mercoledì 31 agosto 2011

Passi di morte perduti nel buio (aka: Death Steps In The Dark)

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Assurdo thrilling pseudo-argentiano che vanta in cartellone nientemeno che il grande Robert Webber con Leonard Mann/Leonardo Manzella come protagonista.

Incredibile questo film di Pradeaux. Veramente incredibile. Nel girone infernale del bis la pellicola in questione non può che ottenere una posizione di primo piano, vista la caratura estremamente delirante dell'opera tutta. Giallo argentiano almeno nelle intenzioni, comincia addirittura come un classico "whodunit" alla Agatha Christie, con l'omicidio di una giovane donna nello scompartimento affollato di un treno, la pellicola di Pradeux é uno di quegli oggetti mutaforma che non si capisce bene dove vogliano in effetti arrivare, mischiando incautamente omicidi all'arma bianca, naturalmente compiuti da un assassino vestito di pelle nera con tanto di guanti, attrici nude con tanto di PPP di organi femminili, toni da commedia delirante tali da lasciare basito lo spettatore e il vecchio Robert Webber nei panni di un ispettore dallo stomaco tormentato. Molta carne al fuoco. Per fare un complimento al vecchio Pradeaux, senza massacrarlo come già avvenuto su qualsivoglia supporto cartaceo o portale web, possiamo dire in tutta onestà che non é proprio un gran talentaccio, visti pure i suoi precedenti cimenti registici, basti citare "Passi di Danza su una Lama di Rasoio" (1973) o l'irrinuciabile "I Figli di Zanna Bianca" (1974), un titolo che riassume meravigliosamente il modus operandi del suo regista e di certo bis d'epoca.

Durante la seconda metà degli anni settanta il genere codificato da Dario Argento comincia ad avvitarsi irrimediabilmente su sè stesso,
cercando altre vie, perdendo la morbosità degli esordi in un tentativo più o meno riuscito a seconda degli autori, di ricalcare il prototipo, offrendo degli esperimenti affascinanti come "...E tanta paura" (1976) di Paolo Cavara, che non era di certo il primo arrivato, anzi, oppure dei dignitosi prodotti d'intrattenimento come "Solamente Nero" (1978) di Antonio Bido (autore interessante, già regista de "Il Gatto dagli occhi di Giada", 1977) fino alla contaminazione di generi tout court come in "Morte Sospetta di una Minorenne" (1975) di Sergio Martino con Claudio Cassinelli senza contare questo parto di Pradeaux, che "contenitore" lo è senza meno, ma incredibilmente confuso se non cialtrone. Quando vediamo Leonard Mann vestito come una mignotta al porto, escamotàge utilizzato per non farsi riconoscere in quanto sospettato dell'omicidio sul treno, si capisce subito che lo scopo del regista non é quello di costruire un meccanismo "giallo" di quelli con i controcoglioni. Si aggiunga poi il doppiaggio che vira il tutto verso la commedia becera e pecoreccia (elemento che si stempera in parte nella versione internazionale), e il piatto é servito. Oggetto strano, si diceva, inqualificabile, portato avanti senza nessuna costruzione dell'impianto thriller, a parte i canonici omicidi, girati con mestiere ma assolutamente privi di pathos, il film é esperienza demente e balorda, quindi da testare assolutamente in "prima persona", in cui "l'alto" tende verso il "basso" regalando allo spettatore e amante di simili prodotti l'accoppiata inedita Robert Webber/Leonardo Manzella, doppiato in romanesco, sogno (o incubo?) proibito del cinefilo degenerato. Impagabili i siparietti di Mann con la modella svedese Ingrid (in realtà l'attrice greca Vera Krouska, grande nome, non c'é che dire) o l'uscita notturna in macchina dei protagonisti verso il finale, per non parlare della risoluzione finale alla cena in società, delirio massimo degli sceneggiatori (lo stesso Pradeaux con il sodale Arpad DeRiso) che mostrano l'assassina insospettabile, nel senso che il personaggio si era visto per un nanosecondo, inseguita dalle sue vittime con effetti fotografici viranti sul rosso.

Consigliato ai completisti del genere e agli estimatori del buon Leonard Mann, Robert Webber non ha bisogno di presentazione alcuna, italoamericano che ha trovato spazio prima in ambito spaghetti-western, basterebbe citare "Il Pistolero dell'Ave Maria" (1969) di Ferdinando Baldi oppure "Ciakmull" (1970) di Enzo Barboni "Clucher" con il grande Woody Strode, ma che fu anche Gesù nel Lacrima di co-produzione spagnola-messicana "Luca, Bambino mio" ("El Cristo del Océano, 1971) di Ramòn Fernandez e interprete per Florestano Vancini in "Amore Amaro" (1974) con Lisa Gastoni, gran bella faccia, funzionale in tutti generi, poliziottesco compreso, partecipò pure al serial "Charly's Angels", chiude il film su una squisita espressione gergale rivolta ad una giovane donna, suggello supremo a cotanta pellicola o affettuoso saluto al suo "regista" Maurizio Pradeaux. Co-produzione greca in associazione con la Salaria film di Aldo Ricci che cura anche la fotografia. Musiche del maestro Riz Ortolani.
Belushi

Robydick:
la bella Sylvie Vartan con "Tous les garcons et les filles" accompagna il frameshow di oggi.

martedì 30 agosto 2011

Day of the Dead - Il giorno degli zombi

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Robydick: oggi c'è La Prima di (spero) numerose recensioni che l'amica Lucia pubblicherà qui da noi con cadenza mensile, e questa è anche l'ultima volta che m'intrometto nei suoi lavori, ma ho il dovere di fare gli onori di casa, come si dice. Ve la presento facilmente: ha un blog di Cinema da me molto apprezzato che s'intitola, ma tu guarda il caso!, "ilgiornodeglizombi", scritto proprio così, tuttattaccato.
Sono felicissimo di ospitarla e le lascio subito la parola.


Quando Romero decise di concludere la sua trilogia sui morti viventi, aveva in mente un'altra storia, che sarebbe poi diventata la bozza della sceneggiatura di Land of The Dead. Lo script del terzo capitolo era già in fase di preparazione nel 1978, ma dovranno passare quasi sette anni prima che Day Of The Dead veda la luce.

L'idea originaria vedeva un mondo del tutto invaso dagli zombi, in cui i pochi esseri umani sopravvissuti si erano rifugiati dietro spesse mura, quasi fortini medievali, in perenne guerra tra di loro. Appariva anche un esercito di zombi addomesticati e semi-raziocinanti. Purtroppo, questo copione non sarà mai realizzato. L'uscita di Zombi 2 di Fulci blocca per qualche tempo il proseguimento del discorso romeriamo sui morti che camminano. Nel frattempo Romero gira Knightriders e i due Creepshow e, quando finalmente decide di tornare a occuparsi dei suoi cadaveri ambulanti, lo fa con un budget molto ristretto, in cambio di totale libertà creativa e di avere l'ultima parola sul montaggio definitivo. Per motivi economici, la sceneggiatura viene rimaneggiata. L'ambientazione è sempre quella di una terra in cui i morti hanno preso il sopravvento sui vivi, ma l'azione si sposta in una base militare sotterranea, dove un gruppo di scienziati impegnati nella ricerca di una cura deve sostenere una difficile convivenza con dei soldati stanchi, sull'orlo del crollo nervoso e resi feroci dall'isolamento e dal crollo delle consuetudini del vivere civile.

Se nei primi due film della trilogia, il sottotesto politico rimaneva ancora in disparte e i morti viventi avevano una valenza simbolica, ma non apertamente sociale, in questo Day of The Dead Romero costruisce quasi un film a tesi, che potrebbe essere letto in maniera speculare rispetto a un altro capolavoro che mette al centro della trama il conflitto tra scienziati e militari: The Thing from Another World (1951) di Christian Nyby (anzi, di Howard Hawks). In entrambe le opere, si crea una forte dicotomia sui metodi con cui affrontare la minaccia. Ma mentre l'entità aliena viene sconfitta dai soldati, con la forza bruta contrapposta in maniera positiva alla volontà di capire degli scienziati, vista invece in maniera del tutto negativa, gli zombi di Romero non possono essere sconfitti, né con la violenza, né con i tentativi di addomesticarli del dottor Logan. Sebbene la simpatia del regista vada chiaramente al gruppo di civili, qualsiasi tentativo di uscire vittoriosi è inutile. Il mondo è finito e non ci è dato neanche di comprenderne i motivi. Non c'è cura, non c'è rimedio, non c'è nessuna speranza, o forse sì, ma è talmente piccola, assomiglia più a un'ottusa ostinazione, quella di continuare a segnare i giorni su un calendario, di continuare a voler parlare, di continuare ad appellarsi a una compassione che non ha più senso di esistere. Questo flebile anelito di speranza poggia quasi del tutto sulle spalle di Sarah, indimenticabile personaggio femminile, interpretato da una Lori Cardille destinata poi a sparire nel nulla, ma in grado di regalare un'intensità straordinaria a una scienziata, unica donna in un universo maschile, unica fonte di luce in un'oscurità che avvolge ogni cosa, determinata a non perdere la sua umanità neanche di fronte all'atroce comportamento dei suoi compagni di sventura.

E' raro trovare delle figure di donna così complesse e sfaccettate nella filmografia di genere, ma Romero più che un virtuoso della macchina da presa, è sempre stato un narratore, un cantastorie, ed è proprio sui personaggi, sulle loro reazioni all'apocalisse e sui reciproci rapporti che si instaurano in una situazione di assedio, che la trilogia originale dei morti viventi ha sempre avuto il suo punto di forza. Romero imbastisce un gruppo di caratteri che non hanno scelto di stare insieme, che sono obbligati a convivere e che invece di collaborare, decidono di farsi la guerra. In questa situazione, l'invasione degli zombi è quasi accidentale. Per quanto possa essere seria e devastante la minaccia, non sarà mai paragonabile all'inferno in cui, giorno dopo giorno, si trasforma la base militare: è l'uomo il problema, lo zombi non è altro che un suo prolungamento la cui unica funzione è quella di deambulare e mangiare. In un discorso estremamente coerente, quasi programmatico, iniziato nel '68 e terminato nel 1985, Romero fornisce i suoi morti viventi di alcuni rudimentali processi mnemonici, a sottolineare la loro appartenenza alla nostra stessa specie. In Dawn of The Dead, l'impulso ad aggirarsi per il centro commerciale e a consumare rappresentava un fantasma di ricordo di una vita precedente, ne Il Giorno degli Zombi, la situazione si evolve e si sviluppa fino alla nascita del personaggio di Bub, il morto in grado di apprendere e che pronuncia addirittura una linea di dialogo. Non è il Big Daddy del capitolo successivo. Per questo è bene sottolineare che il discorso si interrompe nel 1985. Da questo momento in poi, con la lodevole eccezione di Diary of The Dead, Romero passa a fare altro, un qualcosa che è ancora difficile da definire e che ha dato risultati discontinui. I morti de Il Giorno degli Zombi restano ancora massa indifferenziata e divorante. Bub è un caso unico e raro, non rappresenta un'evoluzione globale dello zombi in sé, non si pone a capo degli altri zombi e non guida una rivolta degli straccioni. Forse l'unico film recente in grado di riprendere e sintetizzare l'essenza di una figura come Bub è Fido, intelligente horror comedy del 2006 diretta da Andrew Currie. Lo zombi come animale da compagnia, come scimmietta ammaestrata, ennesima vittima, priva dell'orgoglio e della consapevolezza dei morti di Land of the Dead. Bub ascolta la musica e impara a usare la pistola, ma non si ribella al suo creatore, soffre della sua morte e necessita di cospicui premi in carne umana, se risponde in maniera corretta agli stimoli del professor Logan. Bub è solo, non si unisce ai suoi simili quando invadono la base e non viene accettato dagli esseri umani. E' una figura straziante perché è l'unico della sua specie. Come lo è l'altro personaggio positivo del film, Sarah. Entrambi condannati a una solitudine esistenziale assoluta e definitiva, mentre il mondo se ne va allegramente a rotoli: branchi di morti viventi all'esterno, branchi di iene all'interno.

