domenica 30 settembre 2012

Il rosso e il blu

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Una scuola pubblica superiore italiana nei tempi d'oggi, adolescenti e professori a rappresentarne alcune tipicità, una piccola produzione italiana che saluto con piacere insieme ad un autunno nostrano che promette molte belle visioni.

Nella voluta coralità della narrazione spiccano Giuliana (Margherita Buy) che è la preside, Prezioso (Riccardo Scamarcio) nei panni di un supplente particolarmente ispirato dalla sua professione e soprattutto Fiorito, l'anziano, disincantato e particolarmente acido professore di storia dell'arte interpretato da un grande Roberto Herlitzka che sta vivendo un momento davvero felice della sua carriera, recentemente ammirato in un ruolo molto particolare anche in "Bella addormentata" (2012, Marco Bellocchio).

Non ci si piange addosso. I problemi ci sono ed è normale che ci siano. Da quelli finanziari per una scuola pubblica malversata dalla politica negli ultimi 20anni a quelli più "normali" di ragazzi in famiglie disagiate o difficili. Tanti piccoli ritratti che girano intorno ai 3 protagonisti principali: il ragazzo col padre coatto; un altro praticamente coi genitori assenti; una ragazza che apparentemente cerca il successo facile; qualche prof in pieno disagio esistenziale; ragazze che s'innamorano del professore; ecc... . Tutto però corre su binari di fiducia nelle possibilità delle relazioni umane di creare qualcosa di positivo nella vita, basandosi sullo studio, la voglia di crescere e tanta, tanta pazienza che deve basarsi sul rispetto di ogni singola vita. Piccoli inserti comici stemperano il tutto, su tutti quelli che vedono protagonista Fiorito alcuni dei quali estremamente esilaranti, ed ogni situazione, anche la più dolorosa, possiede sempre una via d'uscita anche se non sempre il film la mostra volutamente; lo stesso finale, aperto e non risolutivo, trasmette questo. A me è sembrato dirmi: dai, tocca a te ora, nei luoghi dove vivi, conservare speranza ed ottimismo.

Sulla scuola quindi ma non solo scuola. Dolce nei modi, mai rude nel mostrare il peggio che comunque c'è, un piccolo gioiello questo film per quanto trasmette. In questo periodo poi del nostro paese, dove percepire disagio e totale diffidenza nelle istituzioni e nello stato è comprensibile, si propone come un segnale, ripeto il termine, di Fiducia, fiducia che si ripone nella sostanziale, potenziale capacità delle persone di provare empatia per gli altri. La scuola pubblica è la prima linea dello stato coi cittadini che saranno il nostro futuro. C'è da augurarsi che sia come questa rappresentata nel film, cioè non esente da difetti, non per forza priva di problemi economici che ci vorrà tempo per sanare decenni di stupidità e sperperi, ma quantomeno diretta da persone con buon senso.

Ci sarebbero diversi piccoli episodi su cui dilungarsi, ma basta così.
Consigliatissimo, nelle sale in questi giorni.
Robydick

venerdì 21 settembre 2012

L'ultima carrozzella

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Trama "despoilerata" presa da wiki con nomi degli attori aggiunti da me:
Antonio Urbani (Aldo Fabrizi), detto "Toto", è un vetturino romano che nutre un'antipatia particolare per i tassisti, rei secondo lui di causare la progressiva estinzione delle carrozzelle a cavalli e dei loro conducenti, di cui egli si ritiene uno degli ultimi superstiti. Uno di questi è il suo ex-amico Pasquale (Aristide Garbini) insieme al figlio Roberto (Enzo Fiermonte). Un giorno Toto fa salire sulla sua vettura una canzonettista (Anna Magnani) che ha fretta di arrivare alla stazione per prendere il treno, e nella concitazione dimentica sulla carrozzella una valigetta. Subito dopo Toto, ormai sulla strada di casa, viene investito dall’auto guidata da Roberto. Il giorno dopo Toto legge l’annuncio della valigetta smarrita e si dà da fare per restituirla alla proprietaria, portandola presso la pensione in cui alloggia. Ne riceve una ricompensa che, insieme al comico Valentino (Tino Scotti), coinquilino della canzonettista appena conosciuto, andrà a puntare su una corsa di cavalli, vincendo una cospicua somma. Ma qualche giorno dopo viene accusato dalla canzonettista di aver sostituito un prezioso anello che si trovava nella valigetta con uno falso, e riceve una querela. Si trova quindi in tribunale a doversi difendere dall'accusa...

Ho omesso il finale ma nessuno può dubitare che sarà un lieto fine.
Letto che nomi? Si dovrebbe nominarli tutti. Citiamo perlomeno Anita Durante della quale ho parlato in "Policarpo, ufficiale di scrittura" (1959, Mario Soldati) e la bellezza corvinamente "italica" di Elide Spada, rispettivamente moglie e figlia del vetturino.

Chi scrive adora Aldo Fabrizi, l'ho scritto tante volte. Adoro la sua naturalezza, la spontaneità che emerge al meglio proprio quando indossa una qualsiasi divisa da lavoratore popolare. Vetturino, tramviere, ancora tramviere, ferroviere, portiere, bidello, non importa quale giacchetta o berretto, lui è profondamente legato al "popolino" e fieramente non se ne distacca, risultando credibile come pochi altri in scene che richiedono solo semplicità. Questo film se l'è tagliato su misura: suo il soggetto, sua la sceneggiatura scritta insieme ad un allora giovane (e non ancora regista) Federico Fellini.

Se il plot non riserva sorprese o colpi teatrali, né li cerca, non di meno il film scorre piacevolmente, divertendo con qualche momento di dolce commozione, grazie soprattutto alla perfetta, in ogni momento, Arte di Aldo Fabrizi. Subito la scena iniziale ci fa capire chi è Toto. Saluta il figlio partire pilota di aerei, fiero ed orgoglioso ne parla a chiunque sulla banchina, e che faccia che fa mentre lo saluta col treno che si allontana. L'amore e il rispetto che prova per il suo cavallo, che sente suo compagno di vita e destino, regala immagini meravigliose, come quando tutte le sere all'osteria gli porge un bicchiere del mezzo litro che si beve con altri amici di sempre. L'avesse visto Friedrich Nietzsche questo film l'avrebbe adorato, altro che certe zozzerie recenti spacciate come capolavori. Toto come il filosofo, e lo dice espressamente, non si sogna nemmeno di usare il frustino, lo tiene come addobbo, dà autorità alla sua divisa e basta. Fosse capitato a Torino in quel famoso giorno, il tedesco avrebbe abbracciato Toto, e forse anche il cavallo ma per dirgli quanto era fortunato ad avere un padrone così.

