Gerald Kargl è un regista austriaco che in tutta la sua lunga carriera, perlopiù trascorsa a scrivere, produrre e dirigere pubblicità e documentari (almeno così dice Wikipedia, giacché l'IMDB è assai vaga in quanto a informazioni biografiche) ha realizzato un solo lungometraggio di fiction, straordinario e persino di un certo successo di critica e pubblico; poi, silenzio. Stiamo parlando di
Angst, che oltre ad aver influenzato lo stile visionario e sperimentale di un altro grande enfant terrible della recente cinematografia francese,
Gaspar Noé, si è avvalso della collaborazione, in qualità di sceneggiatore e fotografo, dell'allora appena incoronato premio Oscar
Zbigniew Rybczynski. La vicenda è liberamente tratta dalle gesta omicide di un folle salisburghese, tale
Werner Kniesek, ancora vivente e detenuto, qui interpretato dal volto allucinato e geniale di
Erwin Leder, attore salito alla ribalta con un altro noto film tedesco,
U-Boot 96 (1981) di
Wolfgang Petersen; e che decenni più tardi ricomparirà in altri due lavori di pregio quali
Taxidermia (2006) e
Underworld (2003), nella parte dello scienziato Lycan Singe.
Il film si apre con un
Leder febbricitante e in preda alla paura (questa la traduzione del titolo) che girovaga per un quartiere residenziale di villette immerse nel verde e strade appartate; a un certo punto, senza motivo né finalità, suona alla porta di un'anziana per crivellarne il corpo di proiettili. Non ruba nulla, non conosce la vittima, lo fa soltanto perché le pulsioni inconsce che ne turbano l'animo sono divenute talmente incontrollabili che la sua razionalità ormai non può più nulla per arginarne le manifestazioni. A questo punto una breve carrellata di immagini con voce fuori campo ci fornisce qualche informazione aggiuntiva sul diabolico pregiudicato, e così sappiamo che l'uomo, di cui curiosamente non viene mai specificato il nome, ha avuto un'infanzia piuttosto difficile, schiacciato tra l'incudine e il martello di una famiglia punitiva e bigotta, e i propri aneliti perversi dapprima sfogati su animali; egli ha mostrato sin da ragazzino un interesse morboso per il martirio, cosa che ha portato i genitori ad avviarlo anzitempo in seminario, fino a quando, mutilate le bestie dell'allevamento monastico, l'irrequieto giovane non è stato rispedito al mittente nel modo più sbrigativo e imbarazzato. Comincia allora a frequentare una donna di gran lunga più grande di lui, che lo inizia alle pratiche sadomaso, e nel giro di poco finisce dietro le sbarre per il tentato omicidio della madre. Uscito, ammazza l'anziana di cui sopra, quindi, giudicato perfettamente in grado di intendere e di volere, viene rinchiuso per la seconda volta in carcere; scontata la pena di dieci anni, il folle torna ancora in libertà, naturalmente più malato di prima e con la medesima, irrefrenabile voglia di uccidere. Fine della carrellata, ritorno al tempo presente. Appena salito su un taxi, l'uomo tenta di strangolare l'autista, una bionda che in qualche modo rappresenta l'archetipo della sua vittima ideale, ma non riuscendoci per miracolo, è costretto a fuggire nei boschi per raggiungere un'elegantissima villa isolata dal resto del mondo. È qui che il criminale, disturbato dall'arrivo dei residenti, inscenerà il suo massacro più perfetto, l'apoteosi della sua diabolica carriera, protetto dalla quiete del quartiere e dal parco che circonda la proprietà. Gli inconsapevoli bersagli saranno una madre pensionata (
Edith Rosset) e i suoi due figli, una ragazza troppo bionda per non suscitare le tendenze deviate dell'intruso (
Silvia Rabenreither) e un paralitico ritardato (
Rudolf Götz), assolutamente innocuo ma non per questo meritevole di pietà.