Romero si prende gioco della scienza e dei suoi patetici tentativi tramite il dottor Logan, mentre indirizza le sue bordate antimilitariste nei confronti del capitano Rhodes. Nulla viene risparmiato dalla satira al vetriolo del regista che celebra con una risata sardonica la morte della pietà. Eccovi le vostre "magnifiche sorti e progressive": cadaveri privati di organi che ancora si dibattono e cercano cibo, corpi smembrati e divorati mentre urlano, gente freddata con un colpo di pistola solo per dimostrare chi è il più forte. Ma sì, tanto vale farli entrare, quei morti che camminano e che si prendano ciò che resta di questa umanità che non merita di essere salvata.

Al di là dei sottotesti politici e sociali, Day of The Dead è un film dell'orrore perfettamente in grado di reggersi sulle proprie gambe, anche senza scomodare il metaforone ogni due inquadrature. Anzi, è il film horror perfetto, adulto, privo delle contaminazioni con l'action che avrebbero minato il sottogenere zombesco in futuro, lucido e disperato fino al nichilismo, nonché perfetto da un punto di vista strettamente tecnico. La regia di Romero, come sempre, non abbonda in movimenti di macchina esasperati. E' lenta, fa un uso metodico e costante della macchina fissa, si avvale del campo lungo anche in spazi ristretti, aiutata in questo dal montaggio perfetto di Pasquale Buba, già visto all'opera di Creepshow e Knightrider. Non c'è un solo minuto superfluo, ogni cosa è incastrata alla perfezione e mai si perde di vista l'obiettivo fondamentale, che è quello di raccontare una storia di paura che rimanga impressa. Menzione speciale per il make up di Savini e di un giovanissimo Nicotero (anche attore, nel ruolo del soldato Johnson): Day of the Dead è il capitolo più splatter dell'intera trilogia originale. L'abbuffata degli ultimi quindici minuti è un qualcosa destinato a restare negli annali di tutta la cinematografia horror mondiale, per precisione chirurgica degli effetti (eravamo nell'85, niente CGI, grazie) e per come il dolore viene rappresentato. Sembra quasi di sentire la carne che si strappa e i morsi degli zombi che ci fanno lentamente, ma inesorabilmente a pezzi.

Uscito negli Stati Uniti nel giugno del 1985, Il Giorno degli Zombi fu un fiasco al botteghino, l'episodio della saga dei morti viventi romeriani a incassare meno. Forse troppo politicizzato, o troppo riflessivo, per un'epoca che al cinema horror chiedeva cose diverse rispetto al decennio precedente, terrà lontano il Maestro dai suoi zombi fino al 2005, quando il sottovalutato Land of the Dead inaugurerà una nuova trilogia, destinata a prendere una diversa direzione. Il Giorno degli Zombi resta forse il miglior film di Romero, di sicuro il suo più sentito e personale, l'opera che più di ogni altra rappresenta il suo sguardo disilluso e, allo stesso tempo, pieno di compassione sul mondo.

Lucia

lunedì 29 agosto 2011

Gordon's War - La Guerra di Gordon

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Hanno detto che ci vorrebbe un esercito per ottenere la sicurezza ad Harlem. Questo è l'esercito! Questa è la guerra di Gordon!” - Dalla tagline originale di promozione del film.
Paul Winfield/Gordon Hudson :- “Ancora non capisci vero? Non andiamo mai a giro disaramati!
Gordon Hudson :- “Prenderò un esercito, e ripulirò dalla droga le strade di Harlem!

Il veterinario e reduce dal Vietnam Gordon Hudson (Paul Winfield, tra i tanti film della sua lunga carriera, “Terminator”['84] di James Cameron, e il grande successo americano “Sounder”['74] di Martin Ritt) torna a casa per trovare le strade di Harlem invase da spacciatori di droga. Il problema lo colpisce davvero anche a casa quando Gordon scopre che sua moglie è anch'ella dipendente dalle sostanze stupefacenti, forzando così la mano di Gordon, che è stato pure inseguito quasi a morte da Harry lo Spagnolo(Lewis Gilbert), un altro gran pezzo di merda a tutto tondo. Insieme a tre amici ex-combattenti che hanno servito come lui e con lui, in 'Nam, Gordon comincia a lottare contro gli spacciatori e i magnaccia, per porre fine alla violenza che affligge le strade della sua città. E ripulirle dalla spazzatura comandata dal capo magnaccia e spacciatore, dalla Rolls Royce rosa pastello con interni bianchi come gli pneumatici, Big Pink (Nathan c. Heard); gran bastardo a tutto tondo, da eliminare, e non dovrebbe essere difficile da riconoscere, visto il suo buon “cattivo gusto” incredibile, ma anche irresistibile.

"La Guerra di Gordon", grande film blaxploitation molto più grande di come possa apparire, uscito anche in Italia nel 1973, e vero capolavoro da riscoprire del genere, si svolge molto velocemente. Con solo pochi minuti assegnati per la creazione della storia, il film innesta la marcia più alta praticamente dal via, come Gordon e la sua squadra iniziano ad affrontare la feccia dello spaccio di droga ad Harlem da angolo ad angolo. Non importa che Gordon sia in grado di intraprendere il funzionamento e l'organizzazione della sua iniziativa con poco in termini di risorse disponibili; allo spettatore è semplicemente richiesto di accettare solo che Gordon ha una tale grinta e determinazione da calci in culo, che può benissimo mettere su un commando dotato con tutti i tipi di kit di sorveglianza e difesa, pronto ad andare a sostenere appunto, "La Guerra di Gordon".

Il film diretto dal bravo Ossie Davis (anche famoso attore di colore, pure lui come Winfield scomparso da non molto tempo, e interprete dell'impagabile co-protagonista di “Bubba Ho-Tep”['04] di Don Coscarelli, -da queste parti già affrontato-, un John F. Kennedy nero e senilmente malmesso, in sedia a rotelle dall'attentato subito a Dallas) non è interessato ad offrire un ritratto realistico sul problema della droga che esiste ed esisteva per le strade di Harlem, offre Invece un semplice ma sempre molto emozionante gioco morale delle parti, una storia di bene contro il male in cui l'esito non è scontatamente fuor di dubbio.

“La Guerra di Gordon”, o “Gordon's War” non è certo un lavoro originale, ma riesce in virtù del grande lavoro artigianale che è stato dedicato al film. Victor J. Kemper come direttore della fotografia dà al film un'estetica grintosa che in molti modi aiuta svariati passaggi di sceneggiatura e scene che avrebbero sennò potuto mancare un poco di profondità. Allo stesso modo, il cast, in particolare Paul Winfield e Lewis Gilbert, forniscono interpretazioni molto autentiche ed emozionanti, che non abbandonano mai lo spettatore nel dubbio sulla cazzutaggine tostissima dei personaggi, o sulla grande meschinità dei cattivi. In “Gordon's War”, cercando le superbe sequenze d'azione che contiene, -come uno spettacolare inseguimento auto-moto tra i più emozionanti realizzati nel cinema americano di quegli anni-, e le eccellenti parti di recitazione, in definitiva, “Gordon's War” si rimane molto soddisfatti ed emozionati, grado di superare le eventuali carenze che potrebbe sennò possedere.

Molto bella la recentissima edizione in DVD R1 in un double-bill del giugno scorso, pubblicata dalla sempre più benemerita Shout!Factory, in cui il film viene tirato fuori da un abbastanza lungo “letargo” digitale, e presentato con una traccia di commento del suddetto direttore della fotografia Victor J. Kemper, e dell'attore Tony King (il personaggio di Roy Green nel film, attivo anche nel cinema di genere italiano, incisivo e come sempre indimenticabile, in “Apocalypse Domani”['80] di Anthony M.Dawson [Antonio Margheriti]). Tra gli aneddoti di Kemper (che ha anche lavorato in film diversi e molto importanti di successo critico, oltre che commerciale, come fra i tanti “Quel Pomeriggio di un giorno da cani” [Dog's day afternoon]['75] di Sidney Lumet, e “National Lampoon's Vacation”['83] di Harold Ramis) fornisce una conoscenza più tecnica nel film. Sono inclusi, anche una bella serie di spot televisivi e trailer originali del film, dell'epoca.
Nel film è presente Grace Jones, nel ruolo di Maria.

Napoleone Wilson

domenica 28 agosto 2011

La bestia in calore (aka: SS Hell Camp) - Horrifying Experiments of S.S. Last Days

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Il caro amico/socio Belushi mi perdonerà questa invasione nel suo amato percorso di bis e exploitation, ma questo è un sottogenere a cui sono affezionato. Visto per caso che ero ragazzino, perversamente intrigante, che ha avuto poche ma curiose pellicole soprattutto italiane alcune delle quali compariranno qua: il nazisploitation.

In un paese del nord italia siamo agli sgoccioli della presenza dei nazisti che forse anche per questo sono più feroci che mai. I partigiani lottano mietendo qualche successo e il paese poi subisce ritorsioni tremende. Durante i rastrellamenti uomini se ne trovano pochi, sono tutti alla macchia e le donne, le più giovani, vengono rapite per essere sottoposte a torture terribili, cosa che poi capita anche ai partigiani o presunti tali catturati, allo scopo di avere informazioni.

Il mezzo (la tortura) va' però ben oltre il necessario, ha un carattere, si passi il termine, sperimentale, come direbbe "herr doktor" Mengele, personaggio tra i grandi ispiratori di questo de-genere di film. Ad occuparsene personalmente è la sadica dottoressa Ellen Kratsch (la stupendissima Macha Magall, che a me ha fatto un gran sangue, detto sinceramente), sessualmente bivalente, coadiuvata da due assistenti che probabile, ma purtroppo con comprovato da immagini, le tenevano compagnia anche la notte. La dottoressa porta avanti ricerche sulla potenzialità animale degli esseri umani così come sulle loro capacità di sopportazione del dolore (più o meno). La sua più mostruosa creatura è un uomo scimmiesco trasformato in una macchina di sesso, alla quale vengono date in pasto donne all'interno di una gabbia, che massacra, penetra e pure divora, e chi han scelto per il bestiale ruolo? Proprio il mitico Salvatore Baccaro, nessuno poteva meglio di lui interpretarlo.

Recitazioni da B-movie tal com'è la produzione, meglio non dargli troppo peso, tranne per la Magal e per Baccaro che emergono alla grande. Film a budget ridottissimo, tanto che gli aerei che bombardano è fin evidente che sono dei modellini. Eppure alcune scene sono veramente da culto. A parte i feroci strupri de La Bestia nella gabbia, ma poi le feroci torture, altri strupri, nudi integrali maschili e femminili a non finire. Tremendi anche i rastrellamenti con un momento spaventoso, quando un neonato viene lanciato in aria a guisa di piattello per i mitra dei tiratori nazisti, una cosa agghiacciante.Tutt'altri sentimenti stimolati quando la dottoressa seduce un partigiano appeso per le braccia, e subito dopo evira quello appeso affianco che aveva "osato" eccitarsi per la cosa...