D'umore multi-polare quasi come un bambino, capace di grandi slanci e piccole debolezze con tutte le sfumature in fra mezzo, Toto è l'italiano popolare "medio" che piace, sostanzialmente onesto quanto ingenuo. Finge un infortunio per sottrarre soldi ad assicurazione ed ex amico, truffetta che poi non riuscirà a compiere. Non esita a tirare la giacca e a fulminare con uno sguardo chi può minacciare l'onore della figlia. Si rimette all'autorità con educazione e senza mestizia. Si fa gabbare soldi da un furbacchione alle corse. Festeggia con famiglia ed amici all'osteria senza nascondere un momento di ricca fortuna. Tutto quello che si vuole, fatto sta che il film alla fine, e giustamente, lo propone come un Vincente tutto sommato, e non è una cosa banale, ecco perché questa meraviglia di film merita perlomeno il Partenone! Era il 1943 quando usciva e chi imperversava in quel periodo ben lo sappiamo, in che situazione si trovava l'Italia pure lo sappiamo. Un vincente che non prevarica, quasi un Candido di Voltaire, quanto era politicamente scorretto? Né servi né padroni, vetturino seduto in carrozza invece che in cassetta e il cavallo che conosce la strada di casa e ci si dirige allegramente. Così dovrebbe essere, sempre.

Il film non poteva colpire in quel momento per queste sottigliezze, così come per certe malinconie sui mestieri che già ai tempi andavano scomparendo come appunto quello del vetturino. Nasceva per dare svago e serenità, e ci riuscì benissimo così come ci riesce ancora oggi. Invecchiando, con quei piccoli momenti in esterno, ci regala anche un po' di immagini del tempo che fan solo piacere.

Ogni tanto mi chiedo se sia possibile ancora fare film così. Forse sì, ma dove lo vai a trovare un ATTORE come Aldo Fabrizi, dove? Mai un eccesso, mai un'iperbole o un ammiccamento, non esiste un virtuosismo inutile o un compiacimento. Interpreta senza sforzo apparente. Tra i più grandi di sempre. Si prenda esempio, lo si studi. Credo occorra anche una vita vera alle spalle, parlo di quella fuori dal set e penso di creder bene.

Consigliatissimo, e provate a guardarvi allo specchio al termine della visione. Poi mi dite.
Robydick



























giovedì 20 settembre 2012

Speed Trap - Speed Interceptor III

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A parte la presenza di un nostro beniamino dei B-movie del cinema americano anni '70 come il protagonista Joe Don Baker, questa scusa per inseguimenti automobilistici senza fine potrebbe apparire come non avere motivazioni reali, per le quali essere stata da me inserita in coda alla fantastica trilogia australiani di “Mad Max” (1, 2, 3). Perchè allora? Ma perchè con somma fantasia i nostri titolisti ebbero a intitolare questo “Speed Trap”, diretto dal regista televisivo e come detto di tanti B-movie, Earl Bellamy, “Speed Interceptor III”. Che così venne distribuito nell'estate del 1982 in Italia, una splendida locandina richiamante il primo “Interceptor” nel tentativo di gabbare qualche spettatore più sprovveduto a pochi mesi dall'uscita cinematografica del grande successo del N°2 “Interceptor -Il Guerriero della strada”.

Eppure questo filmetto che sto prendendo in oggetto è anche molto divertente e, come il suo protagonista Baker, passa attraverso delle sequenze d'azione automobilistica assolutamente ben realizzate e distaccate da tante altre molto simili tra loro.
Baker interpreta Pete Nobeck, un investigatore privato che assume incarichi datigli dalle compagnie di assicurazione. In una città senza nome di uno stato del sud ovest (Phoenix, Arizona?), Un singolo e inafferrabile ladro d'auto sarebbe stato il responsabile di una valanga di attribuitigli furti d'automobile, il che istituisce la necessaria scena iniziale d'inseguimento con i poliziotti che lo inseguono rabbiosamente ma finendo con le loro auto giù da un ponte, in quanto il suddetto si rivela essere anche un guidatore proprio eccezionale. Naturalmente, le auto della polizia esplodono quasi sempre, naturalmente pochi secondi dopo che il poliziotto alla guida riesca a fuggire dai rottami. E anche se le auto è comunque raro che esplodano a causa di incidenti, ho pensato che sarebbe stato interessante trattare anche questo piccolo, dimenticato film degli anni '70, che ci offre comunque tanti inseguimenti d'auto molto ben realizzati, e ben ricordando dalla lontana visione anno 1987 nell'unica versione esistente in italiano, la vecchissima vhs da nolo GVR, che non risulta noioso neanche per pochi secondi.

Le compagnie di assicurazione sono naturalmente allarmate per tutti questi furti d'automobili (tra l'altro molto esclusive e lussuose, mi ricordo bene di una mitica Jensen Interceptor -da cui forse un'altra scusa per il titolo-, e persino di una Rolls Royce Silver Cloud, oltre al fatto che tutte le auto della polizia sono distrutte), in maniera tale che assumono Pete Nobeck per indagare sui fatti. Questi non sta bene al diffidente e disonesto capitano della polizia Hogan (interpretato dal grande caratterista del cinema e della tv americana Morgan Woodward, la guardia con gli occhiali a specchio, che uccide Paul Newman/Luke nel finale di “Nick mano fredda”[Cool Hand Luke] ['67] di Stuart Rosenberg) ma è grande la per lui amicizia da parte della poliziotta e sua vecchia fiamma, "Nifty" (Tyne Daly, la quale non necessita di presentazioni, per i tanti film anche importanti, e le tante e famose serie tv in cui è stata attivissima e protagonista, negli anni '70-'80), quando si conoscevano e frequentavano la stessa palestra di karate e la medesima discoteca a San Francisco. Hummm, un capitano di polizia diffidente e maramaldo e una vecchia amica .... Mi chiedo se uno di loro potrebbe essere – un corrotto- e quindi un traditore. E naturalmente, si sa già di chi si tratti. Quindi, ora che sappiamo chi è il vero cattivo, abbiamo circa un'ora per arrivare alla "rivelazione a sorpresa". Questa non sarà poi così male se c'è un ragionevole livello di intrattenimento prima di quel momento. Vediamo un po' ... Prima ci sono diverse auto distrutte in lunghissimi ma emozionanti ed estremizzati inseguimenti alla fine dei quali l'abilissimo ladro riesce sempre ad allontanarsi, rivelandosi anche un driver ancor più magistrale. Nobeck poi incontra una sensitiva che potrebbe avere un indizio dell' identità del ladro attraverso alcune sue visioni. Le quali possono arrivargli "soltanto quando sia completamente rilassata." Bèh, cara hai un grosso pezzo d'uomo come Joe Don Baker e neppur da pregare piangendo, bella passerona! Per nostra sfortuna, stacchiamo alla mattina dopo per vedere soltanto l'effetto delle sue "tecniche di rilassamento".
Nobeck mette allora una delle sue camicie da americano di provincia anni '70 e continua la sua indagine, imparando che il ladro ha una speciale unità di controllo remoto in grado di avviare in moto le auto e sbloccare le porte attraverso impulsi radio, come un moderno transponder. Sì, proprio così, ed è una delle trovate più gustose e originali del film. Il ladro usa questa borsa con dentro il trasmettitore per rubare una macchina di qualsivoglia scelta dalla folla di auto parcheggiate nelle strade, borsa che sembra una di quelle da medico contenente una scorta di farmaci al suo interno. Di conseguenza, la malavita dei furti d'auto e delle ricettazioni, data l'azione della polizia per loro divenuta asfissiante, si intromette per conto proprio nelle indagini e fornisce dei "consigli amichevoli" a Nobeck per “indirizzare” il ladro verso di loro alla prima occasione che si presenterà. Questo aggiunge alla trama più inseguimenti e sparatorie, e anche qualche altra emozione.

