino ad ora di cosa hai parlato? poi dipende da cosa vuoi fare, se parlare di film in generale, su quelli in uscita, di alcuni generi in particolare...
RispondiEliminaSono partito da Prometheus (esce oggi), l'ultimo di Scott... ed ho aperto una digressione sulla filmografia di Ridley Scott e sul suo stile, maturato soprattutto come pubblicitario... e come non parlare della pubblicità "1984" per il lancio di Apple Macintosh, curata insieme ad Alan Parker con continui richiami al film "The Wall" ?
RispondiElimina