Spiazzante è il misto di sesso spinto, manie sadiche, ecc..., e, pur con interpretazioni appena passabili, contenuti sui classici argomenti di guerra, come appunto il ruolo dei partigiani nella stessa, spiattellati lì che ti lasciano interdetto, in un modo esplicito nel senso popolare del termine. Non manca nulla ma è mischiato con la cura di un cuoco demente. Mangereste i wafer alla nocciola conditi col pesto? O magari gli spaghetti con marmellata di rose, aglio e acciughe? Così, tanto per fare qualche esempio culinario, perché alla fine non capisci nemmeno te che sapore ti rimane in bocca. Ecco perché il film entra a pieno titolo nella mia personale categoria Trash, dei Cult indefinibili.

A mio parere imperdibile!

Chiudo con un po' d'accademia, che poi non si ripeterà nei prossimi film di genere.
Cos'è il nazisploitation, o anche nazi movie? Come avete letto, un misto di horror exploitation e sexploitation con protagonisti i nazisti nella loro accezione più crudele, in particolare le fanatiche SS. Per me sono ingredienti che stimolano l'appetito...
Questo genere ha subito non poche censure, leggete quanto riporto dalla pagina wiki dedicata a riguardo dei c.d. "video nasty":
Durante la prima metà degli anni ottanta, la nazisploitation giunse anche sul mercato inglese, resa popolare dal crescente mercato home video VHS. Dato che gli studi di Hollywood andavano sfruttando sempre più il nuovo formato, il genere venne affidato a piccole compagnie domestiche che andavano rifornendo gli scaffali con i nastri. Una piccola compagnia inglese, la GO Video, ottenne i diritti di un film italiano intitolato SS Experiment Camp. La compagnia intraprese una campagna pubblicitaria in cui veniva raffigurata una donna nuda dalla testa ai piedi, con una svastica che pendeva dalla sua vagina ed un esercito di SS che marciava sullo sfondo. I manifesti del film appesi nei videonoleggi divennero l'obiettivo di gruppi di protesta che decisero di far chiudere questi negozi e chiesero che il film venisse vietato. Dopo il Video Recordings Act, la maggior parte dei film di nazisploitation (etichettati come 'Nazi Nasties') divennero illegali nel Regno Unito.

I seguenti film nazisploitation sono tutt'oggi vietati:
  • Camp 7: lager femminile, regia di Lee Frost (1969)
  • La bestia in calore di Luigi Batzella (1977)
  • L'ultima orgia del III Reich di Cesare Canevari (1977)
  • Casa privata per le SS di Bruno Mattei (1977)
  • Le deportate della sezione speciale SS di Rino di Silvestro (1976)
  • Ilsa, la belva delle SS di Don Edmonds (1974)
  • Salon Kitty di Tinto Brass (1975)
  • Kaput Lager - Gli ultimi giorni delle SS di Luigi Batzella (1976)
  • Liebes Lager di Lorenzo Gicca Palli (1976)
  • KZ9 - Lager di Sterminio di Bruno Mattei (1977)
  • Lager SSadis Kastrat Kommandantur di Sergio Garrone (1976)
  • Le lunghe notti della Gestapo di Fabio De Agostini (1977)
  • SS Lager 5: L'inferno delle donne di Sergio Garrone (1976)
  • La svastica nel ventre di Mario Caiano (1976)
Be', è un elenco interessante no? Visto che nomi tra i registi? Qua nel blog siamo solo al primo...
Robydick

Ad accompagnare il frameshow di oggi, musica adeguata. Una "interessante" e "imperdibile" compilation che ho trovato su youtube: "Best Wehrmacht Songs".


sabato 27 agosto 2011

La Banda del Trucido

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Er Monnezza abbandona Umberto Lenzi, non senza qualche battibecco tra i 2, per recarsi da Stelvio Massi. Perché l'ha fatto non so, ci vorrebbe una parola definitiva dei 2 interessati. Il risultato però è un film appena decente, guardabile proprio per le performance di Tomas Milian nei panni del riccioluto coatto romano, ma anche nel suo caso "La Banda del Gobbo" è decisamente di un'altra categoria.

E' proprio un gran belloccio Luc Merenda nei panni del commissario Ghini. Affronterà rapinatori, interpretati da pezzi grossi del cinema, come Franco Citti nei panni del Lanza e soprattutto un cattivissimo e sicilianissimo Elio Zamuto nei panni di Belli, rapinatore di gioielli dal grilletto facile. Altra bella presenza quella di Mario Brega, 'na volta tanto a fare uno serio: il questore. Riguardo alle "manze" non ci sono particolari punte da segnala', se vede giusto 'na zinna della bionda moglie di Ghini, ebbasta.

Anche qua, come per il film di Lenzi, Milian s'è scritto tutti i pezzi de Er Monnezza, però vive come in un film parallelo, tranne che nel finale. Pochi i momenti di contatto tra quanto indaga Ghini e la scuola "W la F.I.G.A." da lui fondata per "istruire" piccola delinquenza al borseggio, allo scippo, ecc..., sempre con un diktat: non si usano le armi. Divertente come sempre, un po' forzato qualche volta, i discorsi moralisti paiono cadere dal nulla anche alla Pernacchia, la trattoria che gestisce, uno di quei posti dove la Parolaccia e l'Offesa gratuira e sboccatamente pecoreccia sono caratteristica del locale. Insomma, sembra che è stato fatto un film prima e inserito poi Er Monnezza con il figlio "monnezzino" e la moje buzzicone, attrice de scoregge, poi.

Non ci siamo. Non lo stronco eh, un po' di svago c'è, altro punto di forza 'na gran carrellata de auto dei tempi tra cui più apparizioni di Lancia Fulvia Coupé mitiche, ma la Palma di Legno come "peggior poliziottesco" tra quelli che ho visto finora nun jela toje nessuno, me spiace ma che posso di'?

Robydick

venerdì 26 agosto 2011

All'Onorevole Piacciono Le Donne, nonostante le apparenze...e purché la nazione non lo sappia (aka: Obsédé malgré lui)

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Straordinaria commedia fulciana con Lando Buzzanca che andò incontro ad una serie di problemi censori a causa dei contenuti "sovversivi" non apprezzati dalla Democrazia Cristiana vigente all'epoca dell'uscita.

Grande film questo "All'Onorevole piacciono le Donne". Conosciuto e amato da una legione di fans per i suoi film del terrore (così come li avrebbe chiamati il grande regista romano) spesso ci si dimentica come Fulci sia stato un vero e proprio pilastro della commedia italiana. Aiuto regista di Steno (Stefano Vanzina) fin dal 1951 per "Totò e i Re di Roma", sceneggiatore, grande umorista, appassionato d'arte e musica jazz, creatore pure in parte del personaggio di Nando Moriconi (la disputa con Sordi per l'appropriazione dei meriti finì addirittura in tribunale) nonchè amico di Totò, che reciterà nel suo esordio registico "I Ladri" (1959), Fulci é stato personaggio che moltissimo ha dato alla cinematografia nazionale, vedi anche le collaborazioni con il gotha degli sceneggiatori del periodo, regista prolifico che dopo i film con Franchi e Ingrassia si cimentò nel thrilling con i risultati che tutti conosciamo. Subito dopo "Una Lucertola con la pelle di donna" (1971) infatti si imbarcò in questa commedia feroce con i fidi Sandro Continenza e Ottavio Jemma, prodotta da Edmondo Amati, figura straordinaria di Produttore, con la maiuscola perchè di questa tempra non ce ne sono davvero più, interpretata da Lando Buzzanca, che ebbe problemi censori di non poco conto. Col senno di poi è facile individuare i motivi di questa persecuzione vera e propria; il film era semplicemente troppo avanti sui tempi e ferocissimo nel parodiare i meccanismi della politica, tanto che fu proiettato in "anteprima" ad un manipolo di personaggi rispondenti ai nomi di Forlani, Andreotti, Matteotti e, soprattutto Emilio Colombo, allora presidente del consiglio, al quale gli sceneggiatori si ispirarono pesantemente per il personaggio principale della pellicola, Onorevole Giacinto "Giacintuzzu" Puppis, cioè Lando Buzzanca, truccato da Giannetto De Rossi proprio come il politico sopra citato.

Ufficialmente sequestrato per oscenità, ma in realtà bloccato dagli alti papaveri del mondo politico orbitanti in area D.C., il film racconta le vicende del Presidente del Consiglio Puppis, in procinto di essere eletto Presidente della Repubblica, uomo religiosissimo e morigerato, afflitto da un terribile raptus sessuale che lo costringe a brancare qualsivoglia culo femminile, all'occorrenza pure maschile (riferimento non proprio velato all'omosessualità di Colombo) per il quale verrà prima ricattato a causa di compromettenti riprese video e poi gettato in una spirale di intrighi politici, mafiosi e militari, con riferimento diretto al famoso golpe organizzato dal principe Junio Valerio Borghese nel dicembre 1970. Molta carne al fuoco, gestita da Fulci con un sarcasmo tale da far sì che gli autori stessi, Amati compreso, venissero presi di mira nientemeno che dai servizi segreti, secondo le testimonianze d'epoca e la ricostruzione dei fatti operata da Paolo Albiero e Giacomo Cacciatore ne "Il Terrorista dei Generi", monumentale biografia fulciana.

Bisogna ammettere che il film funziona ancora oggi, sia grazie a Buzzanca, sia per la grande regia del Nostro, tecnico extraordinaire, ma non lo diciamo noi, bensì coloro che i film li facevano sul campo, che qui dimostra ancora una volta la totale padronanza del mezzo cinematografico. Dal titolo si potrebbe facilmente associare la pellicola in questione ad una "semplice" ginecommedia o farsaccia pecoreccia, niente di più errato perchè sono proprio i personaggi ad essere ripresi e raccontati senza pietà, il coté erotico pure presente non costituisce la prima portata del menù, massacrati senza ritegno dall'occhio fulciano che non risparmia nessuno. Né politici, né forze dell'ordine, né religiosi. Neppure i "deboli", semplici pedine in mano alla classe egemone che, semplicemente, senza alcun dilemma etico, vengono fatti sparire, "canonizzati" secondo l'arguta definizione di Don Gesualdo (il grande Corrado Gaipa) mafioso che ricicla i corpi delle vittime come statue di cera raffiguranti immagini sacre da spedire alle varie diocesi.

Deus ex machina della situazione é il cardinal Maravidi (un sanguigno Lionel Stander) vero "padrino" della politica italiana, colluso con la mafia e creatore della carriera politica di Puppis, un semplice pupazzo, come suggerisce il nome stesso, piazzato nel corrotto universo politico al solo e unico scopo di "servire" il clero, che lo ha indottrinato fin da giovane nel tentativo riuscito di creare una macchina politica perfetta. Una volta scoperte le gioie del sesso, il manovrabile Giacinto tenterà, appunto, di farsi una sana trombata liberatoria, prima deflorando il parterre femminile del convento in cui viene inizialmente curato da un frate psichiatra (Francis Blanche) poi "impallando" la moglie dell'ambasciatore francese (una splendida e nuda Anita Strindberg, attrice che non ha bisogno di presentazione alcuna) per arrivare a godersi la bellissima Suor Delicata, unica sorella rimasta illibata al convento, interpretata da Laura Antonelli, bellissima, cortocrinita, da sturbo con la veste sacra, che litigò di brutto con Fulci perchè pare non si volesse concedere alla cinepresa. In questo senso il parterre femminile è notevole, comprendendo pure Eva Czemerys (la visione onirica del presidente, attrice bellissima, la ricordiamo ne "La Gatta in Calore" di Nello Rossati e come madre di Mark Gregory in "Fuga dal Bronx" di Castellari), una giovane Agostina Belli e, in un breve cameo come madre superiora, la seconda moglie di Fulci, Ursel Eberz.