Ci sono anche dei momenti moderatamente divertenti ed emozionanti durante un lungo inseguimento quando Nobeck, alla guida dell'auto che tallona quella del ladro, deve spesso cambiarla perchè coinvolto in distruttivi incidenti, prendendone altre a degli automobilisti di passaggio pur di mantenere l'inseguimento. Anche se questa sequenza vale la pena pure di qualche risata, la stessa insistita caccia è altrettanto emozionante e ben costruita. Infine Nobeck cattura il ladro (indovinate chi?), E vi è la necessaria domanda"Perché?" e "Perché ....". Sorprendentemente, vi è invece un altro atto dopo questo, che porta al climax più grande e decisivo, e che non comporta un inseguimento. E' una delle parti migliori del film, ma l'elogio maggiore che gli si può fare è per merito soprattutto della presenza gigionesca di Robert Loggia, il quale altrettanto spero che non abbia proprio bisogno di alcuna presentazione, nella parte del cattivo principale e del boss, nel film.

Napoleone Wilson

mercoledì 19 settembre 2012

Star Trek: The Motion Picture

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Con la consulenza esecutiva di Gene Roddenberry, leggendario autore della serie e quella scientifica di Isaak Asimov parte il primo di una lunga serie di film dell'universo narrativo di Star Trek. Finite le prime tre stagioni della serie classica (ricordiamo anche la serie animata) si doveva continuare con Star Trek Phase II, poi il progetto è stato cestinato. Così come americani e sovietici si sfidarono nella corsa allo spazio, Roddenberry e George Lucas si misurarono al cinema; l'uscita dell'episodio IV di Star Wars pose – di fatto – fine alla serie classica spingendo i produttori verso il grande schermo. Si trovano nel web stagioni apocrife, B-Movie come l'omonima Phase II, disponibile anche su Youtube. Da non perdere.

Di The Motion Picture esistono versioni con tagli e montaggi differenti, noi ci basiamo sulla Director's edition, che rispetta il montaggio voluto dal regista. Il lavoro dei direttori della fotografia e degli effetti speciali, (rispettivamente Richard H. Kline e Alex Weldon), rappresenta un salto di qualità enorme rispetto alla serie televisiva. Del resto i viaggi dell'Enterprise, vera protagonista principale, usano lo spazio come veicolo per andare sul serio “dove nessuno era mai stato prima”, esplorando lo spirito dell'umanità, sono tanti i temi filosofici e scientifici esplorati dall'equipaggio di questa leggendaria astronave, già nella serie classica, noi ci limiteremo a descrivere quelli che si presentano nel film, tenendo conto che, essendo questo universo narrativo estremamente vasto non è possibile trattare un solo film o episodio seriale senza tenere conto di temi precedenti ad esso. L'Ammiraglio (Capitano nella serie classica) James T. Kirk [Jim] (William Shatner) torna dopo tanti anni a bordo dell'Enterprise; la trova notevolmente cambiata dopo i lavori di ammodernamento, lo accompagna nell'astroporto il direttore della sala macchine Ing. Montgomery Scott [Scotty] (James Doohan) a bordo di uno shuttle di servizio, ed è già questa una delle più belle scene del cinema, in questi cinque minuti Kirk torna a vedere la sua nave ed è visibilmente commosso. Per lo spettatore l'emozione è puramente visiva, da l'idea delle reali dimensioni della nave; il trekista sentirà la pelle d'oca.


A bordo Kirk trova i vecchi compagni di avventure – abbastanza invecchiati, come lui – l'ufficiale addetto alle comunicazioni Uhura, (Nichelle Nichols) e gli ormai comandanti Hikary Sulu e Pavel Chekov, (rispettivamente George Takei e Walter Koenig). Questi personaggi hanno una importanza quasi storica; compaiono da subito nella serie – ad eccezione di Chekov, che non si vede nelle prime puntate) e sono ognuno un pugno nello stomaco alla visione xenofoba e sessista dell'America anni '60. La Nichols è una attrice di colore, amica del Reverendo Martin Luter King e nella serie il suo personaggio darà il primo bacio interrazziale del cinema, senza contare ch'è un ufficiale donna. Sulu è cinese, Chekov addirittura russo, non cerca minimamente di nascondere il suo accento, questo perché nella loro epoca americani e sovietici non hanno più ragione di combattersi, la Terra si è unita per poter sostenere la competizione con le razze aliene, persino il sistema monetario è un ostacolo e non esiste più. Gli uomini lavorano per realizzare sé stessi, alcuni anche per acquisire potere, intendiamoci, non è il paradiso. Per quanto idilliaca possa sembrarci, se ci riflettiamo in Star Trek le decisioni importanti vengono prese dagli ufficiali della flotta stellare. Ma questo è un particolare di cui parleremo in una prossima recensione trekista. Manca all'appello l'ufficiale medico Dr. Leonard McCoy [Bones], (il compiando DeForest Kelley) che sarà quasi costretto a salire a bordo poco prima della partenza. Qualunque trekista a questo punto si chiederebbe “quando arriva Spock?” (Leonard Nimoy). L'attesa non tarda ad essere soddisfatta. L'ufficiale scientifico, figlio di un ambasciatore vulcaniano e di una terrestre, si fa teletrasportare a sorpresa dal pianeta natio Vulcan. A seguito di una pratica meditativa del suo popolo è riuscito apparentemente a sopprimere le emozioni, ma la sua metà umana lo tradisce sempre, del resto il fatto stesso che si trovi nell'Enterprise contraddice la sua vocazione alla pura logica.

