Ci sono film che, seguendo le più impervie ma fortunose congiunture astrali, quelle stesse imperscrutabili connessioni in grado di elevare una pellicola al pulpito delle maestranze, decretandone ovvero la morte per scapezzamento popolare o la gogna all'oblio, sono destinati, nonostante la pénurie d'argent, a occupare almeno un posto in piccionaia nell'empireo del cinema.
E che Pitch Black lo fosse, era quasi stampigliato a caratteri corsivi in quelle stesse stelle che la nave passeggeri Hunter Gratzner solcava in quel di Tangea, prima di impattare contro una sciame di rocciosi meteoriti spaccatutto e capitombolare, scimmiottando simpaticamente un'ipotetica versione tropicale di Alive, lungo i crinali desertici di un misconosciuto planetoide siderale, e lì stazionare frantumata in residui conficcati tra le dune. Dove però, con quella medesima joie pour le paradoxe di un Prometheus, scusabilissima quando si tratta di sì sofisticati objets raffinés come il summenzionato e quello in questione, si respira senza l'ausilio di marchingegni idraulici né serbatoi d'ossigeno.
Ai più negato camaleonte del sottobosco d'oltreoceano, David Twhoy, che aveva a suo tempo esordito con un altro sci-fi di una certa notorietà, Timescape, sceneggiando al contempo celeberrimi pezzi da novanta come Waterworld e Soldato Jane, s'è trattato da degno pascià (come d'altronde l'ambientazione inconsapevolmente mediorientale lascia supporre), circondandosi appunto di belle figliole, che in breve vedremo, un erculeo talento allora inesplorato, tale Mark Vincent Sinclair III altrimenti noto come Vin Diesel, nonché due fratelli dagli zebedei dorati, Jim e Ken Wheat. I quali, dirigendo alcuni film che, mutatis mutandis, giunti sulle coste lavinie hanno preso divertentissimi titoli cripto-cinefili quali Omicidio in 35 mm e Ribelli lingue bagnate (rispettivamente Lies e After Midnight, quest'ultimo calembour antologico in salsa horror), hanno raggranellato una certa perizia di sceneggiatura in roboanti titoli di genere (Nightmare 4 e La mosca 2, i più importanti).
Qui i prolegomeni narrativi contengono o conterrebbero gli incunaboli batteriologici di Alien, seppure in forma larvata, tanto che, con studiatissima puntualità, quanto ascrivibile alla nota serie fantascientifica, stemperandosi in sfumature aggraziate e screpolature tra loro intercambiabili, si disperde presto in una molteplicità di addentellati solo con (relativa) difficoltà riconducibili allo script di Dan O'Bannon. Sarà una questione freudiana, eppure Twohy, che tra i suoi copioni annoverava proprio un Alien 3 mai realizzato, ha voluto ugualmente permettere alle sue creature gigeriane di evolversi e adattarsi a un ambiente altrimenti ostile, ma facendo perdere loro l'integerrima fisicità mesomorfa di Scott ed epigoni, e trasformandole piuttosto in zanzariformi esemplari mutanti di Linguafoeda, con capoccia trilobata, lunghe e sottili zampe ragnesche, e pungiglione perennemente puntato a ore dodici (parrebbe più per una questione di gretto bilanciamento che per ostili forme di harassment alimentare). Naturalmente, le creature vivono intabarrate nel sottosuolo, in una rete di ramificati cunicoli di terra e pietra mineralizzata, un viluppo attorcigliato di buche, canali di drenaggio e labirintiche estensioni tanto simili a un sepolcrale alveare da rendere superfluo o quasi ogni compiaciuto riferimento ai dedali della Nostromo. Sì, anche perché il senso di pericolo imminente che l'alieno, lo xenomorfo classico per intenderci, riusciva a comunicare, in Pitch Black è suggerito per sottrazione più che per analogia, e quanto nell'epopea tradizionale era collocato in luoghi stretti e bui, qui è invece immerso nella canicola arabica di un pianeta illuminato da due soli e su cui, per ossimoro, non cala mai la notte. Tranne una volta ogni ventidue anni, come un modellino in scala, recuperato in un vecchio avamposto colonico, lascia surrettiziamente supporre, quando un'eclissi totale permette alle diaboliche entità eliofobiche di pasteggiare in superficie godendosi la compagnia di commensali in guisa umana.