Ottimo cast con Claudio Nicastro, Quinto Parmeggiani, Pupo De Luca e Renzo Palmer, magnifico nel ruolo di Padre Lucion, amante dei toscanelli e uomo religioso non proprio ligio al dogma, in cui svetta Buzzanca, qui piuttosto misurato e credibile nel ruolo assegnatogli, diretto e guidato da un Fulci veramente in stato di grazia, virtuoso e capace di muovere la macchina da presa in un ambito apparentemente più "controllato" come quello della commedia, basti pensare alla bellissima scena del raptus in ascensore, girata come un horror, o il sogno in cui compare "l'albero dei culi" che si materializza di fronte all'estasiato Puppis. E poi, ci sia consentito di dire, uno dei finali più cupi, neri, bui, che la commedia italica ci abbia mai presentato, sottolineato dalla fotografia del bravo Sergio D'Offizi. Il presidente Puppis, ormai lanciato verso la presidenza della repubblica perchè anche l'ultimo serio pretendente è stato eliminato da Maravidi in un incidente aereo (il grande Fedor Chaliapin, che poi parteciperà a "Inferno" di Argento) si appresta a parlare alla nazione tutta davanti alla telecamera, previo bacio, amarissimo, alla "statua di cera" raffigurante una Suor Delicata ormai canonizzata. Cominciato il discorso, le parole si fondono con la sigla del "Rischiatutto" e con la successiva risata del concorrente vincitore del montepremi per aver risposto ad una domanda sulla musica leggera. Un pozzo nero.

Consigliatissimo. Il film venne prima concepito con il titolo "Nel Supremo Interesse della Nazione" e come "Il Presidente" e "L'Onorevole piace alle donne". Dopo il sequestro del gennaio 1972 venne regolarmente distribuito dal 01/03/1972. I tagli censori colpirono almeno cinque scene, nessuna delle quali a sfondo sessuale, ma bensì raffiguranti i rapporti non proprio limpidi tra le forze dell'ordine, i servizi segreti e la malavita. Più, narra la leggenda, delle candid camera girate a discapito di vere personalità politiche durante la manifestazione del 2 giugno, punto focale della sceneggiatura, così come testimoniato dalla segretaria d'edizione Rita Agostini. Montaggio di Vincenzo Tomassi. Da vedere.
Belushi

Robydick:
Vista la situazione di "malattia" disperata dell'onorevole, questo appello di Alberto Camerini dal titolo "Droga (aiutami dottore)" m'è sembrato un simpatico accompagnamento per il frameshow.


giovedì 25 agosto 2011

Gekitotsu! Satsujin ken (aka: The Streetfighter) - Il teppista

9

Dopo la visione di "Cinque dita di violenza" e di "Dalla Cina con furore", icone del boom dei film di arti marziali in Italia e nel mondo, questo era per me un passaggio obbligato. Siamo di fronte a un cultissimo del genere e ad un personaggio che, almeno per il Cinema, possiamo considerare "il Bruce Lee giapponese", Sonny (Shinichi) Chiba.

Dalla pagina wiki: « Chiba? Chiba, mi domandate, eh? Be'...ve lo dico io cos'è Chiba. Semplicemente il più grande attore, dopo Bruce Lee, che abbia mai lavorato nei film di arti marziali » (Quentin Tarantino).
Sottoscrivo alla lettera, risponderei esattamente così anch'io e questo film, che vide l'esplosione internazionale dell'attore già da anni all'opera con la "Toei Company Ltd." ma solo in ambito nazionale, basterebbe a riprova. Non a caso ho messo la locandina estera prima, perché nello specifico ebbe la sua importanza.

Completiamo ancora con qualche dato biografico dell'importantissimo attore giapponese. Anzitutto lui non era praticante di Kung-Fu come l'illustre cinese, bensì di Karate e Judo in diverse specialità. Ecco l'elenco delle sue cinture nere: Ninjutsu—Quarto Dan; Gojuryu—Secondo Dan; Jūdō—Secondo Dan; Kendo—Primo Dan; Shorinji Kempo—Primo Dan; Kyokushin Karate—Quarto Dan. Inoltre è fondatore della scuola Japan Action Club. Me' cojoni! direbbe Er Gobbo, personaggio che stimo moltissimo. Bisogna averle praticate le arti marziali, come il sottoscritto da ragazzo, per aver coscienza del mazzo terribile che bisogna farsi, oltre al talento che occorre necessariamente, per arrivare a simili risultati. Ha fatto parte anche della squadra olimpica giapponese il grande Sonny, ma è nel Cinema che ha portato il meglio di sé e noi appassionati glie ne saremo eternamente grati.

Eh sì, Bruce Lee "nun se batte!", come ho detto tante volte e ora ho scoperto dire pure da Tarantino. Il fenomeno cinese ha portato il corpo umano a performance limite che sanno di disumano. Ma Sonny Chiba segue a non troppe lunghezze, ha una gran bella faccia capace di espressioni fumettistiche, doti interpretative notevoli nelle quali fin supera lo specializzatissimo cinese infatti ha partecipato anche a moltissimi film non di genere e persino in serie tv, qualità atletico sportive già descritte.

Personaggio di rilievo assoluto Sonny Chiba. Nato nel 1939 e ancora in attività, meritava questa presentazione.

Il film, semplicemente entusiasmante, è presto definito in breve: un Pulp in arti marziali.
Takuma Tsurugi (Sonny Chiba) è un killer solitario, eccezionale e grintosissimo karateka, con un "socio" aiutante abbastanza maldestro (simpatico, fonte degli "alleggerimenti" umoristici della trama). Non verrà pagato come stabilito per aver fatto evadere un condannato a morte, e la vendetta gli procurerà dei nemici. Altri nemici verranno da un'organizzazione della mala di Hong-Kong, il Goryu Kai, in combutta con la mafia giapponese per ottenere l'eredità di un petroliere recentemente morto e con una giovane figlia come erede. Tsurugi rifiuterà un loro incarico di rapire la ragazza, anzi farà in modo (non disinteressato) di proteggerla. Il resto ve lo guardate...

Non manca nulla per chi apprezza le arti marziali o il pulp più cruento. Combattimenti tecnicamente ottimi, mimiche facciali apprezzabili proprio nella loro fumettistica esagerazione, ma anche mutilazioni, sangue a fiotte e persino un'evirazione brevi manu da brivido inguinale per i maschietti che somatizzano facilmente. Si gioca parecchio anche sui punti di ripresa, grandangoli a non finire, dal basso o dall'alto. Il ritmo è frenetico, delle scene e delle riprese parimenti. Nervi tesi anche nei rari momenti di pausa tra una scena d'azione e l'altra. Finale epico come si deve, con un gran incasinamento di ruoli ché, si sa, in oriente spesso l'onore supera ogni accordo e se una cosa non si deve fare non si fa.

Semplicemente IMPERDIBILE! Nel nostro personalissimo Olimpo.
C'è un vera e propria "trilogia del teppista" anche se i sequel a quanto ho letto hanno suscitato minori entusiasmi. Non escludo di guardarli. Sicuramente ne arriveranno altri di Chiba, su questo non ci sono dubbi.

Robydick

Penso che il grande copiatore (lo dico con affetto) Quentin Tarantino non se ne avrà a male se gli dovesse capitare di ascoltare qualche pezzo di "Pulp Fiction" qua nel frameshow.

Credits:
un caro grazie all'amico Frank che m'ha aiutato a trovare un'ottima versione sottotitolata del film. grazie anche a quelli che me ne hanno parlato anche se non ricordo chi in dettaglio, forse l'amico Gus appassionato del genere, e quasi sicuramente l'onnipresente, nelle mie scelte, Napoleone.

mercoledì 24 agosto 2011

Malabimba (aka: The malicious whore)

22
Non poteva mancare un Andrea Bianchi in questa umile rassegna di titoli appartenenti al bis de/genere, romano classe 1925 noto ai cultori dell'horror italico per il cult "Le Notti del Terrore/Zombi Horror" (1981).

Quando gli italiani si sono messi a rifare "L'Esorcista" (1973) di Friedkin ed i suoi epigoni, hanno tirato fuori dal cilindro diversi oggetti interessanti, basti pensare a "L'Anticristo" (1974) di Alberto De Martino o "L'Ossessa" di Mario Gariazzo (1974), pellicole a tematica demoniaca alle quali sono poi seguite le imitazioni/contaminazioni con l'altra grande saga hollywoodiana cominciata da Richard Donner con "Il Presagio" (The Omen, 1976) quindi via con "Holocaust 2000" (1977) sempre di De Martino, pregevole, e pure "Nero Veneziano" (1978) di Ugo Liberatore, molto apprezzato da chi scrive, senza contare il bellissimo "Lisa e il Diavolo" (1975) di Mario Bava, rimaneggiato e uscito pure con il titolo più appetibile di "La Casa dell'Esorcismo".

Quasi a fine corsa giunge questo parto di Bianchi, vero e proprio cimelio per gli appassionati, oggetto strano che guarda sì alla tematica esorcistica, ma che percorre di fatto altri sentieri molto più esploitativi. Il buon Bianchi, qui con il suo classico pseudo anglofono, imbastisce una impalcatura a forte tenuta erotica che supporta la risaputa vicenda di possessione diabolica o stregonesca, ai danni della non proprio giovanissima Bimba, adolescente in fregola erede di una prestigiosa famiglia dai nobili natali, i Karoli, minata da meschine faide interne inerenti la spartizione dell'eredità dello zio Adolfo (Giuseppe Marrocu) ridotto come un vegetale. Dopo una seduta spiritica una lasciva presenza si impossessa della ragazzina, la quale, come previsto dal genere codificato da Friedkin, comincia a sproloquiare e a comportarsi da zoccola quasi quanto la zia Nais, Patrizia de Rossi/Webley (biondona giunonica piuttosto disinibita nel mostrare le sue notevoli grazie, avvistata in una ventina di titoli nei gironi del bis, vedi il confuso "La Sanguisuga Conduce la Danza" del 1975  in buona compagnia con Femi Benussi e Dora "Krista" Nell, oppure il "Gola Profonda Nera", 1976 di Guido Zurli con Ajita Wilson, per citare solo qualche titolo) masochista e mangiatrice di uomini impegnata a sedurre il parterre maschile della casa, cognato compreso. Cimenti erotici piuttosto espliciti che sfociano in inserti dichiaratamente hard in almeno quattro scene, con le attrici controfigurate, anche se la giovane Katell Laennec si scatena in nudi integrali e in scene di autoerotismo piuttosto convincenti. Figura di attrice enigmatica e sfuggente, al pari di un'altra meteora del bis rispondente al nome di Karin Trentephol, la splendida, giovanissima e conturbante interprete de "L'Immoralità" (1978) di Massimo Pirri, la Laennec é stata per anni un mistero per gli addetti ai lavori, non essendo comparsa in nessun'altra pellicola o materiale fotografico, fino alla definitiva identificazione da parte, neanche a dirlo, dei Nocturniani, grazie ad Alessio Di Rocco, grande esperto in "Misteri Italiani" che ha finalmente fornito nome e data di nascita della splendida attrice cortocrinita, Cornely Pascal Sylvie, parigina nata il 16 aprile 1960, e quindi appena maggiorenne al momento delle riprese.