La storia prende spunto da un episodio della serie classica. Una intelligenza artificiale, V'ger, è alla ricerca del suo creatore ed attira l'Enterprise in una trappola. In mezzo a tutto questo non potevano mancare i Klingon, da sempre acerrimi nemici della Federazione Stellare. Ecco quindi che abbiamo il primo grande tema della serie: l'intelligenza artificiale. Non a caso hanno dovuto scomodare Asimov. Questa intelligenza si rivelerà essere una sonda, che a furia di raccogliere dati è finita per assumere coscienza propria. Ma è davvero possibile che intelligenza e coscienza di sé vadano a braccetto? Gli scienziati si dividono tra chi sostiene la teoria della scatola cinese (supponiamo che ci sia un omino in una scatola che raccoglie dati e li elabora secondo regole a lui assegnate, noi capiamo il senso dell'elaborazione ma l'omino chiuso la dentro cosa ha appreso? Un operaio alla catena di montaggio non è implicito che ne conosca il suo funzionamento, eccetera) e quelli come Asimov e Alan Turing (uno dei padri del computer e dell'omonimo test che misura l'intelligenza artificiale) per i quali è solo questione di tempo: il nostro cervello è un insieme di miliardi di neuroni in interazione, i quali infine danno origine ad una coscienza. Potremmo dire in sostanza, che tanto più un sistema di elaborazione dati è complesso, maggiore sarà la probabilità che assuma una coscienza propria.

Abbiamo accennato all'uso del teletrasporto. Prima di partire avviene una tragedia; alcuni membri dell'equipaggio muoiono durante il trasferimento, facendo una fine orribile; si intuisce che siano stati ricomposti in maniera errata. Spock ne fa uso, McCoy, Kirk e Scotty invece usano uno shuttle di servizio. Non è ben chiaro per quale motivo c'è chi sale nell'Enterprise in un modo, chi nell'altro, certamente è un mezzo che costa energia, ma è anche vero che per realizzare la scena di Kirk che rivede la sua nave occorreva un mezzo più tradizionale. Un po' come Gesù e gli apostoli seduti in un solo lato del tavolo per esser meglio dipinti da Leonardo. L'idea del teletrasporto, nata banalmente per esigenze di budget, si rivelerà essere una delle più grandi intuizioni nella storia del cinema fantascientifico. Effettivamente sarebbe stato costoso far atterrare ogni puntata una nave lunga oltre 700 metri negli anni '60. I fisici – molti di questi trekisti, come Stephen Hawking (interpreterà sé stesso in un cameo nella serie “The Next Generation”) – si sono interrogati sulla plausibilità di tale aggeggio. Teoricamente è possibile, occorre un hard disk di miliardi di miliardi di Tera Byte che immagazzini le informazioni spaziali di ogni atomo e la sua condizione e relazione rispetto agli altri. Che cosa dovremmo farci poi del corpo che viene teletrasportato? Molti fisici trekisti come Lawrence M. Krauss, (autore del celebre saggio “La fisica di Star Trek”) fanno due ipotesi: I corpi vengono disintegrati, nel luogo di destinazione i buffer del teletrasporto compongono da zero il corpo, come una stampante fa con le cartucce di inchiostro; oppure gli atomi dei corpi disintegrati vengono trasportati nello spazio e ricomposti nel luogo di destinazione. È vero che nel campo della quantistica il teletrasporto è possibile, ma solo a livello subatomico. Noi non siamo neutrini. Dalla teoria alla pratica c'è un universo incolmabile. Troppe sono le incognite. Non di meno, anche se riuscissimo a realizzare una macchina del genere, quello che arriva a destinazione è la stessa persona che è partita, coi suoi ricordi intatti, o una tabula rasa? Oltre ai problemi etici – che supponiamo essere ovvi a tutti – ci sono anche quelli religiosi per chi ci crede: l'anima esiste? In un episodio di Star Trek il Capitano Kirk a seguito di un bug nella macchina del teletrasporto si sdoppia in due, quindi l'anima non esiste; del resto Spock ha un katra, un'anima che può addirittura trasferire, quindi l'anima esiste. Neppure gli autori della serie riescono a trovare soluzione a questo mistero.

Durante il viaggio sentiremo spesso parlate di Unità Astronomiche e velocità di curvatura. La prima è una unità di misura reale; 1UA rappresenta la distanza media tra il Sole e la Terrà. La velocità di curvatura è una scorciatoia che permetterebbe di aggirare il limite della velocità della luce. Sappiamo per esempio che l'universo è in espansione ad una velocità superiore ad essa. Lo si deve al fatto che lo spazio-tempo è il mezzo di propagazione delle onde elettromagnetiche. Tirando lo spazio a prua ed espandendolo a poppa l'Enterprise viaggerebbe nello spazio-tempo come un surfista sulla sua tavola. In locale l'astronave è come se non si muovesse, inoltre le forze terribili di distorsione che permetterebbero questo viaggio, sarebbero a distanza di sicurezza ai bordi della porzione di spazio che viaggia. In questo modo nessuna forza di inerzia spingerebbe indietro i passeggeri e si eviterebbe anche il cosiddetto paradosso dei gemelli, formulato da Albert Einstein; (se ci mettiamo a viaggiare a velocità prossime alla luce, quello che per noi è stato un viaggio di qualche giorno, per chi resta a casa sarà durato una decina d'anni). Si tratta di un problema non indifferente per controllare una federazione interstellare. Curvando lo spazio-tempo invece la velocità locale non conta, sarà la porzione di spazio attorno a noi a trasportarci. Si tratterebbe di una tecnologia teoricamente possibile, ma che richiederebbe quantità di energia enormi. Tuttavia solo in questo modo l'equipaggio dell'Enterprise può viaggiare la dove nessuno è mai arrivato prima.