Le probabilità che la Hunter Gratzner, perduto il capitano nel naufragio e delegate le relative funzioni alla bellissima Rahda Mitchell (la sgarzella di Silent Hill), precipitasse proprio in concomitanza di un evento di siffatta rarità rientra in quel delicatissimo jeu d'écriture che ogni modello di sceneggiatura bene o male presuppone. Lo si dà come fattore evenemenziale, indipendente da una tassonomia logica e cronologica che deve, per conformità e rispetto di una struttura sistemica superiore, ad essa sussumere. Così come si accetta, da imbolsiti spettatori a ben altre incoerenze usi, che il pericolosissimo malfattore Richard Riddick, interpretato dal forzuto Vin Diesel, sceso a patti (altrettanto e altrimenti ridicoli) col cacciatore di taglie, nonché suo nemico storico, William J. Johns (Cole Hauser), venga da questi liberato delle catene per unirsi agli altri superstiti e con loro raggiungere un vecchio vascello stellare grazie al quale prender quota. La fauna umana colà riunita è variamente sfaccettata: dal già citato capitano in pectore, che nascondendo un terribile segreto nelle maglie del proprio cuore, dovrà annaspare tra indicibili sensi di colpa pur di sbandierare con orgoglio contingente i lustrini da ammiraglio, fino all'imam Abu al-Walid (Keith David) la cui incrollabile fede, benché egli assista alla morte dei suoi giovanissimi allievi, non solo non ne uscirà mai scalfita, ma lo sospingerà a farsi mentore spirituale del sessualmente ambiguo Jack (Rhiana Griffith).
Pitch Black leviga le sue delicatissime stranezze (sarebbe esagerato definirle contraddittorietà) per farsi roman d'aventures rustico e tamarro, in cui il pluriomicida Riddick, con i suoi occhi chirurgicamente adulterati che gli consentono di vedere nel buio e quindi farsi guida del gruppo, finisce per assurgere ad antieroe romantico per eccellenza, cialtrone e misterioso ma capace di dar prova di bitorzoluta virulenza marziale: il “disarmo bipartisan” che intavola con Cole Hauser, ripartito per l'intera durata del film sotto forma di sguardi affilati come lame e ammiccanti doppi sensi, esplode nel finale in una sinfonia al sapor di sangue dove, come in ogni action ormai sedimentato nell'immaginario collettivo, l'odore di carne è preceduto da un corrugamento epidermico della fronte, e la gragnola di botte, spari, proiettili che ne segue, soltanto da una levata disincantata di sopracciglio o di spalle. Poco prima che Riddick, però, stregato infine dall'eleganza di modi della Mitchell, che nel tentativo comunque azzeccato di redimere le proprie debolezze di spirito, lo assalta con discorsi burrosi sull'unità del gruppo e sulla dedizione al sacrificio, ammazzi a mani nude (e sottolineiamo a mani nude) un poderoso esemplare di aborigeno dentuto. La prodezza da histoire picaresque conserva quasi dell'omerico, con il nostro villain che afferrate le zampe dell'oscena bestia, da solo la tiene a bada per poi sventrarne l'orrido carapace e gongolarsi in uno sciabordio di fumiganti budella versate.