Negli annali del cinema di genere la bella Laennec ci era già finita senza niente, grazie alla cultissima scena in cui seduce il povero zio paralitico, non proprio completamente paralizzato, spogliandosi senza vergogna per poi cimentarsi in una realistica fellatio, insertata ad arte, anche se il dubbio continua a serpeggiare, che porterà alla morte del parente. A parte il ricordare una famosa leggenda metropolitana riguardante un noto politico con relativa starlette televisiva, la sequenza incriminata é realmente materiale da far tremare i polsi dell'appassionato di cinema in generale, senza stare sempre a catalogare i generi, assolutamente da vedere e "toccare" in prima persona, in quanto solo la visione diretta può rendere giustizia a cotanta genialità italiana. E, a conti fatti, tutta la pellicola di Bianchi merita di essere visionata almeno una volta, in virtù di una messa in scena sì povera, ma comunque godibile e non proprio tirata via, come in alcune produzioni successive del Nostro, vedi il porno cupo e cimiteriale con la povera Sirpa Salo Lane "Giochi Carnali" (1983), veramente esperienza allucinata e disturbante, nobilitata pure dalla interpretazione della bella e brava Maria Angela Giordan(o), qui nel ruolo di Suor Sofia, la religiosa che tenterà di opporsi alle insistite avances dell'infoiata Bimba, sempre misurata e credibile, nonchè veramente molto sensuale anche in vestale sacra.

Apprezzabili sia la seduta spiritica incipitiaria, con i ripetuti primi piani sull'allucinata Elisa Mainardi (la medium, attrice con carnet recitativo invidiabile, da Monicelli, Sordi e Verdone passando pure per il decamerotico di Silvio Amadio "E si salvò solo l'Aretino Pietro con una mano davanti e l'altra dietro" 1972) che l'epilogo con il suicidio della povera suora ormai posseduta dal demonio o presunto tale, anche se l'ambiguità di fondo rimane fino all'ultimo, non spiegando a chiare lettere se il tutto sia frutto di una inibizione sessuale che porta le protagoniste alla follia. Non che sia chissà quale risoluzione epilogica, ma si renda merito allo sceneggiatore Piero Regnoli, altro grande personaggio del cinema italiano operante in tutti i generi, e al bravo Andrea Bianchi che in precedenza aveva offerto al pubblico interessanti lavori come l'ottimo padrino-movie "Quelli che Contano" (1974) con Henry Silva, attore da noi molto amato, Barbara Bouchet in versione mignotta di lusso e il grande Fausto Tozzi, pellicola assolutamente da riscoprire, girata con tecnica e un certo gusto per le inquadrature, che di solito non ci si aspetterebbe da Bianchi, autore anche di un erotico molto pregiato da chi scrive con Adolfo Celi, "La Moglie di Mio Padre" (1976) valorizzato dalla presenza di Carroll Baker e il grande Luigi Pistilli, tra le altre cose, anche improponibili girate dal nostro negli anni ottanta.

Doveroso citare anche il bravo Enzo Fisichella, nel ruolo di Andrea, il padre di Bimba, visto anche in "Il Fiume del Grande Caimano" (1979) di Sergio Martino. Produce Gabriele Crisanti, responsabile pure di altri festini imperdibili come "Giallo a Venezia" (1979) e "Patrick Vive ancora" (1980) entrambi diretti da Mario Landi, il regista del Maigret televisivo! Molto bella ed evocativa la colonna sonora sui titoli di coda, ad opera dei Maestri Elsio Mancuso e Berto Pisano. Consigliato in double bill con "L'Esorciccio" di Ingrassia. Da consegnare ai posteri.

Il film conobbe un remake quasi istantaneo girato da Mario Bianchi, figlio di cotanto padre, Roberto Bianchi Montero, "La Bimba di Satana" (1982) con Jacqueline Duprè, Aldo Sambrell, ancora una volta Maria Angela Giordano e Marina Frajese, non a caso, perchè girato come hard da Bianchi avviato a diventare uno dei nomi di punta della neonata pornografia italica.

Belushi

Robydick:
Accompagnamento d'eccezione al frameshow oggi, che contiene anche non poche inquadrature di sesso esplicito. Da un album per me mitico degli Alan Parson's Project, "Tales of mistery and imagination", dedicato ai racconti di Edgar Allan Poe, il pezzo è "The Raven".


martedì 23 agosto 2011

Morning of the Earth

10

Superclassico degli anni '70, con un sito dedicato, curato dallo stesso Alby Falzon. Ennesimo consiglio dell'amico/socio Napoleone. Film freschissimo nelle sue immagini di mare, di gioventù, di posti meravigliosi, veramente ottimo per la stagione.

Non è semplicemente un sito dedicato al film, ma a quello che il film ha voluto rappresentare e continua a fare, al mondo del surf e dei surfisti, appassionati alle onde del mare, in perenne ricerca dell'Onda Perfetta e praticanti sia di uno sport che di una filosofia di vita che vede in quella tavola un'interfaccia per domare le furie della natura.

C'è chi dalle onde si fa travolgere, chi cerca di cavalcarle. Per molti quelle onde rappresentano un pericolo fatale, tale da scoraggiare ogni velleità di buttarsi in mare, mentre per altri sono una leccornia, le sognano sempre più alte e potenti, veloci.

Non c'è una vera e propria trama. Sono solo immagini, meravigliose e per l'epoca certamente all'avanguardia, con riprese da terra e in mare, sempre al ralenty, accompagnate da stupende musiche e canzoni che sono poi diventate oggetto di concerti e simbolo per i surfisti di tutto il mondo. Girato fra Australia, Isola di Bali e Hawaii, con un gruppo di surfisti d'eccezione, tra i quali spiccano il campione Nat Young e l'appena sedicenne, allora, Stephen Cooney.

Pochi giorni fa si parlava del senso della vita, e molto qua c'è in comune sotto l'aspetto del rapporto rischio/beneficio. Almeno 4/5 del film sono riprese in mare, mentre il resto è il paesaggio, qualche ritratto dei personaggi con delle facce che definire belle e felici è poco. Quando non cavalcano le onde vivono semplicemente preparando le tavole, rilassandosi insieme con qualche canna pure, sole cose che fumano. Sono un po' degli Hippie, solo sportivissimi e arditi nell'affrontare le onde e gli squali che spesso vi nuotano sotto.

Bellissimo, poco altro da dire se non che lo consiglio tantissimo, un tuffo nella bellezza del mare e della gioventù che non fa altro che bene.

Robydick

Inutile fare un video, ce n'è già di bellissimi con le immagini disponibili sia sul sito ufficiale che su YouTube.
Questo è quello proposto nel sito col tema principale della o.s.t.:

lunedì 22 agosto 2011

Addio Zio Tom

13

Robydick:
Solo 5 giorni fa, 17 Agosto 2011, moriva Gualtiero Jacopetti, in un silenzio quasi generale dei media. Personaggio semplicemente Unico del panorama cinematografico mondiale, anch'io mi sarei perso la notizia senza il solito Napoleone, che ha poi pensato di dedicargli subito una recensione. Appena possibile arriveranno anche "Mondo cane" e "Africa addio" dello stesso, incredibile, inclassificabile e Scomodissimo autore. Non stupisce l'oscurantismo che subisce persino il giorno della morte. Cosa avrebbe detto un telegiornale sulla sua opera? Difficile dirlo... ma fortunatamente esistono i liberi blog.
Ora la parola a Napoleone. Aggiungo solo che in calce viene riportato il testo della pagina wiki dedicata a Jacopetti, scritta per la nota enciclopedia quasi interamente dallo stesso Napoleone.

In occasione della scomparsa pochi giorni fa del grande Gualtiero Jacopetti (1919 - 2011) e vergognosamente -com'era da aspettarsi visto il personaggio- pressoché ignorata da tutti i principali giornali d'informazione, voglio qui omaggiare il suo modo unico di aver inteso e praticato il cinema documentaristico nella declinazione tutta italiana dei “Mondo movies” proprio da lui creata con l'enorme successo internazionale delle pellicole che riuscì a realizzare, recensendo anche qui “Addio Zio Tom”, che è finalmente e davvero uno dei film meno concilianti e più incredibili mai realizzati. Il film migliore di Gualtiero Jacopetti e dell'inseparabile Franco Prosperi, il grande duo che ci ha dato “Mondo cane”, i quali riuscirono qui a compiere un film che definire controverso e potente è un eufemismo.

Distribuito dalla solita benemerita Blue Underground in un cofanetto dvd R1 intitolato “The Mondo Cane Collection” a partire dal 2003, e contenente tutti i film del succitato duo, questo grande film pseudo-documentaristico è stato così possibile scoprirlo nella versione internazionale intitolata “Goodbye Uncle Tom”, che così tanto isterismo censorio incontrò nel mondo e che portò al sequestro della pellicola e al rimontaggio (con interventi di Jacopetti medesimo) del film, poi rieditato con il titolo di, semplicemente, “Zio Tom”. Qui, grazie alla Blue Underground di William Lustig, abbiamo potuto riscoprire, dopo oltre trent'anni dalla prima difficile circolazione cinematografica italiana 1971, la “Director's Cut” di ca. 140'. E abbiamo ri-scoperto un vero capolavoro del cinema più spiazzante e provocatoriamente scioccante, ben oltre e più in alto di qualsiasi concezione di “politicamente corretto/scorretto”, come si dice oggi con questo fetido termine, nel 1971 fortunatamente ancora ben lontano dall'apparire.

“Goodbye Uncle Tom” è come detto uno pseudo-documentario che si è occupato -e per inciso, anche coraggiosissimamente, non solo per il 1971- degli aspetti più macabri e scioccanti della schiavitù in America, molto prima che venisse trattato quasi, molto “quasi”, nelle stesse declinazioni come detto scioccanti e d'”exploitation” dal celebre serial tv “Radici” (Roots)('78) di Richard T. Heffron. Questo film è, per inciso, splendidamente realizzato sotto ogni aspetto tecnico e si avvale di una delle colonne sonore più belle e riuscite di Riz Ortolani, collaboratore inseparabile di Jacopetti per le musiche -che con il tema “More” di “Mondo Cane” ('62) era arrivato al Golden Globe e all'Oscar per la Migliore Canzone Originale- e lo stile si fa sempre più personale, bizzarro, e assolutamente inincasellabile, a partire dallo splendido inizio con i due giornalisti che scendono dall'elicottero come provenienti dal futuro, nel bel mezzo di una piantagione di schiavi della prima metà dell'800.


Il film è molto radicale per come sposa la tesi ineluttabile di una guerra tra razze. Facendo spostare lo spettatore dalla lussureggiante bellezza di una piantagione del sud a quella delle strade in sanguinosa rivolta di una città americana del 1970. I padroni delle piantagioni invitano i registi che non vediamo ma udiamo unicamente le loro voci provenienti da dietro la cinepresa, come se interpretassero e invitassero la voce di Dio a venire qui e a vedere come essi si stabiliscono insieme per una cena. Durante la cena, come i padroni bianchi sono serviti dai loro schiavi c'è una discussione sulla schiavitù e l'atteggiamento generale per argomenti e temi è quello che uno potrebbe genericamente definire di destra, dato che secondo loro hanno il diritto di rendere schiavo un uomo, quindi perché non dovrebbero? Il film si sposta di nuovo e siamo caricati su di una nave di schiavi caricata oltre ogni sua capacità diretta verso l'America. Gli schiavi a bordo sono malati e malnutriti, i loro pasti periodici hanno la forma di una poltiglia che sembra segatura acquosa, la quale appare inadatta al consumo umano ma poi, per i proprietari di questa nave, questi esseri umani altro non sono che una merce deperibile, da vendere o scambiare, quindi già nel conto che un'alta percentuale di essi non arrivi a destinazione. Sarebbe se vogliamo più “facile” e “banale”, se lo sguardo fosse disgustato, mentre si guardano gli schiavi lottare per rimanere in vita contro la malattia, la fame, la disperazione e, infine, i negrieri prendere in consegna i loro corpi e gettare i morti in pasto agli squali. Quelli che ce la fanno ad arrivare in America, e questi sono relativamente pochi visto che come detto è stato già accettato da principio che molti sarebbero andati persi durante lo stremante viaggio fatto di privazioni, dolore e morte, coloro che vengono accolti si trovano in un nuovo inferno. Puliti e ammassati nei mercati, zone in cui possono essere venduti, le loro vite sono davvero perse come esseri umani. Sono solo merce, da scambiare e acquistare. Alcuni li vediamo condotti fuori dai recinti, perché in quanto superdotati si è pensato bene di servirsi di loro come tori da monta atti a ingravidare le donne in modo da creare sempre più schiavi selezionati. E qui vediamo mostrata molto immaginificamente l'idea tipicamente jacopettiana dell'uomo solamente bestia, con gli animali uomini bianchi che regrediscono il negro allo stadio animale di uomo-cazzo.