Inoltre curvare lo spazio permette alle navi della flotta stellare di alzare gli scudi per difendersi dai nemici e di creare un campo gravitazionale artificiale a bordo. Nella realtà l'assenza di gravità farebbe risparmiare parecchia energia ma per realizzarla al cinema è il contrario. È incredibile come la pochezza di mezzi stimoli la fantasia. Un'altra cosa interessante in Star Trek è che quando non viene usata la curvatura e si procede con la velocità di impulso, nessuno subisce le conseguenze delle rapide accelerazioni che si vedono nel film, le quali dovrebbero spappolare tutto l'equipaggio. Per rispondere a questo problema gli autori si sono inventati gli ammortizzatori inerziali, che si attivano per bilanciare il rinculo, queste si attiverebbero con un piccolo scarto, che permette di regalarci le scene in cui l'Enterprise viene colpita e tutti vengono sballottati. Esisterebbero anche i compensatori di Heisenberg, in onore del fisico Werner Heisenberg, il quale formulò il principio dei indeterminazione, in base al quale è possibile misurare la velocità di una particella ma non la sua posizione e viceversa. Questo creerebbe problemi notevoli nel teletrasporto, perché velocità e posizione delle particelle devono essere registrate alla perfezione. Qualcuno ha chiesto ad un autore di Star Trek come funzionerebbero questi compensatori, egli rispose: “molto bene”.

Questi ed altri sono i temi scientifici che Star Trek pone al pubblico, sono intrecciati talmente bene che quasi non ce ne accorgiamo; assieme a questi anche temi etici e morali, specialmente la serie classica. Avremo modo di approfondirli nelle prossime recensioni trekiste. E' possibile trovare in rete i manuali tecnici della flotta stellare, corsi di grammatica vulcaniana (da ricovero!) ed esiste un vasto elenco di razze aliene. A proposito di questo, facciamo notare come in Star Trek gli alieni hanno un aspetto molto umano – tranne rare eccezioni – tutti gli extraterrestri sembrano esseri umani affetti da elefantiasi. Roddenberry nel realizzare la serie si ispira soprattutto alla tradizione marinaresca anglosassone, con riferimenti anche a episodi storici e capolavori della letteratura, dove non può mancare, ovviamente, Moby Dick; inoltre si tratta di fantascienza classica che trae palesemente ispirazione dal Ciclo della Fondazione di Asimov; l'autore già affermato biochimico e saggista è stato scoperto letterariamente dal maestro della fantascienza John Campbell, il quale non concepiva proprio gli alieni, questo ha influito anche sull'allievo, che infatti nella Fondazione contempla una colonizzazione umana dell'universo, altrimenti privo di esseri intelligenti. Questo ha influito nell'universo di Star Trek, dove gli autori fanno basare l'origine delle razze aliene ad una sorta di panspermia (ch'è una teoria di tutto rispetto). Ovvero la vita si sarebbe sviluppata nello spazio, si ipotizza nelle comete, che poi l'avrebbero diffusa nella galassia.

Vedere un episodio o un film della serie classica significa non solo passare momenti di piacevole intrattenimento, ma è anche un viaggio nella letteratura e nella scienza. Vedremo anche come la filosofia vi trovi posto. Il genio di Roddenberry e degli altri autori della serie sta nel saper amalgamare tutto questo in una storia godibile e senza tempo, come dimostra la longevità di questa impresa cinematografica. Ogni episodio è un viaggio che si conclude annunciandone il successivo, anche se James Kirk non ha sempre un'idea precisa di dove andare. Alla fine di questo film gli si chiede la prossima destinazione. Lui risponde: «lì, da quella parte». Noi invece ci leggiamo qui. L'appuntamento è alla prossima recensione trekista.

Lunga vita e prosperità.
Giovanni Pili















martedì 18 settembre 2012

Shaft - Shaft il detective

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“La popolazione rivuole indietro Harlem. Hanno Shaft ...qui. L'unico che può riuscirci.”

“SHAFT è il suo nome. SHAFT è il suo personaggio.”

“Più caldo di Bond, ancora più rovente rispetto a Bullitt.”

“Vuoi vedere a”Shaft”? Meglio se vai a chiedere a mamma.” (Trailer)

Frasi di lancio originali del film


A metà di “Shaft”, il protagonista è costretto a prendere un appuntamento con un razzista gangster italiano. Il gangster telefona a Shaft/Richard Roundtree per chiedergli dove si potrebbero incontrare. La risposta di Shaft è uno dei motivi innumerevoli per cui questo film è sempre così gratificante da rivedere, come adesso grazie al recentissimo Blu-ray della Warner Usa. Con un elenco enorme di locali possibili tra cui scegliere, Shaft sceglie il Caffè Reggio, una piccola caffetteria dell'East Village. La decisione è così conclusa dal protagonista del film: se io, John Shaft dovrò fare i conti con le tue stronzate, almeno potrò anche avere un cappuccino.

Una cosa è chiara fin dai titoli di testa di un film oramai parte realmente della cultura popolare: John Shaft è un duro. Passeggiando per Times Square e le vie del centro di Manhattan del 1971, in una sequenza di titoli di testa tra le più belle che musica e immagini abbiano mai creato in così sublime e perfetta fusione, il detective privato Shaft passa attraverso una routine quotidiana che apparentemente coinvolge lo schivare i taxi che ti stanno per investire, mentre si attraversa un po' irresponsabilmente la strada per andare da un lustrascarpe (ancora esistevano!) amico . Questi momenti idiosincratici sono sparsi, in tutto un film che ha riconfigurato il ruolo del detective privato attraverso la rappresentazione del suo afro- americano protagonista.
Come molti altri film polizieschi, la trama e il suo svolgimento non sono facili da seguire. Shaft è inizialmente contattato dal capo mafia di Harlem Bumpy Jonas (lo splendido attore di colore Moses Gunn, che non abbisognerebbe proprio di presentazioni), la cui figlia è stata rapita dalla mafia italiana di Brooklyn.
Shaft arruola quindi l'aiuto di Ben Buford/Christopher St. John e la sua posse attivista e politicizzata per salvare la figlia di Bumpy, e cercando anche di mantenere a bada l'intromissione della polizia di New York del N.Y.P.D.. Shaft, nella tradizione dei detective privati, rimane indipendente da qualsiasi tipo di fedeltà a chicchessia per tutto il film, mediando tra conflitti e scontri razziali, fazioni più o meno legalizzate, e comunque politicamente divise. Lavorando per se stesso, come distaccato dalle motivazioni principali degli altri interpreti della trama come in genere lo è dalle donne che giacciono con lui.
Il regista Gordon Parks, eccellente fotografo anch'egli, e il suo direttore della fotografia, Urs Furrer, donarono al film quel look grintoso e iperrealista che ha giustamente fatto la storia del cinema poliziesco d'ambientazione metropolitana, di quel periodo, e creato così tanti emuli anche per i decenni successivi. Oltre ad avere trovato un esordiente protagonista ex-modello ed insossatore, Richard Roundtree, quanto mai adatto ed efficace e che da qui avrebbe iniziato una buona carriera, che contribuisce molto ad innalzare l'alto livello di confezione della pellicola. La colonna sonora funziona a meraviglia per smussare tutti i bordi volutamente grezzi di una realtà newyorkese come detto ripresa quasi documentaristicamente, e che il film impiega visivamente molto bene. Il tema iconico dei titoli, uno dei dieci più belli mai composti per il cinema ad opera del sommo Isaac Hayes, è stato fondamentalmente un appello per i primi spettatori del film, a lasciarne paradossalmente la visione per tornare a casa a fare sesso con la propria donna. I ritmi seducenti della sua partitura musicale iniettano al film quella sua particolare irriproducibile energia, e fungendo essa stessa da legante, elemento di coesione di una narrazione che può essergli invece a volte da meno.