Quello di Pitch Black è un mondo bellissimo e spaventoso, popolato lungo le sue dune riarse da un eterno meriggio e da antichi cimiteri di pantagruelici pachidermi (estinti forse con l'esaurimento dei bacini d'acqua), nonché da creature mostruose e aberranti nel sottosuolo (ma che pur non disdegna qualche momento di meraviglia, come gli insetti che, in uno straordinario esempio di darwinismo allogeno, si sono adattati ai predatori notturni cangiando la propria pelle in uno strato traslucido e incredibilmente riverberante, utile ad accecarne gli occhi di norma iper-sensibili alle fonti luminose). E soprattutto è un universo fatto di uomini che, forse peggiori di noi, in condizioni disperate si rivelano infinitamente migliori, facendo dell'abnegazione un valore altrimenti trascurato, e dell'immolazione una forma in qualche modo lirica di penitenza morale. Ma esso, ultimo ma non meno importante, è anche un film di donne strabilianti, da Radha Mitchell, che qui risplende come una déesse de sensualité féminine, bionda e lussuriosa come tutti gli angeli con la pistola, alla sua controparte più rude e selvaggia, l'amazzone Claudia Black, nei panni di Sharon “Shazza” Montgomery, una vestale corvina e silvestre, piena di sapori asprigni che si amalgamano nel suo habillement androgino, oserei dire caprino a tratti, e che ne dà l'idea di una femmina selvaggia e voluttuosa, una divoratrice di uomini dal cuore tenero. Costretta purtroppo a una brutta fine, sminuzzata quindi da uno stormo di cattivissimi pterodattili dai denti a sciabola.
Pitch Black è un film potente, ormonale, che dai muscoli calienti di Vin Diesel, tesi come l'acciaio, alle forme onuste delle sue cortigiane, intrappola tanto nell'aria afosa del deserto quanto nelle sue notti stellate, un qualcosa di profondamente erotico e disturbante, una sensazione indeterminabile a parole ma nondimeno onnipresente, che fuoriesce dallo schermo per inebriare lo spettatore, ottunderlo, offuscarlo con la sua energia primitiva e animalesca.
Imperdibile.
Ai più negato camaleonte del sottobosco d'oltreoceano, David Twhoy, che aveva a suo tempo esordito con un altro sci-fi di una certa notorietà, Timescape, sceneggiando al contempo celeberrimi pezzi da novanta come Waterworld e Soldato Jane, s'è trattato da degno pascià (come d'altronde l'ambientazione inconsapevolmente mediorientale lascia supporre), circondandosi appunto di belle figliole, che in breve vedremo, un erculeo talento allora inesplorato, tale Mark Vincent Sinclair III altrimenti noto come Vin Diesel, nonché due fratelli dagli zebedei dorati, Jim e Ken Wheat. I quali, dirigendo alcuni film che, mutatis mutandis, giunti sulle coste lavinie hanno preso divertentissimi titoli cripto-cinefili quali Omicidio in 35 mm e Ribelli lingue bagnate (rispettivamente Lies e After Midnight, quest'ultimo calembour antologico in salsa horror), hanno raggranellato una certa perizia di sceneggiatura in roboanti titoli di genere (Nightmare 4 e La mosca 2, i più importanti).
Qui i prolegomeni narrativi contengono o conterrebbero gli incunaboli batteriologici di Alien, seppure in forma larvata, tanto che, con studiatissima puntualità, quanto ascrivibile alla nota serie fantascientifica, stemperandosi in sfumature aggraziate e screpolature tra loro intercambiabili, si disperde presto in una molteplicità di addentellati solo con (relativa) difficoltà riconducibili allo script di Dan O'Bannon. Sarà una questione freudiana, eppure Twohy, che tra i suoi copioni annoverava proprio un Alien 3 mai realizzato, ha voluto ugualmente permettere alle sue creature gigeriane di evolversi e adattarsi a un ambiente altrimenti ostile, ma facendo perdere loro l'integerrima fisicità mesomorfa di Scott ed epigoni, e trasformandole piuttosto in zanzariformi esemplari mutanti di Linguafoeda, con capoccia trilobata, lunghe e sottili zampe ragnesche, e pungiglione perennemente puntato a ore dodici (parrebbe più per una questione di gretto bilanciamento che per ostili forme di harassment alimentare). Naturalmente, le creature vivono intabarrate nel sottosuolo, in una rete di ramificati cunicoli di terra e pietra mineralizzata, un viluppo attorcigliato di buche, canali di drenaggio e labirintiche estensioni tanto simili a un sepolcrale alveare da rendere superfluo o quasi ogni compiaciuto riferimento ai dedali della Nostromo. Sì, anche perché il senso di pericolo imminente che l'alieno, lo xenomorfo classico per intenderci, riusciva a comunicare, in Pitch Black è suggerito per sottrazione più che per analogia, e quanto nell'epopea tradizionale era collocato in luoghi stretti e bui, qui è invece immerso nella canicola arabica di un pianeta illuminato da due soli e su cui, per ossimoro, non cala mai la notte. Tranne una volta ogni ventidue anni, come un modellino in scala, recuperato in un vecchio avamposto colonico, lascia surrettiziamente supporre, quando un'eclissi totale permette alle diaboliche entità eliofobiche di pasteggiare in superficie godendosi la compagnia di commensali in guisa umana.