E se sì, caro spettatore, se siete ancora con noi fino a questo punto, siete un'anima coraggiosa, e saprete bene che le cose per come stanno possono solamente andare a peggiorare. Da qui in poi si fanno massicce le riprese nei bordelli di schiave per i padroni bianchi dove vediamo come gli uomini bianchi possano avere le loro fantasie soddisfatte da ragazze molto giovani, adolescenti, se non proprio bambine, che sono trattate come niente più di puttane, e questa parte ha molto carattere “sexploitation”, per lo spettatore abituato al cinema “di genere”, indugiando lungamente su come queste ragazze siano scandalosamente giovani, se non come detto proprio bambine, delle quali Jacopetti e Cavara non si tirano certo indietro, per mostrarcele lungamente molto nude. Ma si sa, la discrezione non è certo mai stata una caratteristica dello stile e del “touch” tipicamente jacopettiano. Alla fine finiamo su una spiaggia con un giovane nero del 1970 che sta leggendo il diario di uno schiavo che si era ribellato e diventato un killer di bianchi, uccise quelli che lo avevano oppresso, diventando così un eroe dal grande culto. Mentre il giovane si siede sulla spiaggia la sua mente vaga, guardando le famiglie bianche che scherzano intorno a lui, e sembra di vederlo non come un uomo isolato, ma come uno di loro. Mentre sogna ad occhi aperti il libro che sta leggendo diventa nella sua mente una realtà brutale. Si vede torturare e uccidere le famiglie che vede, scagliarsi quindi contro la memoria della schiavitù, e il “fantasma” del razzismo, oggi come l'ieri del 1970 quantomai concreto, e alla condiscendenza che si sente nella sua vita quotidiana. Il film si conclude come era iniziato, con immagini di guerre di strada, di percosse, e una domanda implicita, dove andiamo da qui? Grande finale, grande montaggio, il tutto trascinato dal brano stupendo di una delle colonne sonore più trascinanti che Riz Ortolani abbia mai composto.

E' difficile riuscire a consigliare un film più brutale, e questo perché molte persone lo trovano molto difficile da superare ancora adesso, e men che meno da potercisi empatizzare. Molte persone lo trovano ancora piuttosto sconvolgente, ed è proprio questo il punto centrale del film.
Questo film non glorifica la schiavitù e il razzismo -come potrebbe- , ma te li spiaccica in faccia talmente tanto che ti ci puoi fare degli impacchi, e di tutto ciò puoi vedere realmente l'orrore.
Se c'è un pizzico di comprensione dietro tutto questo, è dietro le immagini, non certo dietro un'eventuale commento, sempre improntato al più spiazzante e spericolato cinismo, troppo disarmante per poter essere compreso, nel suo sulfureo e temerario spirito contro tutto e tutti, e soprattutto nell'Italia ultra “ideologizzata” del 1971; da non essere quindi altro che rifiutato in blocco, perseguito e ostracizzato, come espressione “culturale” nient'altro che qualunquista, e apertamente fascista e reazionaria, come sempre quindi, per Jacopetti.

Quando molti di noi pensano alla schiavitù pensano alle persone costrette a coltivare i campi e a interminabili ore di lungo, duro, massacrante lavoro, ore di duro lavoro, sotto il sole. E sì, questa non è una vita che nessuno di noi vorrebbe o desidererebbe per un'altra persona, ma la realtà è che la schiavitù era molto più vile e disumana di tutto quel che possiamo immaginare, fino a che non vediamo “Addio Zio Tom”. Ad esempio però, ad un certo punto il medico sta mostrando ai cineasti del documentario il suo laboratorio e gli esemplari, cioè tutti gli schiavi in suo possesso, tenuti in gabbie, e qui lo sentiamo parlare di come questi non sono esseri umani, minimamente, ma solo animali, e che devono quindi essere trattati come tali. Ci viene mostrato un mondo di orrore, un mondo che non è fatto per come nemmeno possiamo intenderlo fino in fondo adesso, ma un mondo che dobbiamo e possiamo affrontare, grazie ad un film come questo, all'apparenza così spietato e scevro di ogni luce di cristiana pietà. Ci sono momenti in cui possiamo ascoltare le osservazioni degli autori, e qui ci viene dato il loro parere, le loro opinioni, con le quali si arriva il più vicino possibile a quella che si può definire una “morale pulita”. La morale è scritta chiaramente nel film, ma non dichiarata, ed è che questo è quello che è successo, quindi cosa possiamo farci più in proposito?

Il film è molto ben fatto, il senso di marciume, di lezzo, la foschia delle paludi schiarita dal sole, così come le immagini di grandi case coloniali, campi di fiori, facciate sbrecciate, immagini di placida e rurale pace e tranquillità, che allora ci spingono ancora più prepotentemente e per contrasto, a guardare in faccia gli schiavi stipati all'inverosimile nel sudore, nel sangue e nella merda, come direbbe P.P.P. -che con Jacopetti ha avuto, e sarebbe interessante una ricerca al riguardo, molti più motivi di “incontro-scontro” ideologico e culturale di quelli che si potrebbe solo lontanamente immaginare, all'epoca- nello scafo di una nave negriera, e di come gli schiavi abbiano poi inevitabilmente aver dovuto tirare fuori i denti, dopo aver mangiato come maiali recintati in un porcile, o lentamente marcire in un buio umido, legati alla catena. La recitazione poi è troppo sorprendentemente buona (e Jacopetti, Prosperi, e il fido organizzatore generale livornese poi collaboratore di Deodato per “Cannibal Holocaust” -genere cannibalico con il quale Jacopetti però non c'entra, ne c'è mai entrato nulla-['80] Palagi, si ritagliano lo sgradevolissimo ruolo di irriconoscibili cacciatori di negri fuggiti nelle paludi, e soprattutto del suddetto schiavo ribelle e assassino di bianchi, con straniante e “scandaloso”, apparente compiacimento e partecipazione), il film anche per questo non scivola mai nella parodia o nell'assurdità, anche se ci sono scorci di raro umorismo. Il più grande difetto del film, se così vogliamo dire, è che è così spietatamente deprimente e oscurantista sulla reale natura e qualità dell'uomo, che lo spettatore è quasi preso dallo scoraggiamento, di finire il film.

Quello che dobbiamo anche ricordare è che però “Addio Zio Tom”, e ben oltre le apparenze, è un film politico eccome, tanto più perchè è di finzione, sotto l'aurea di un “mockumentary” come si direbbe oggi, il che gli permette di poter essere ancora più liberamente disturbante, e d'assalto, nelle sue immagini scioccanti. Nel film non ci sono personaggi bianchi redimibili, e non c'è neppure compassione umana dimostrata da e per gli schiavi. E questo anche perchè nella storia degli Stati Uniti ci sono comunque stati un sacco di grandi personaggi (illustri politici e religiosi compresi), che erano proprietari di schiavi. Se è sbagliato come nel film dire e sostenere che ognuno di loro era un mostro e che tutti trattavano i loro schiavi così brutalmente come mostrato, è stata però anche sbagliata la loro vita, visto il loro esempio a cosa portava. “Addio Zio Tom” ci mostra quelle immagini che i realizzatori vogliono farci vedere, e cioè il peggio del peggio. Siamo, in sostanza, all'inferno mostrato e il grande stile di Jacopetti, nei suoi arditi accostamenti e montaggi, pare chiederci se lo perdoniamo di fare ciò, al prezzo di riuscire a farci credere che tutto questo esistesse davvero, come infatti è stato. Qui non si tratta di dover perdonare alcunché, (come in Italia chissà poi davvero i reali e dimostrabili motivi, è sempre sembrato di dover addebitare qualcosa di veramente colpevole e turpe a Jacopetti), ovvero la sua “grana grossa” nell'accostarsi e affrontare da realizzatore/i un tema così doloroso e arrischiato, senza preoccuparsi di trattarlo mostrando una visione equa ed equilibrata della schiavitù, ma è più a mostrare il peggio del peggio, che invece ci si può costringere in qualche modo a farvi fronte. Questo non vuole essere un film giusto, esso vuole essere un lavoro di finzione, ma molto ben fatto, se non sull'argomento, il migliore mai fatto. Certamente più del successivo grande successo -e a cui sotto molti aspetti, ha aperto la strada- “Mandingo” (Usa'74) di Richard Fleischer.

“Addio Zio Tom” ripeto, è sicuramente un film oscuro e brutale come effettivamente è, ma è anche un film brillante, e un'uscita importante. Raramente si è vista una rappresentazione così reale della schiavitù e dei suoi peccati come quella che ci è stata presentata qui, e anche se non è un film piacevole da guardare è un film che andrebbe assolutamentre visto. La sua mancanza, tipicamente jacopettiana, di ogni falso moralismo passa attraverso una sola apparente immoralità per raggiungere un alto risultato emozionale ed empatico. Grazie anche al suo notevole livello tecnico e realizzativo, abolisce ogni fantasia cinematografica precedente inerente allo schiavismo, così come la falsa cognizione che ci siamo evoluti dal razzismo passato come società, quando anche adesso che Obama siede nello studio ovale della Casa Bianca lo spauracchio della schiavitù e del razzismo incombe ancora come non mai sulla cultura e la società americane. Il cinema americano fino agli anni sessanta e all'avvento della prima virulenta “blaxploitation” era sempre ben sfuggito dal razzismo e dalla rappresentazione iperrealista della schiavitù per molti anni, e forse è grazie anche a film come quello di Jacopetti (che gode di status di vero cult, proprio negli Usa) che venne il tempo di girare finalmente film sul tema e affrontarlo, di affrontare i suoi orrori, e di chiedere allo spettatore cosa fare davvero, dove andare e agire e in quali maniere e con quali mezzi, potere verificare che tali atrocità siano fermate per tutto il resto del mondo. “Addio Zio Tom”, difficile da vedere e da sostenere, ma un gran film. Ad avviso di chi scrive, il migliore, più completo, conciso e potente, di Jacopetti.
Napoleone Wilson

Robydick:
Per me Olimpo senza indugi. Abbondante frameshow, con alcune immagini pesantissime ma tant'è il film, accompagnato ovviamente dalla o.s.t. di Riz Ortolani.


Biografia Dalla pagina wiki dedicata a Gualtiero Jacopetti:
Gualtiero Jacopetti (Barga, 4 settembre 1919 – Roma, 17 agosto 2011) è stato un giornalista, regista e documentarista italiano. È noto come il creatore, insieme a Paolo Cavara e a Franco Prosperi, del genere cinematografico dei Mondo movie.
Dapprima giornalista, negli anni Cinquanta interpretò il ruolo di un avvocato in Un giorno in pretura di Steno. Negli stessi anni si fece notare come sceneggiatore di Europa di notte (1959) di Alessandro Blasetti, considerato l'antesignano dei film Mondo (anche se maggiormente sul versante sexy), e nel 1960-61 realizzò assieme a Franco Prosperi e Paolo Cavara il documentario Mondo cane, rassegna internazionale di usanze bizzarre, esotiche e crudeli, un vero e proprio pugno nello stomaco per lo spettatore dell'epoca, poco abituato a certi argomenti tabù.