Mi ricordo una recensione dell'epoca apparsa sul New York Times, la quale vedeva un continuo richiamo ai crossover che sarebbero stati applicati nel film, come parte determinante del suo enorme successo. E' doveroso citarne una parte in quanto fu una delle più famose e significative scritte “a caldo”: "Riflettendo la sua essenza come un veicolo commerciale, “Shaft”.[...] è in grado di negoziare con successo le tensioni razziali provocate in un mondo dominato dai bianchi, nel cui funzionamento e nelle cui consolidate dinamiche si intromette la figura raffigurante un nero aggressivo, dotato di un'immagine da macho dall' evidente sex appeal, servito per il consumo dei giovani, e del pubblico urbano nero. " La recensione fornisce e ben rileva le istanze diverse contenute nella narrazione del film, e in cui questa "strategia intermedia" da parte dei realizzatori del film, è accentuata. In primo luogo, Shaft nel film non si limita ad operare ad Harlem. Ha un ufficio nel centro in piena Broadway, contatti nei quartieri alti, e un dolce appartamento da scapolo, con annesso “scannatoio” di topa, nera, ma anche della più valutata bionda e bianca. Shaft si muove quindi liberamente attorno alla città e non si limita al confine invisibile ma segregante della 110a strada, così ben descritto un paio di anni dopo in “Rubare alla mafia è un suicidio”(Across the 110th Street) (1973) di Barry Shear, bellissimo poliziesco metropolitano il quale anch'esso molto deve alla blaxploitation. No, Shaft si muove liberamente anche tra le fazioni in lotta del film, mediando una guerra tra le gang della mafia bianca e quella nera senza avere alcuna “fidelizzazione” di parte né parteggiando per nessuna di loro. Shaft è quindi politicamente "sicuro" come un individuo che rinunci a qualsiasi tipo di azione collettiva o politica fondata sulla propria razza, o si direbbe classe, di appartenenza. Infine, questa posizione ben individualista in ultima analisi, è mantenuta anche nella sua vita sentimentale. Sempre allora si osservò molto acutamente che, per una ragazza nera e quindi per il pubblico dei neri Shaft doveva pur soddisfare "le aspettative di nazionalismo culturale," ma rimane ancora libero di andare in giro a "fare sesso casuale con belle donne bianche" (e beato lui “The Super Strenght Black Velvet Cock”, aggiungeremo noi).
Un errore da evitare è pensare che “Shaft” all'epoca in cui uscì la prima volta si sia così distinto solo perché è stato una svolta razziale in un genere letterario (i romanzi di Ernest Tidyman da cui poi venne tratta l'intera serie, tv compresa) e poi cinematografico, il cui sfondo è stato sempre dominato da protagonisti bianchi. Sebbene romanzi polizieschi con eroi bianchi potrebbero essere stati più popolari, è importante sottolineare il lignaggio e la profonda tradizione di tanta narrativa poliziesca afro-americana, quando si parla di “Shaft”. Uno studio da parte di uno dei massimi critici britannici del soul cinema anni '70 in suo omonimo imprescindibile libro, Stephen P. Soitos, analizza la materia e ripercorre il genere alle sue radici letterarie, risalenti all'inizio del 20 ° secolo con romanzi seriali comeHagar Daughter” di Pauline Hopkins (1901-1902) e The Black Sleuth” di J.E. Bruce (1907-1909). Soitos esplora la storia del romanzo poliziesco nero rispetto a quello bianco e ne delinea i suoi quattro topòi principali: il personaggio del detective, la doppia coscienza rivelata nei personaggi protagonisti, il particolare “slang” parlato dai neri, e il tema onnipresente della “scalogna”. I topòi stessi sono revisioni delle modalità tradizionali nella narrativa poliziesca più dura e realistica, la creazione di un diverso e unico marchio di letteratura poliziesca.

Per la trasposizione di un certo numero di questi topòi al cinema (con la notevole eccezione della “scalogna” o sfortuna che dir si voglia, che non ha un ruolo in questo film), “Shaft” può quindi essere considerato come una narrazione revisionista nei suoi termini più propriamente evidenti: il primo film poliziesco a incorporarla nella sua storia indipendentemente dalla letteraria più congeniale ad un genere già stabilito da Hollywood. In “Shaft”, la razza del protagonista è infatti di vitale importanza per l'indagine e il proprio lavoro. Il racconto funziona perchè soltanto un detective nero sarebbe in grado di risolverne la trama, l'identità del personaggio gli dà l'accesso culturale necessario per i suoi contatti e le risorse necessarie a risolvere il caso. In altre parole, Shaft non riesce soltanto perché è un duro detective dalla solida determinazione, ma in particolare perché è un detective nero, come allora evidenziava il sottotitolo italiano dell'uscita al cinema. La trama concede al protagonista nero una caratteristica narrativa assente in tutte gli altri contemporanei caratteri afro-americani. Invece di diventare un ostacolo da superare, l'antagonismo nero è una componente fondamentale ed essenziale per questa concezione stessa dell'eroe anti-eroe” protagonista, e della sua esistenza in primo luogo.

