giovedì 29 novembre 2012

The Truman Show

6

Alla fine degli anni novanta si cominciava già a immaginare una vita raccontata come fosse uno spettacolo televisivo. Per la prima volta il cinema cominciava a criticare il mondo invadente del piccolo schermo, che poi tanto piccolo non è se comincia a trasformarsi in una spia che ci osserva. Ed ecco che Peter Weir, autore di tanti capolavori come L’attimo fuggente e Witness il testimone, prende l’attore comico Jim Carrey e lo ingaggia per il suo primo ruolo drammatico.

Inutile dire che Jim Carrey in questo film è sorprendente; nonostante sia stato fino a quel momento un attore comico straordinario, nel ruolo di Truman Burbank dimostra la sua capacità di immergersi anche in ruoli differenti di come la gente lo conosce. Il risultato è sopra le aspettative, ma andiamo al film.

Il film è incentrato sulla vita di Truman Burbank, una vita perfetta, un lavoro come assicuratore e una bella moglie infermiera. Ma ci sono piccole coincidenze che gli fanno capire che le cose e le persone che lo circondano non sono reali. L’arrivo del padre creduto morto conferma queste paure, come anche i suoi ricordi passati che iniziavano a fargli capire che la sua vita è uno show televisivo.

Truman comincia ad osservare il mondo che lo circonda e ne rimane turbato, perché la sua vita non è vera ma costruita come una soap opera, seguita in tv da molta gente; come uscire fuori da questa situazione? Sarà la forza di volontà di Truman a lottare per portare alla luce la verità, come anche un gruppo di persone che si introduce sul set con cartelli. Quando riuscirà a superare il trauma finalmente capirà che è giunto il momento di lasciare la sua vita fasulla per cominciare una vita vera, ma non sarà facile perché il regista dello show, Christof, farà di tutto per fermarlo, anche scatenargli una tempesta grazie ai computer.

Film che ha anticipato show come il grande fratello, è in realtà una metafora della vita: diretta da un autore in stato di grazia in quello che possiamo considerare uno dei capolavori degli anni novanta.


Il cinema analizza il piccolo mondo della tv in modo lucido e spietato, analizzando una cosa fondamentale che in realtà alcune volte succede anche nella vita reale: molte persone recitano un ruolo; solo che qui nello show sono attori pagati per vivere nello show, nella vita reale invece alcuni portano maschere, il che non è poi così differente, anche se nella realtà chi porta maschere viene prima o poi smascherato, come accade a Truman nella sua soap, il giorno in cui decide di fare irrompere la realtà nella sua vita.

In parole semplici nella soap le maschere le portano tutti, e quando Truman vuole uscire da questa vita fasulla, questo piccolo mondo casca come un castello di sabbia. Infatti il nome del protagonista non è casuale, Truman ovvero True man, uomo vero, forse perché è l’unica persona vera in mezzo a tanti attori pagati per essere la madre, la moglie, il padre etc etc… Il mondo della tv è capace di fare questo ad essere umano?

Ai tempi dell’uscita del film avrei risposto non lo so, ora con tutti gli show che la tv ci propina ogni giorno non mi stupirei affatto che una cosa del genere possa accadere.

Peter Weir si conferma un grande regista, un autore particolare e interessante. Jim Carrey è nel suo ruolo più importante, quello della svolta, tornerò a parlare di lui; gli fanno da spalla Noah Emmerich nel ruolo del suo migliore amico, e Laura Linney nel ruolo della moglie infermiera. E non dimentichiamo di Natasha McElhone nel ruolo della comparsa di cui si innamora Truman.
Splendida la colonna sonora di Phillip Glass, che include anche brani di musica classica e canzoni anni cinquanta.

In conclusione, è un film da non perdere per osservare o imparare a farlo il mondo che ci circonda, perché nel bene e nel male, siamo tutti dentro un occhio che ci osserva.
ArwenLynch

mercoledì 28 novembre 2012

Pietà

5

Eccolo qua "Pietà", Leone d'Oro 2012. Non è certo il primo premio a Venezia per l'ormai famoso Kim Ki-duk, Leone d'Argento 2004 col cacatonico "Ferro 3". Temevo quindi di cacatonare un'altra volta e non c'ho visto male infatti. Fortunatamente questo film, almeno nel finale, si salva.