Nonostante le aspre critiche per la durezza delle immagini e il cinismo del commento, il film ottenne un successo enorme in tutto il mondo ed una nomination all'Oscar per la migliore colonna sonora, la celeberrima More, il tema principale dell'ispirata soundtrack del film, realizzata da Riz Ortolani e Nino Oliviero. A Mondo Cane seguì Mondo cane 2 (1963), sequel meno violento e più ironico del precedente ma altrettanto apprezzato dal pubblico, in cui molti contributi provenivano anche da Abruzzo, Calabria e Lazio (suggestive le immagini che riportano la processione e i particolari usi della confraternita dei Sacconi rossi, nella cripta della Chiesa di San Bartolomeo all'Isola, sull'isola Tiberina).

Jacopetti lavorò sempre in coppia con l'amico Franco Prosperi e con una troupe dove figurava come organizzatore lo scrittore Stanislao Nievo, pronipote di Ippolito Nievo. Per la verità Jacopetti ha sempre rinnegato il secondo capitolo di Mondo Cane poiché ritenuto una mera operazione commerciale. Molti dei contributi che si vedono nel film sono infatti scarti di montaggio del primo capitolo. Dopo "La donna nel mondo", analisi meno feroce, ma parecchio irriverente della condizione della donna in vari paesi (1963) Jacopetti realizzò insieme a Prosperi "Africa addio" (1965-66), scioccante resoconto sui tragici effetti della decolonizzazione in Africa, con drammatiche immagini sul selvaggio sfruttamento della fauna africana e sull'inadeguatezza delle popolazioni indigene ad autogovernarsi.

Anche questo film venne duramente stigmatizzato dalla critica, che accusò il film di razzismo e gli autori di comportamenti sconsiderati (il settimanale L'Espresso sostenne che i registi avrebbero fatto ritardare un'esecuzione capitale per permetterne la ripresa, anche se anni dopo questo fatto è stato categoricamente smentito). Nel 1971 i due registi realizzarono "Addio zio Tom", beffarda indagine sulla schiavitù negli Stati Uniti dell'Ottocento. Il film si discosta dai precedenti reportages perché palesa sin dalla prima inquadratura che si tratta di una ricostruzione filmata: due giornalisti scendono da un elicottero proveniente dal futuro per un reportage "in soggettiva" sul commercio degli schiavi. Anche lo stile si fa ancora più beffardo e bizzarro, allontanandosi dall'approccio asciutto dei precedenti mondo-movies della coppia.

Nel 1975 Jacopetti diresse "Mondo candido", trasposizione in chiave moderna del Candido di Voltaire. Questo lavoro, che univa visionarietà e ironia, non venne compreso né dalla critica né dal pubblico ed ebbe grossi problemi produttivi, rimanendo il "canto del cigno" di questo scomodo, ma abilissimo narratore italiano. Sguardo profondo e attento del contraddittorio rapporto tra tradizione e globalizzazione sfrenata, nel corso della sua carriera Jacopetti è stato accusato a più riprese di razzismo e di un fanatismo di stampo fascista. Alle dure accuse il regista ha sempre ribadito di essere un liberale, concepito come lo intendeva il suo maestro di giornalismo Indro Montanelli.

Jacopetti lavorò inoltre con la televisione giapponese nella realizzazione di alcuni documentari. Viveva a Roma e la sua vena di viaggiatore lo portava ancora a intraprendere spedizioni e viaggi. Il 28 gennaio 2011, Bussi ha intervistato Jacopetti nel corso del programma Punto e a capo su Class News Msnbc. Sempre a Bussi, Jacopetti ha concesso la sua ultima intervista il 1° aprile 2011 nella sua casa di Roma.


Influenze nella cultura popolare
- Gli U2 nel corso del loro tour mondiale Zoo Tv del 1992-1993 hanno proiettato sui megaschermi spezzoni tratti dai film di Jacopetti. Esemplare il clip della versione live di Numb. E nel 2010 il cantante americano Mike Patton ha pubblicato un album di cover italiane anni 60 intitolato Mondo Cane.
- Nel dicembre 2010 è uscito "Mondo Cane Addio". Un delirio su Gualtiero Jacopetti di Marcello Bussi, un testo in cui si intersecano una parte fiction, ove si dimostra l'impossibilità di girare Mondo Cane al giorno d'oggi, e una parte in cui si illustrano vita, pensieri e opere di Gualtiero Jacopetti. Il libro è stato autopubblicato su lulu.com .


Questo invece dalla pagina wiki dedicata a "Addio Zio Tom":
"Addio zio Tom" è il quinto lungometraggio della coppia di registi formata da Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi, famosi per aver dato origine al genere mondo-movie. Il film arrivò alcuni anni dopo le polemiche seguite ad "Africa addio", scaturite in seguito alla descrizione dei disagi del continente africano dopo la fine del colonialismo europeo. Fu girato fra gli Stati Uniti ed Haiti grazie alla intercessione del dittatore François Duvalier che concesse lo stato di corpo diplomatico alla intera troupe per i diciotto mesi di durata delle riprese.
(n.d.r.: e concesse pure numerosissime comparse, ai tempi "quasi schiavi" sotto il suo delirante regime che durò 50anni prima di terminare in una sanguinosa rivolta civile)

A differenza di Africa addio, Jacopetti e Prosperi rivelano subito che lo spettatore si trova davanti a una rappresentazione di fiction, seppur basata su fatti documentati. "Addio zio Tom" è un "documentario nella Storia", che si addentra nell'America schiavista dell'800, fotografata dai due autori in soggettiva, intervistatori proiettati nel passato e alle prese con personaggi bizzarri e spiazzanti, tutti coinvolti nel traffico di uomini e donne africane.

Il film si propone come una spiazzante satira sociale volutamente sopra le righe e di fatto resta un oggetto anomalo e irripetibile nel panorama cinematografico italiano, differenziandosi stilisticamente anche dai precedenti lavori della coppia.

Ampiamente criticata per razzismo e pretestuosità, nonché per un neo-schiavismo massmediologico nei confronti di una moltitudine di comparse di colore (e spesso nude), la pellicola non ha avuto facile circolazione a causa della censura ed è stata inizialmente sequestrata, per essere poi rimontata (con interventi dello stesso Jacopetti) e rieditata con il titolo alternativo di "Zio Tom". Il director's cut (140' circa) è adesso disponibile in dvd in alcune edizioni estere, tra le quali "The Mondo Cane Collection", cofanetto uscito negli Stati Uniti e comprendente in edizione integrale anche "Mondo Cane", "Mondo cane 2", "La donna nel mondo", "Africa addio" e il documentario "The Godfathers of Mondo", sulla carriera dei due registi e sul fenomeno mondo-movie.

Da segnalare la colonna sonora di Riz Ortolani, storico collaboratore di Jacopetti e Prosperi fin da Mondo Cane.


domenica 21 agosto 2011

Dove vai se il vizietto non ce l'hai?

11

Questa recensione nasce come nostro omaggio/tributo ad una delle attrici più belle e conosciute della favolosa stagione cinematografica italiana vissuta durante gli anni settanta. Non c'é bisogno veramente di alcuna presentazione per introdurre la bellissima Paola Senatore, "magnifica ossessione" per chi scrive, ma non solo, sicuramente anche per una legione di amanti/appassionati dell'italica produzione di genere.

Parliamo di commedia italiana, scollacciata, ginecommedia, chiamatela come più vi aggrada, genere in cui la bella Paola si é più volte ritrovata a recitare, precisamente in pellicole quali "Il Ginecologo della Mutua" (1977) di Joe D'Amato/Aristide Massaccesi, "L'Infermiera di Notte" (1979) di Mariano Laurenti, "La Dottoressa Preferisce i Marinai" (1979) di Michele Massimo Tarantini, "La Settima al al Mare" (1981) ancora una volta diretta da Laurenti, financo uno strano oggetto quale "Ti Spacco il Muso Bimba" (1983) di Mario Carbone con Carmen Russo. Poniamo l'attenzione, in questa sede, su un film diretto dal grande Marino Girolami, qui con l'abituale nome de plume di Franco Martinelli, professionista impareggiabile del nostro cinema, ci vorrebbe un tomo per parlare dettagliatamente di tutti i suoi cimenti registici, padre di Ennio Girolami ed Enzo G. Castellari nonchè fratello di Romolo Guerrieri, che risponde al titolo di "Dove vai se il vizietto non ce l'hai" (1979) ovviamente ispirato al fortunato film con Ugo Tognazzi e Michel Serrault diretto da Edouard Molinaro. Paola vi interpreta il ruolo di Simona Beltramelli, moglie del commendatore Cesare (Mario Carotenuto, chi altri) rosa intimamente dalla consapevolezza che il marito le sia infedele. Pur di averne la certezza incontrovertibile, Simona ingaggia una coppia di investigatori privati, nientedimeno che Renzo Montagnani (Diogene) e Alvaro Vitali (Aroldo) due erotomani che accetteranno il caso per arricchirsi, con la sola clausola di fingersi omossessuale l'uno, il Montagnani, nei panni del maggiordomo, e donna l'altro. Elemento non trascurabile, la presenza nella magione dei Beltramelli del giardiniere partenopeo Anselmo (Vittorio De Bisogno) perennemente infoiato, e delle splendide camerierine Lory Del santo (giovanissima, molto carina) e Angie Vibeker (biondina apparsa pure nel coevo "Pensione Amore Servizio Completo" di Luigi Russo). Per non parlare poi della presenza della padrona di casa, una inarrivabile, sensualissima, elegante come non mai Paola Senatore, qui realmente al massimo della forma fisica, capace di rubare la scena alle starlette più giovani (compare brevemente anche la bionda Sabrina Siani, che nei primi ottanta sarà un pò la reginetta del bis italico, questa è un' altra storia, ad ogni modo, qui mi pare non accreditata) con un solo sguardo, basti pensare all'entrata iniziale, con cappello a raccoglierle i capelli corvini, al posto dell'abituale rosso, scollatura e spacco notevolissimi, entrata nel ristorante a grandi falcate e subito occhiata maliziosa a Montagnani. Impossibile staccare gli occhi dalla Senatore quando compare sullo schermo, questo lo sapeva pure il buon Girolami che le regala numerosi primi piani e misè spettacolari, che alzano di molto il gradiente erotico della pellicola e quello del Montagnani, che in una scena é costretto a gettarsi in piscina per spegnere i bollori detonati dalla Senatore.

Sempre elegante, anche nelle scene più oseé, caratteristica riscontrabile anche nelle altre commedie, vedi "La Dottoressa Preferisce i Marinai", centro focale delle inquadrature, che per forza di cose si concentravano anche e sovente sui nudi esibiti dall'attrice, "corpo glorioso" come mai ce ne sono stati (e la produzione italiana era da questo punto di vista una fucina quasi inesauribile di bellezze da mostrare sullo schermo) e che ancora oggi risulta elemento apprezzabile e capace di donare ad una pellicola di oltre trent'anni fa quel quid di sensualità e comicità, anche cialtrona a volte, per cui è degna di essere ricordata e apprezzata dagli appassionati. Tutto ciò pure in virtù della grande simpatia e bravura di Renzo Montagnani, è sempre bene ricordarlo, attore per molti versi straordinario, sottovalutato al solito dall'intellighenzia da salotto per via del suo stretto rapporto con il cinema "commerciale", come se "l'altro" cinema non si facesse per soldi, grande maschera e protagonista del cosiddetto cinema di "chiappa e spada", termine da lui stesso ironicamente coniato, qui praticamente recitante insieme a Vitali con il pilota automatico inserito, molto divertenti i siparietti tra i due, specialmente durante la cena disastrosa con i rappresentanti dell'alta società ospiti del commendatore, o i tentativi di seduzione ai "danni" delle due disponibili camerierine. Belle e simpatiche, nessun dubbio, ma oscurate dalla presenza di Madame Simona che, in un ipotetico "passaggio di consegna" con la Del Santo o la Siani, risulta senza niente ancora depositaria dello scettro di femme fatale di cotanto genere italiano, basti pensare alle immagini finali della pellicola nella palestra, vedere per credere, con costume bianco da sturbo, fascino abbacinante e Montagnani in preda al delirio dei sensi, tanto che all'attrice stessa sembra scappare un risata liberatoria.