Una delle principali eredità che gli anni settanta avrebbero introdotto per il cinema americano era una nozione riconfigurata dell'eroe americano. Un protagonista non era più vincolato da uno studio rinforzato in fase di creazione e scrittura della personalità del protagonista, essendo un'epoca in cui l'anti- eroe come detto sopra, è potuto fiorire. Forte, nero e ammaliante, Shaft è diventato un nuovo tipo di protagonista che gli studios già prevedevano il pubblico avrebbe abbracciato. E 'difficile dire se “Shaft” sarebbe ancora rilevante per un pubblico come quello di oggi. Dato che l'immagine e la rappresentazione degli uomini di colore sono cambiate notevolmente nei media fin dai primi anni '70. L'allora sfacciata sfida lanciata da John Shaft, la virilità e l'individualismo mitigato dal proprio rigore personale sono passati da essere un modo innovativo e progressista della loro rappresentabilità, quasi ad un cliché culturale. Personaggi come Shaft non verrebbero più sentiti freschi o neanche plausibili? Diventando forse una sorta di residuo arcaico di un epoca, gli anni settanta della blaxploitation, vincolata all'ultra- mascolinità del “Big Digger of the Black Man”, e al regno del kitsch imperante degli anni '70 e così ben ironizzato o finanche parodiato in film come “Undercover Brother” (2002) di Malcolm D. Lee e Black Dynamite” (2009) di Scott Sanders (?). Un tentativo di far rivivere il franchise della serie di film di “Shaft” nel 2000, il “proto-remake” diretto da John Singleton con Samuel L. Jackson protagonista nell'impegnativo ruolo , ha prodotto risultati poco brillanti, soprattutto al box -office. Sebbene “Shaft” non possa oggi probabilmente avere la stessa potenza, come invece ebbe nella sua prima versione, l'unica cosa che si oramai può tranquillamente affermare è che nel 1971, Hollywood e la MgM per prima, trovarono la loro gallina dalle uova d'oro, con il nascente filone “All Black”, e colui che Isaac Hayes descrisse come "A son of bad mother..."

Academy Awards, USA Anno 1972 Ha Vinto l' Oscar per la Migliore, canzone originale adIsaac Hayes
Per la canzone "Theme from Shaft". Nomination all'Oscar per la Miglior Colonna Sonora Originale in un film drammatico aIsaac Hayes
BAFTA Awards Anno 1972 Nomination Anthony Asquith Award per la Musica da Film ad Isaac Hayes Golden Globes, USA Anno 1972 Ha Vinto il Golden Globe per la Migliore Colonna Sonora Originale aIsaac Hayes
Nomination al Golden Globe per la Miglior canzone originale aIsaac Hayes
Per "Theme from Shaft".

Miglior Esordiente - Uomo Richard Roundtree
Grammy Awards Anno 1972 Ha Vinto il Grammy come Migliore colonna sonora scritta per un film Isaac Hayes
MTV Movie Awards Anno 1994 Ha Vinto MTV Movie Award alla Carriera Richard Roundtree
Per la serie intera di film tra cui “Shaft colpisce ancora” (Shaft's Big Score) (1972) e “Shaft e i mercanti di schiavi”(Shaft in Africa) (1973).

National Film Preservation Board, Stati Uniti d'America Anno 2000 Ha Ottenuto il National Film Registry

La CBS ha modificato 28 minuti di questo film per la sua prima messa in onda televisiva nel 1975.

La maggior parte delle versioni video del Regno Unito, compresa la versione in widescreen dell'etichetta Maverick, sono di una versione del film ridoppiata, per rimuovere il linguaggio troppo forte. Le versioni DVD
sono completamente tagliate.

Le donne vocalist di sottofondo nel tema musicale del film sono Telma Hopkins e Joyce Vincent Wilson dai Tony Orlando & Dawn.

Isaac Hayes originariamente fu provinato per interpretare il ruolo del titolo. I produttori lanciarono Richard Roundtree, ma rimasero così colpiti da Hayes che gli chiesero di scrivere la leggendaria colonna sonora del film.

Ron O'Neal (Super Fly”) sostenne l'audizione per il ruolo di John Shaft, ma venne respinto in quanto i produttori videro la sua carnagione come troppo poco nera.

Si diceva che il film venisse scritto come un qualsiasi altro film poliziesco, con un detective bianco protagonista, ma, dopo il successo di “Baadasssss Sweet Sweetback Song”, il film è stato riscritto e concepito come un film blaxploitation. Questa storia è stata raccontata più volte dal regista del primo film Melvin Van Peebles. Tuttavia, è probabilmente apocrifa. Il romanzo di Ernest Tidyman che è stato alla base del film parla di un detective nero, e non di un bianco.

Durante la scena in cui Bumpy Jones visita Shaft nel suo ufficio, una porta adiacente all'ufficio dice "Assicurazioni Skloot" - prende il nome da Steven P. Skloot, un direttore di produzione del film.

I tabelloni luminosi enormi dei film proiettati nei cinema di Tomes Square, visti molte volte nelle inquadrature esterne di Shaft in giro per NYC includono la pubblicità di : “Patton, Generale d'acciaio”, “Carter”, “Love Story”, e “Il Gufo e la gattina”.

Fu il primo ruolo cinematografico per Rex Robbins.

L'indelebile riff di chitarra "wah-wah" sulla canzone premio Oscar di Isaac Hayes - "Theme from Shaft" - è stato interpretato da Charles “Pitts Skip”.

Gran parte dell'azione cinematografica si svolge nel centro di New York, di tutto Harlem, a partire dalla 125a strada. L'appartamento di Shaft (la vista dall'esterno), si trovava nel Greenwich Village di Manhattan al 55 di Jane Street, dall'altra parte della strada dal (reale) "No Name Bar" al 621 di Hudson Street. L'ex bar è stato infine trasformato in un negozio di gastronomia.

Il personaggio di Moses Gunn è chiamato Bumpy Jonas dopo il reale Bumpy Johnson, un mafioso afro-americano degli anni '30.

Nel film è presente in uno dei suoi tanti ruoli cinematografici e televisivi, nel personaggio di Willy il guardia spalle di Bumpy Jonas, Drew Bundini Brown, famoso “braccio destro” e “motivatore” di Muhammad Alì, interpretato in “Alì” (2001) di Michael Mann, da Jamie Foxx.


Cameo del regista
Gordon Parks : impersona un padrone di casa quando Shaft è alla ricerca di Ben Buford.

Marchio del regista 
Gordon Parks [Ebony Magazine] : Si vede Shaft che sta leggendo una copia della rivista Ebony nell'appartamento della sua ragazza. Parks è un co-fondatore della famosa Ebony . La rivista è ben inquadrata anche quando Shaft è impegnato in una conversazione con un venditore di edicola cieco durante la sequenza di apertura.