In un quartiere di bassi fondi molti piccoli artigiani meccanici causa crisi e sfruttamento sono incravattati da strozzini. Lui è un esattore crudele: chi non paga deve sottoscrivere una polizza infortuni e poi mutilarsi o storpiarsi per rifondere il debito col risarcimento. Lui provvede ad "agevolare" il gesto. Arriva Lei, muta, gli sta appresso, poi gli dice che è sua madre (non è una soap opera eh, ma siam lì). Hanno una strana complicità sessuale, Lui è pieno di menate ovviamente, da che vive solo da sempre come orfano abbandonato improvvisamente si ritrova con la mamma in casa. Lei lentamente lo convince, Lui s'intenerisce anche con le vittime e finisce per perdere il posto. Sarà veramente la mamma? Cosa trama questa Lei? Sorpresa...

Per 90 min. è una spessa, pesa, logorante cerchiatura di gonadi. Ben fatta, va detto, con questi personaggi lugubri, esternatori di pive cosmiche, al solito poco o per nulla loquaci. Una cerchiatura con pantografo di precisione a bisturi. Poi finalmente Lei si scopre e ci sono 20 min. mediamente interessanti che ci salvano dall'Ade.

Troppo poco per vincere un Leone d'Oro e infatti qualcuno a Venezia s'è un po' alterato per la cosa, non lo biasimo di certo. Venezia temo sia in mano a paranoidi che hanno un'idea del cinema pari alla loro patologia e ci propugnano robe che possono solo svuotare le sale.
A me piacciono tutti i generi, va bene anche il drammatico pesantissimo, ma che siano film vitali, emozionanti... Per curiosità, per contrappasso, mi son chiesto: quando ha vinto, l'ultima volta, una commedia in questo festival di musoni? Bisogna tornare al 2001, con "Monsoon Wedding - Matrimonio indiano". E prima ancora? Se volete, divertitevi, almeno in questo, a cercarli nel palmares. Munitevi di lanternino...
Robydick

martedì 27 novembre 2012

La Masseria delle Allodole

1

In un momento (2007) in cui il Senato degli Stati Uniti aveva votato affinchè la Turchia si pronunciasse per riconoscere il genocidio del popolo armeno all'interno dei suoi confini durante la prima guerra mondiale, Paolo e Vittorio Taviani ( “Padre Padrone” [1977], uno dei loro titoli migliori, recentemente tornati in “auge” in quanto sorprendentemente premiati con l'Orso d'Oro all'ultimo Festival del Cinema di Berlino grazie a “Cesare deve morire” [2012]) hanno compiuto un atto d'accusa agghiacciante di quello che sembra proprio essere un precursore della Shoah in Germania, dei gulag in URSS e tra i genocidi avvenuti più recentemente nel tempo, a Srebrenica in Bosnia. Il risultato è una sensazione di déjà vu, che non diminuisce però il suo impatto, ribadendo invece la forza letale dei nazionalismi quando si saldano inevitabilmente con il fanatismo e l'idea di essere ingiustamente stati sconfitti e sopraffatti come popolo per una profonda ingiustizia storica.

Il film riporta alla mente Vittorio De Sica de “Il giardino dei Finzi-Contini” (1971) e, ad eccezione di “La Masseria delle allodole” va oltre e segue le donne dopo che gli uomini sono stati macellati ("Se non li cancelli, loro cercheranno vendetta "), nel deserto. La famiglia al centro, come ne i Finzi-Contini, è di medio-alta classe, integrata con successo nella società turca e, in quanto tale, apparentemente inespugnabile da cambiamenti di opinione politica, sia da parte della destra religiosa che della sinistra laica. L'incognita, ovviamente, è la guerra, che rende sempre più stretti gli spazi della convivenza civile, in quanto porta con sé la paura di un'invasione e la probabilità falsa che gli armeni si uniranno ai tedeschi. "La Turchia per i turchi!" è il grido, unificante per gli elementi fascisti all'interno dell'esercito e alimentante la paranoia di una nazione intera.