Questa casa enorme, dalle immense metrature, dai cunicoli sotterranei che come stranissimi tracciati delineano una geometria cerebrale parallela al mondo soprastante, diviene l'inconsapevole metafora di un palcoscenico biografico; uno spazio, psicologicamente definito, fatto di allegorie frastagliate e asimmetriche, che in qualche modo astruso ricrea i rapporti primari tra il pazzo, la madre e il modello perfetto di vittima. L'aggressore si muove in un universo di simboli imperscrutabili, in cui ogni elemento richiama qualcos'altro di altrettanto impalpabile, e dove il confine tra realtà e allucinazione si fa talmente debole da sconfinare nell'interpretabile. La violenza si consuma però feroce, tra riprese ossessive, a un gradino dall'eccesso, primissimi piani bianchicci e distorti, torture e pestaggi da
Arancia meccanica, fino a concludersi con il massacro di tutti i componenti, chi strangolato, chi annegato, chi trafitto a coltellate e stuprato post mortem. Eppure, nonostante le prerogative con cui
Kargl costruisce la sua novella dell'orrore,
Angst non è mai la raffigurazione cinematografica di un killer seriale, piuttosto uno spunto ideale, per quanto derivato da un sostrato cronachistico, grazie al quale plasmare una sineddoche teorica in cui il microcosmo di un'area domestica è posto in relazione al macrocosmo di una mente malata. E in cui, come in un gioco spettrale, ogni personaggio rappresenta un ruolo socialmente identificabile e ciascuna forma un modello di riferimento ancor più concreto della realtà da cui è tratto. Questo austriaco eccentrico ma visivamente all'avanguardia pensa il suo cinema per sottrazione, facendo sfoggio, mai retorico né gratuito, di una applicazione quasi manualistica dello straniamento (brechtiano): i personaggi recitano praticamente da sonnambuli, immobilizzati in un torpore letargico, quasi non accorgendosi nemmeno della tragica sorte che sta per compiersi su di loro; quando il maniaco irrompe nell'abitazione, la giovane vittima di fatto non urla, dimenandosi meno di quel che dovrebbe, stretta com'è nelle spire di un nastro adesivo tutto sommato non troppo difficile da rimuovere. Persino la vecchia madre, estremamente vispa quando c'è da riprendere il figlio ritardato, non sposta un muscolo trovandosi di fronte allo squilibrato, preferendo subire passiva l'ordalia che la costringerà in breve a una fatale asfissia. Tutto è d'altronde filtrato dall'irrazionalità dell'uomo, che percepisce gli elementi deformandoli, che vede le cose flettendone i componenti (non a caso, i dialoghi diretti sono pochissimi, mentre al contrario abbondano i monologhi a flusso di coscienza narrati dalla voce over del protagonista, per non parlare del martellante e tormentoso contrappunto musicale ad opera di
Klaus Schulze). Su questo
Kargl è maestro della forma, e con una sceneggiatura tutto sommato banale e ripetitiva dalla sua, produce un capolavoro che, ponendosi in chiave antitetica con un
Aro Tolbukhin (2002) di
Augustí Villaronga, fa del minimalismo un punto di forza e di una regia spartana un ingrediente invece di valore. Non è un caso che la macchina da presa, qui vera coprotagonista della pellicola, galleggi per quasi tutto il tempo (vedasi l'incipit in particolare) attaccata al corpo e al volto del folle, come fosse un'emanazione vaga ma onnipresente, capace di inchiodarlo alle sue responsabilità; una finestrella insomma che, alterando a tratti l'equilibrio canonico delle inquadrature, ci conduce direttamente in un universo aberrante e “scomodo” da seguire. Straordinaria la scena iniziale, quando un
Leder preda delle sue ossessioni entra in una stazione di servizio per mangiare un würstel, e comincia a fissare gli avventori, soprattutto due belle ragazze che vorrebbe torturare e uccidere:
Kargl riprende insistentemente la bocca dell'uomo, che mastica la carne, sminuzzandola con rumori bestiali, quindi gli sguardi degli astanti, le ragazze, un signore al tavolo e la proprietaria della tavola calda, tutti che (forse) lo fissano, lo scrutano, lo giudicano nel silenzio apparente di un incubo paranoide. Gli stessi che poi, alla fine del film, gli si accoderanno nel piazzale antistante, quando la polizia gli intimerà di aprire il bagagliaio in cui ha riposto i corpi delle vittime. Sarà allora che lo guarderanno per davvero, pur senza mostrare emozione alcuna e senza scomporsi, immobili nel silenzio plumbeo dell'evidenza.
Angst è un film mostruosamente nichilista, anarchico, cattivissimo, interamente costruito attorno alla personalità depravata di un folle, che assoggetta il mondo intero alla sua libido svergognata, e che anzi utilizza le sue creature come delle estrinsecazioni esclusive del proprio prorompente Es. Non si salva nessuno dal suo tocco mefistofelico, nemmeno il cane della famiglia assassinata che, per tutta la durata della mattanza, pensa solo a scodinzolare amichevole all'intruso o a correre dietro a una palla cascata casualmente a terra. Eppure in questa pellicola c'è anche spazio per una sottilissima critica alle tradizionali istituzioni austriache, forse invisibile ai più, senz'altro presente al principio e così tipica della cultura di questo straordinario paese da aver toccato, per esempio, i suoi massimi esponenti letterari come
Thomas Bernhard e
Elfriede Jelinek: se l'uomo fosse stato sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio in apposite strutture, anziché subire l'ordalia del carcere, avrebbe potuto non diciamo guarire, ma almeno imparare a controllare le proprie distorte pulsioni omicide?
Marco Marchetti
l'hai descritto ottimamente Marco, film d'una potenza espressiva assolutamente unico.
RispondiEliminae quel Klaus Schulze alla musik, come si legge bene nella seconda locandina che hai messo, è uno dei fondatori dei "Tangerine Dream" un gruppo psichedelico che fu riferimento anche per gente come i Pink Floyd, non so se mi spiego... qua sono già comparsi come gruppo in occasione di un film storico rimusicato: Dante's Inferno (ed 2006, musicata dai Tangerine Dream), e del bellissimo Thief - Strade violente, e anche in Sorcerer - Il salario della paura, e a cercare a fondo ne troviamo altri di film da loro accompagnati
Vero, è tutto collegato in un'unica ragnatela i cui fili si intrecciano in un disegno tutto sommato abbastanza geometrico...
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