Le probabilità che la Hunter Gratzner, perduto il capitano nel naufragio e delegate le relative funzioni alla bellissima Rahda Mitchell (la sgarzella di Silent Hill), precipitasse proprio in concomitanza di un evento di siffatta rarità rientra in quel delicatissimo jeu d'écriture che ogni modello di sceneggiatura bene o male presuppone. Lo si dà come fattore evenemenziale, indipendente da una tassonomia logica e cronologica che deve, per conformità e rispetto di una struttura sistemica superiore, ad essa sussumere. Così come si accetta, da imbolsiti spettatori a ben altre incoerenze usi, che il pericolosissimo malfattore Richard Riddick, interpretato dal forzuto Vin Diesel, sceso a patti (altrettanto e altrimenti ridicoli) col cacciatore di taglie, nonché suo nemico storico, William J. Johns (Cole Hauser), venga da questi liberato delle catene per unirsi agli altri superstiti e con loro raggiungere un vecchio vascello stellare grazie al quale prender quota. La fauna umana colà riunita è variamente sfaccettata: dal già citato capitano in pectore, che nascondendo un terribile segreto nelle maglie del proprio cuore, dovrà annaspare tra indicibili sensi di colpa pur di sbandierare con orgoglio contingente i lustrini da ammiraglio, fino all'imam Abu al-Walid (Keith David) la cui incrollabile fede, benché egli assista alla morte dei suoi giovanissimi allievi, non solo non ne uscirà mai scalfita, ma lo sospingerà a farsi mentore spirituale del sessualmente ambiguo Jack (Rhiana Griffith).
Pitch Black leviga le sue delicatissime stranezze (sarebbe esagerato definirle contraddittorietà) per farsi roman d'aventures rustico e tamarro, in cui il pluriomicida Riddick, con i suoi occhi chirurgicamente adulterati che gli consentono di vedere nel buio e quindi farsi guida del gruppo, finisce per assurgere ad antieroe romantico per eccellenza, cialtrone e misterioso ma capace di dar prova di bitorzoluta virulenza marziale: il “disarmo bipartisan” che intavola con Cole Hauser, ripartito per l'intera durata del film sotto forma di sguardi affilati come lame e ammiccanti doppi sensi, esplode nel finale in una sinfonia al sapor di sangue dove, come in ogni action ormai sedimentato nell'immaginario collettivo, l'odore di carne è preceduto da un corrugamento epidermico della fronte, e la gragnola di botte, spari, proiettili che ne segue, soltanto da una levata disincantata di sopracciglio o di spalle. Poco prima che Riddick, però, stregato infine dall'eleganza di modi della Mitchell, che nel tentativo comunque azzeccato di redimere le proprie debolezze di spirito, lo assalta con discorsi burrosi sull'unità del gruppo e sulla dedizione al sacrificio, ammazzi a mani nude (e sottolineiamo a mani nude) un poderoso esemplare di aborigeno dentuto. La prodezza da histoire picaresque conserva quasi dell'omerico, con il nostro villain che afferrate le zampe dell'oscena bestia, da solo la tiene a bada per poi sventrarne l'orrido carapace e gongolarsi in uno sciabordio di fumiganti budella versate.