Lista brani della colonna sonora:

"Theme from Shaft"
(Non accreditata)
Composto da Isaac Hayes
Interpretato da Isaac Hayes

Bumpy's Lament”
(Non accreditata)
Composta da Isaac Hayes
Interpretata da Isaac Hayes

"Walk from Regio's"
(Non accreditata)
Composta da Isaac Hayes
Interpretata da Isaac Hayes

"Ellie's Love Theme"
(Non accreditato)
Composta da Isaac Hayes
Interpretata da Isaac Hayes

"Shaft's Cab Ride"
(Non accreditata)
Composta da Isaac Hayes
Interpretata da Isaac Hayes

"Cafe Regio's"
(Non accreditata)
Composta da Isaac Hayes
Interpretata da Isaac Hayes

Early Sunday Morning”
(Non accreditata)
Composta da Isaac Hayes
Interpretata da Isaac Hayes

"Be Yourself"
(Non accreditata)
Composta da Isaac Hayes
Interpretata da Isaac Hayes

A Friend's Place”
(Non accreditata)
Composta da Isaac Hayes
Interpretata da Isaac Hayes

"Soulsville"
(Non accreditata)
Composta da Isaac Hayes
Interpretata da Isaac Hayes

"No Name Bar"
(Non accreditata)
Composta da Isaac Hayes
Interpretata da Isaac Hayes

"Bumpy's Blues"
(Non accreditata)
Composta da Isaac Hayes
Interpretata da Isaac Hayes

"Shaft Strikes Again"
(Non accreditata)
Composta da Isaac Hayes
Interpretata da Isaac Hayes

"Do Your Thing"
(Non accreditata)
Composta da Isaac Hayes
Interpretata da Isaac Hayes

The End Theme”
(Non accreditata)
Composta da Isaac Hayes
Interpretata da Isaac Hayes

Napoleone Wilson

lunedì 17 settembre 2012

Six Bullets (aka: 6 Bullets)

13

Il mercato del sesso è il business più grande del mondo. Una volta ho visto un bambino venduto per sei proiettili... e non ho fatto niente
(Frase prima dei titoli di testa)

Six bullets è la conferma che il cinema d'azione e arti marziali non è morto dopo i budget ridotti all'osso, le location da miserabili, e i cinema sempre più lontani dall'ospitare i nuovi lavori di divi un tempo su piedistallo dei box office.

Il periodo da Europa dell'Est ha giovato a Jean-Claude Van Damme, gli ha rimesso addosso la grinta dei primi lavori, un po' come il Rocky imborghesito degli ultimi capitoli anni 80 che, solo tornando ad essere povero, ritrova “gli occhi della tigre”. Ecco che l'attore belga con questo film mette a segno un'altra interpretazione sofferta e sofferente, ma, a differenza dei precedenti Assassination games e Dragon eyes, dove si limitava ad usare armi da fuoco o essere messo all'ombra di altri interpreti, riesce a soddisfare anche il fan di vecchia data con scene d'azione gagliarde.

Siamo in un territorio diverso dalla violenza iperreale degli action degli esordi, sia un Lionheart che uno Tsui Hark sotto acido: il sangue è più copioso, i pugni rispettano la fisica, sembra di sentire addosso la furia delle ossa che si spezzano e della pelle che viene lacerata. Ernie Barbarash, insieme a John Hyams, sembra il regista più portato a nobilitare le doti marziali o no del buon Jean-Claude: come in Assassination games gli regala un altro ruolo crepuscolare, sporca l'infallibilità del tipico personaggio da action movie con l'onta di un infanticidio, lo fa piangere, disperare, urlare “vaffanculo” al mondo mentre affoga in una bottiglia di vodka. E gli regala la parte più bella degli ultimi anni, capace di far dimenticare il terribile periodo degli straight to video americani, dove Van Damme era diventato un pupazzone bellimbusto scambiabile con uno Steven Seagal qualunque, lui che era sempre stato una spanna sopra tutti i suoi concorrenti, amici, colleghi, facendo film che non erano solo mera esibizione di arti marziali, ma vero cinema con regie e montaggi da applauso.


La prima scena di Six bullets è esemplare per il taglio dell'opera: uno spaesato e invecchiato Van Damme con pizzetto entra, bicchiere alla mano, in una stanza di un night club moldavo, per contrattare un'ora d'amore con un bambino. Naturalmente niente è come sembra: l'uomo è un mercenario pagato dalla famiglia del ragazzino per riportarlo a casa in America. Quello che poteva essere scambiato, dalle location pauperistiche, per l'ennesimo prodotto bulgaro alla One in the chamber, mal girato e senza guizzi, diventa all'improvviso un'orgia di violenza che lascia basiti: il bicchiere, pieno di acido, squaglia la faccia di un malcapitato, Van Damme comincia a colpire con un coltello, usato per tagliare del salame, la gola del padrone del locale, poi calci in faccia, carotidi tagliate, corpi che esplodono in geyser di sangue; quello che sarebbe impensabile in un prodotto mainstream qui non ha paura ad essere mostrato. Ecco che l'action incattivito e impoverito diventa una questione da veri uomini, azzerando anni e anni di botte fumettistiche a favore di un realismo da combat film, con tanto di colori spenti della fotografia. Merito anche della sceneggiatura di Chad Law e Evan Law, finora mestieranti di prodotti usa e getta, che riattualizzano il plot di Hardcore e sbattono ineditamente temi attuali, la tratta delle bianche, la pedopornografia, non proprio solo per essere urlati o fare scandalo.

Anche la durata del film è esemplare, quasi due ore, anche questo non proprio da prodotto usa e getta per essere digerito e dimenticato dal distratto spettatore. Forse (e dico forse) non siamo davanti al capolavoro vandammiano del nuovo millennio ma poco ci manca. Perfetti nei ruoli, anche di contorno, i comprimari, dai figli dell'attore, Bianca e Christopher, in parti finalmente meno svilenti, all'inedito Joe Flanigan dal passato televisivo.

Tutto funziona in Six bullets, anche il melò che sfocia nell'espediente dei fantasmi che tormentano il protagonista, e si perdonano alcune facilonerie di sceneggiatura come l'idea bizzarra che ad essere rapita sia proprio la figlia di un personaggio pubblico e non una signora nessuno. Ma sono piccole cose che non stridono nel risultato finale, alla fine un film duro e gagliardo, un altro ruolo riuscito per Van Damme in attesa che Hollywood lo richiami dal suo esilio in Europa.
Keoma