Ci sono così tante similitudini tra ciò che accade qui in Turchia e quello che è successo in tutta l'Europa con le famiglie ebraiche durante il periodo del Terzo Reich. L'angoscia si ripete, in qualche modo terribilmente,e non soltanto peggiore, perché le vittime sono soprattutto donne e ragazze e bambini. Essi sono presi dalle loro “town” (le loro case) e vengono fatti marciare verso le montagne e attraverso il deserto. Coloro che cercano di scappare sono decapitati o bruciati vivi. Coloro che sopravvivono diventano foraggio sessuale per i soldati.

Tutto questo è straziante a tal punto per cui è difficile rimanere unicamente testimoni spetattori. Non tutti i turchi sono dei mostri. Molte delle giovani reclute odiano quello che fanno ma, per la loro sicurezza, devono "obbedire agli ordini." L'inevitabilità delle stragi è come stare ad aspettare il carro del diavolo, prima di morire si può solo essere torturati e la tortura ancora prima di quella vera è essere a conoscenza che questa sarà la procedura inevitabile.

I fratelli Taviani sono noti per la loro onestà. Essi non cercano compromessi con i sentimenti dello spettatore. La vera natura della guerra, se questa si può anche definire una guerra, invece di svariati milioni di omicidi volontari, è senza pietà. Quello che è successo nell'Impero Turco-ottomano in quegli anni è stato un crimine, un orrore, solo sottolineandone il filo sottile tra l'umanità e il caos, si può arrivare a non ridurlo come vorrebbe ottenere ancora oggi il governo turco, più una questione di politica a loro ostile, un complotto delle democrazie occidentali, essendo invece una questione di speranza, senza la quale la vita non ha senso.

David di Donatello Anno 2007 Nominato al David Migliori Costumi (Migliore costumista) Lina Nerli Taviani
Miglior Design di Produzione(Migliore scenografo) Andrea Crisanti
Migliori Effetti Visivi (Migliori Effetti Speciali Visivi) Enrico Pieracciani

Sindacato Nazionale Italiano dei Giornalisti Cinematografici Anno 2007 Nominato al Nastro d'Argento per i Migliori Costumi (Migliori Costumi) Lina Nerli Taviani
Miglior Design di Produzione (Migliore Scenografia) Andrea Crisanti

Napoleone Wilson



























lunedì 26 novembre 2012

Tierische Liebe – Animal Love

3

Per Ulrich Seidl il reportage è questione di gusto, anzi di sguardo, e quello del regista viennese è talmente impietoso da sfiorare la bulimia, e tanto ingombrante da cadere (volutamente) nel capriccioso; merito di un'estetica da cinéma vérité, che affonda il bisturi della disamina sociale nelle più ascose angolature domestiche, e il coltello della dialettica nelle screpolature del quotidiano; colpa allora di un piacere eccentrico, e forse anche un po' vanitoso, che in questo Tierische Liebe raggiunge la sua compiutezza formale, assestando un colpo all'eleganza di modi ma adulando al contempo la rifinitura di stile. L'acutezza di Seidl sarà pure manierata, eppure è proprio questa caratteristica, che coniuga le brutture declinandone le sfumature, a rendere il suo lavoro, come il suo cinema, un esempio di incredibile e coraggiosa modernità. A farne le spese è l'ismo eccellente (e per eccellenza) della società contemporanea, ancor più eccessivo ed eccessivamente stravagante dell'occhio che ne riprende le storture, ovvero l'animalismo: un concetto totemico piuttosto che una presa di posizione, impagliato ed innalzato nel teatro anatomico degli spazi televisivi, laddove l'opinione da tassidermista ne esalta le virtù a prescindere da ogni considerazione oggettiva. Gli animali sono belli perché fedeli, educati, pudibondi. Ci accompagnano nei dispiaceri come nelle gioie, addolcendo i primi e intarsiando le seconde con la loro gentile presenza.