Consigliato agli amanti della commedia anni settanta e non e, soprattutto a chi non ha mai avuto il piacere di vedere la Senatore su pellicola, qui brava e simpatica, volto e occhi stupendi, da non sottovalutare a priori come attrice, anzi capace di spaziare da vera professionista in tutti gli ambiti, a questo proposito è doveroso ricordare anche altri film come "L'Assassino ha Riservato Nove Poltrone" (1974) di Giuseppe Bennati con cast strepitoso e incipit capolavoro, ma specialmente un dimenticato lavoro di Tulio De Micheli "Un Tipo con la faccia strana ti cerca per ucciderti" (1975) aka "Ricco" o "Cauldron of Death" con il figlio di Mitchum, Chris, Barbara Bouchet, Malisa Longo, Arthur Kennedy e Eduardo Fajardo, cast stellare quindi per un noir incentrato sulla vendetta dove Paola interpreta il ruolo della sorella del protagonista, parte non centrale, sicuramente, ma capace, almeno per chi scrive, di rimanere impresso nella memoria del cinefilo al pari, se non più, ma rimane sempre e solo una questione di gusti, della performance della pur sempre amata Bouchet. Senza contare il duetto con Janet Agren in "Mangiati Vivi" (1980) di Umberto Lenzi, dove viene irretita e poi uccisa via rito cannibalico da Ivan Rassimov, altro nostro grande e amato interprete.

Produzione a cura di Fabrizio De Angelis e Gianfranco Couyoumdjian, vecchie conoscenze di Fulci. Da ricordare Franco Caracciolo e Mario Carotenuto in versione piume di struzzo con Mantagnani e Vitali conciati come Mario Bros, impagabili. Partecipazione di Francesco Amato nel ruolo di Beniamino, volto frequentemente avvistato in ambito ginecommediale e, soprattutto, comparsa iniziale della giunonica Daniela Trebbi, già vista nel cult "La Sorella di Ursula" (1978) di Enzo Milioni con Barbara Magnolfi, Marc Porel e Stefania D'Amario.

Uno sguardo sicuramente non esaustivo sulla carriera di un'attrice che continuiamo ad amare incodizionatamente, a monte di tutto, e con grande affetto cinefilo. Un saluto, Paola, sempre e, perdona se puoi chi scrive, che sicuramente non é stato all'altezza.
Belushi

Robydick:
Paola Senatore leggerà su nostro invito questa recensione. La seguo su facebook, ho capito un po' i suoi gusti musicali, allora al frameshow ho abbinato una bella canzone di musica leggera italiana che sicuramente apprezzerà: "Quella carezza della sera" dei New Trolls.


sabato 20 agosto 2011

Le Mans - Le 24 Ore di Le Mans

6
La pur ottima pagina wiki che ne parla sbaglia nel catalogare il film come "documentario". E' anche questo ma non solo. Siamo di fronte a quello che è forse il massimo Capolavoro di genere, quello dei film sugli sport motoristici, diversi dei quali proprio con Steve McQueen protagonista, attore ma anche ottimo pilota sia di auto che di moto.

Prendo dalla pagina citata le significative prime righe, inutile riscriverle in altro modo, poi ne parliamo...
"Le 24 Ore di Le Mans (Le Mans) è un film del 1971, diretto da Lee H. Katzin, ambientato sul circuito di Le Mans durante la 24 ore del 1970 e interpretato da Steve McQueen. Per l'occasione vennero installate alcune cineprese su una Porsche 908 regolarmente iscritta alla gara di quell'anno. L'auto guidata nel film da McQueen era la Gulf Porsche 917 K n. 20 ufficiale.

Oltre alle immagini filmate durante la gara del 1970, gran parte del film venne girata nell'estate dello stesso anno pochi giorni dopo la gara vera e propria, utilizzando le auto originali che presero parte alla competizione, acquistate dalla casa cinematografica Solar Productions, diverse fasi di gara vennero simulate chiudendo tutto il circuito comprese le strade nazionali.

Il film ebbe scarso successo al botteghino e costituì un grosso fiasco nella carriera di McQueen, ma a distanza di anni viene ricordato come una realistica testimonianza su uno dei più famosi periodi della storia motoristica e come uno tra i migliori film di corse automobilistiche mai girato, soprattutto per il notevole realismo delle scene di gara.

McQueen non partecipò alla 24 ore del 1970 poiché i finanziatori del film avrebbero negato il supporto assicurativo all'attore nel caso in cui egli avesse gareggiato.
".

Letto? McQueen, che altre volte fu pilota ufficiale in gare prototipi su pista, le stesse auto che correvano a Le Mans, qua non poté gareggiare per questioni assicurative. Peccato, avremmo avuto ulteriori e spettacolari immagini. Le scene che lo vedono protagonista in pista sono quindi quelle ricostruite il giorno dopo, e "notevole" non è aggettivo sufficiente a definirne il realismo, io userei la parola "sconvolgente" tale è la qualità e la spettacolarità delle stesse, di valore assoluto ancora oggi e non esagero!

Sconvolgente è anche il fatto che ebbe scarso successo di pubblico, non riesco a capacitarmene. Ma cosa accidenti volevano di più da un film del genere? Io avevo 5 anni allora, troppo piccolo per capire anche oggi queste cose, magari qualche gradito commento di ospiti competenti potrà illuminarci. Ho solo la certezza che questo film, girato necessariamente in 2 giorni, tanta era la durata della manifestazione nel suo complesso (più il giorno che dicevamo per le parti di fiction fanno 3) ha richiesto grandissime competenze a tutti i livelli, lavoro preparatorio meticoloso, e un montaggio che c'è da strabuzzare. Tanto lavoro insomma. Anche le scene di fiction che hanno comportato la distruzione di alcuni veicoli non potevano che essere alla "buona la prima", impossibile ripeterle, eppure perfette. Al termine della visione ero in estasi, altro che le 2 miserande stellette del Morandini...

Il Cinema si integra in una manifestazione sportiva, non entrando dalla porta principale ma da quella di servizio, prendendo tutto lo spettacolo che già c'è e facendogli fare un salto di qualità, speziandolo, esaltandone ogni aspetto. Compreso quello dei drammi che spesso stavano dietro questi sport, che mietevano molte più vittime di oggi, cosa che verrà fatta con la fiction innestata. Sarà lo stesso Michael Delaney (Steve McQueen) a dirlo all'inconsolabile vedova di un pilota morto l'anno prima, Lisa Belgetti (Elga Andersen), che il pubblico vuole vedere la morte, è quel rischio che sta dietro all'emozione degli spettatori ma anche a quella dei piloti, e questa cosa la spiegherà Johann Ritter (Fred Haltiner) alla moglie che gli chiede perché rischiare la vita nelle corse. Semplice ma non laconica la risposta: perché correndo, cercando di vincere, rischiando, ci si sente vivi. E' vero, sottoscrivo, la Vita è quella, anche in altri campi sono determinate sfide, rischi, o chiamiamoli come si vuole, a dargli un senso, mentre tutto il resto del tempo è vita "animale" che serve solo a separare la nascita dalla morte.
(alcuni aspetti della vita animalesca li apprezzo molto eh, ma ora non vorrei star qua a divagare...)

Paesino delle immense ed ondulate campagne francesi, Le Mans serrava tutto per 2 giorni, comprese le strade a normale percorrenza che andavano a comporre i 13 e rotti chilometri del circuito semicittadino. Nel rettilineo più lungo i bolidi raggiungevano i 370 km/h e parliamo di macchine che abs, ebd, tcs e via acronimando manco sapevano cosa fossero. Ogni curva erano sbandate e controsterzi da urlo. Dalle 16 del Sabato alle 16 della Domenica 2 piloti per ogni macchina si alternavano alla guida, indosso una tuta, una sottotuta ignifuga ed un casco che oggi non sarebbe omologato manco per gli scooter, sul quale scrivevano il loro gruppo sanguigno. Condizioni di sicurezza che oggi fan sorridere, come anche i box non separati dalla pista da alcun muretto. Alla partenza dal 1970 le macchine incolonnate a lisca di pesce avevano già il pilota a bordo e dopo lo start mettevano in moto e via. Fino all'anno prima i piloti si schieravano sul lato opposto delle macchine e allo start attraversavano la pista, saltavano a bordo e poi il resto, con il rischio che magari uno cadeva, oppure per la fretta non allacciava bene le cinture o non chiudeva bene il portellone, con conseguenze immaginabili. Nota Bene: per nessuna ragione la gara veniva interrotta, né meteo né per incidenti. Per questi ultimi un allarme risuonava, una specie di incubo per chi ai box attendeva poi le notizie su macchine e piloti dagli altoparlanti.

Tutto questo verrà ritratto, insieme ad una gara emozionante che vedrà all'ultimo giro un arrivo in volata per decretare il vincitore, cosa che accadde realmente nella corsa dell'anno prima, che forse ispirò l'idea al film. A partire dalla grande massa di auto e persone che andranno ad accalcarsi sul circuito, all'arrivo dei bolidi e alla loro preparazione, fino alla festosa premiazione. Tutto bellissimo, anche il luna park, ma la bava colerà sulle scene ai box e soprattutto in pista. Un trionfo di soggettive che, ne sono abbastanza sicuro, deve aver fatto scuola per molti. Punti di ripresa dentro e fuori le macchine, lanciate in gara. Grandangoli interni da più punti, poi camere esterne a ritrarre anche solo una gomma dell'auto portante con avanti e dietro ad inquadrare chi precede e chi segue, oppure una vista dal tetto, o dall'oblò posteriore. Un'infinità di punti, impossibile ricordarseli tutti, fatto sta che tu spettatore sei una specie di spirito che galleggia ovunque sulla pista tra macchine e piloti scatenati. Emozionante, non c'è altro da dire!

Chissà, forse una certa passione per gli sport motoristici ha influenzato il mio entusiasmo, lo dico per obiettività. Se non li si ama penso in ogni caso che, anche solo per ammirare le riprese, questo film sia uno spettacolo imperdibile. E il montaggio! Già detto ma mi ripeto, è una lezione di tecnica, almeno per film o docufilm del genere. Da brividi alcune scene di incidenti, in dettagliato ralenty, dove l'audio sparisce e in un silenzio assoluto e glaciale si prova l'apnea stessa del pilota che vede la morte in faccia, sono momenti in cui tutto si ferma, il respiro, il battito del cuore forse e persino il tempo.

Lo guarderò altre volte così come guarderò altri film di corse automobilistiche, genere che ha numerosi appassionati, in particolare tra i c.d. "collezionisti di locandine". Ho conosciuto un dirigente di un'azienda che ha l'ufficio tappezzato di questi poster magnifici. Intravisti per caso, ho bussato chiedendo di poterle vedere, non ho potuto resistere anche se il lavoro richiederebbe più formalità nei rapporti. Ci siamo fatti una gran chiacchierata a riguardo, veramente interessante. Sul prezzo di quei poster... meglio cercarli in qualche vecchio cinema, o da privati, perché comprarli sulle aste on-line o siti/negozi specializzati non è cosa per tutti i portafogli.

Robydick