Seidl non ci sta, e ci mostra il lato oscuro, e interessante proprio perché attualissimo, degli “amici a quattro zampe” e dei loro sgangherati proprietari; Tierische Liebe inizia con un tizio grassottello che si butta a terra per giocare con il proprio cane: lo accarezza, lo morsica, lo prende a testate, si pone supino per farsi mordicchiare e coccolare dal fedele compagno. È una scena grottesca, che però ci colpisce per la consuetudine della sua (in)volontaria follia: quell'amore impalpabile e assolutamente indescrivibile che spinge l'individuo a collocare in secondo piano la pudicizia di un comportamento “umano” e rispettoso, e addirittura in terz'ordine il canonico raccapriccio per pelame e bave animali. Tierische Liebe è il grado zero dell'animalismo, il “pasto nudo” (nell'eccezione che ne dava Burroughs, ovvero il momento catartico in cui gli occhi, scivolando sul boccone trafitto dai rebbi, colgono la verità in ciò che è) qui deliziosamente trasfuso in broccato da interno borghese. Si apre così una conurbazione di individui strani, a tratti beceri a volte perfettamente padroni delle proprie emozioni, malati nella mente e decaduti (più che decadenti) nel fisico, che provano un desiderio morboso per il sudiciume, le salivazioni, gli odori più intensi e sgradevoli. E che prede di chissà quali maniacali convincimenti, trasferiscono aspettative e desideri sui loro piccoli compagni, dai due ossimorici omosessuali (l'uno pedante e ossuto, l'altro obeso e distaccato) che si contendono il pericolosissimo cane come un figlio, tirandolo chi dai piedi chi dalle zampe, fino all'anziana lettrice di fiabe per barboncini. Tra i due estremi dello spettro, c'è spazio per ogni follia: il vagabondo che sbandiera un coniglietto per impietosire i passanti, il benestante che allena il cane facendogli percorrere chilometri di tapis roulant (sotto minaccia dello strangolamento causa guinzaglio), le coppie e gli individui che palpano, accarezzano, toccano in modo decisamente ambiguo i propri ospiti.


Il film di Seidl sa essere corale ed elegiaco al tempo stesso, ed esattamente come in un altro suo grande capolavoro, Jesus, du Weisst, parte con un che di straniante per screziarsi di un sapore doloroso e irrancidito, in cui il grottesco cede il posto alla tragedia e la tragedia al senso di impotenza che si prova dinnanzi all'assurdo. I personaggi (reali e attori al tempo stesso) sono abbruttiti nella mente e nel corpo, schiavi di un ambiente umano e sociale brulicante di paccottiglia a buon mercato, velluti e vestaglie, passamanerie zebrate, tendaggi barocchi, arredamento Luigi XIV e stanzoni ammobiliati impero. Il kitsch è voluto, ma è dietro di esso, oltre la sua coltre di chincaglierie debordanti, che il nostro occhio si insinua per cogliere nessi e rimandi, ed è proprio nelle fessure di un'estetica da Duan Hanson (faro intellettuale del futuro Canicola), ormai contaminato con gli scampoli di un Ron Mueck sproporzionato, che la superficie rispettabile di questa middle-class si incupisce e degrada con inesorabile orrore. L'aspetto più interessante è però lo scarto (presunto e supposto) tra il documentario e il suo “dietro le quinte”, e se in più di una circostanza è lecito domandarsi dove finisca il reportage e cominci la recitazione (o perlomeno la manipolazione del materiale), presto si comprende che si tratta solo di una questione di pignoleria stilistica. Non è importante la fedeltà del girato, quanto la relativa plausibilità che ogni vicenda, nella sua ordinaria pazzia, riesce puntualmente a comunicare. Le storie di Tierische Liebe sono troppo assurde per non essere vere, e troppo “normali” per non destare il sospetto che dietro ogni normalità “autentica” non si celi un che di patologico, e che come in una matrioska ideologica, nell'ismo dell'animalismo non si occulti l'ismo dell'autoritarismo.
Marco Marchetti