Quello di Pitch Black è un mondo bellissimo e spaventoso, popolato lungo le sue dune riarse da un eterno meriggio e da antichi cimiteri di pantagruelici pachidermi (estinti forse con l'esaurimento dei bacini d'acqua), nonché da creature mostruose e aberranti nel sottosuolo (ma che pur non disdegna qualche momento di meraviglia, come gli insetti che, in uno straordinario esempio di darwinismo allogeno, si sono adattati ai predatori notturni cangiando la propria pelle in uno strato traslucido e incredibilmente riverberante, utile ad accecarne gli occhi di norma iper-sensibili alle fonti luminose). E soprattutto è un universo fatto di uomini che, forse peggiori di noi, in condizioni disperate si rivelano infinitamente migliori, facendo dell'abnegazione un valore altrimenti trascurato, e dell'immolazione una forma in qualche modo lirica di penitenza morale. Ma esso, ultimo ma non meno importante, è anche un film di donne strabilianti, da Radha Mitchell, che qui risplende come una déesse de sensualité féminine, bionda e lussuriosa come tutti gli angeli con la pistola, alla sua controparte più rude e selvaggia, l'amazzone Claudia Black, nei panni di Sharon “Shazza” Montgomery, una vestale corvina e silvestre, piena di sapori asprigni che si amalgamano nel suo habillement androgino, oserei dire caprino a tratti, e che ne dà l'idea di una femmina selvaggia e voluttuosa, una divoratrice di uomini dal cuore tenero. Costretta purtroppo a una brutta fine, sminuzzata quindi da uno stormo di cattivissimi pterodattili dai denti a sciabola.
Pitch Black è un film potente, ormonale, che dai muscoli calienti di Vin Diesel, tesi come l'acciaio, alle forme onuste delle sue cortigiane, intrappola tanto nell'aria afosa del deserto quanto nelle sue notti stellate, un qualcosa di profondamente erotico e disturbante, una sensazione indeterminabile a parole ma nondimeno onnipresente, che fuoriesce dallo schermo per inebriare lo spettatore, ottunderlo, offuscarlo con la sua energia primitiva e animalesca.
Imperdibile.
Marco Marchetti
Capolavoro senza se e senza ma. Uno dei film maggiormente carpenteriani se non il più carpenteriano in assoluto, senza essere di Carpenter, come il suo strepitoso eroe-anti eroe Riddick. Degno epigono di Jena Plissken e di Desolazione Willimas/Ice Cube suo però coevo, e per la presenza certo non casuale fra gli interpreti di Keith David.
RispondiEliminaAll'epoca (2004) venni deluso dal sequel "Chronicles of Riddick" in quanto una cosa quasi completamente diversa da "Pitch Black", gonfiato con gli estrogeni del blockbuster hollywoodiano e dai milioni di $ spesi in centinaia di effetti in CGI, però mi sono accorto maggiormente in successive visioni, con quanta intelligenza di scrittura e caratterizzazione delle situazioni e della tensione da parte di Twohy, che che come sceneggiatore forse è meglio anche di come regista(vedere pure l'horror sommergibilistico "Below"), oltre che ad avere maggior spazio Riddick stesso che in "Pitch Black". Esiste anche un mediometraggio realizzato per la tv da Twohy prima di "Pitch Black", nel quale viene presentato per la prima volta Vin Diesel e il suo personaggio, facilmente rintracciabile in rete. E' molto bello tratto dagli stessi e con i medesimi personaggi anche il film d'animazione "Dark Fury", uscito in dvd assieme alle Edizioni Speciali di "Pitch Black" e "Chronicles of Riddick" nel 2005.
E' attualmente in lavorazione il terzo capitolo della saga ovviamente sempre con Vin Diesel alla ricerca di una risalita dalla china di lavori quasi "straight to video" in cui è caduto, e dal titolo semplicemente di "Riddick", speriamo abbastanza promettentemente diretto sempre da Twohy.
urca, mi cerco anche "Below" allora! questo m'è piaciuto tantissimo
RispondiEliminain una parola "una boooommbaaaaa!" grandi ragazzi, Riddick is the man!
RispondiEliminame li cerco tutti...
RispondiEliminaMa qualcuno, a parte il titolo in oggetto le rece a riguardo le legge ancora...?
RispondiEliminaIo solitamente leggo per intero le rece di film che ho già visto.
RispondiEliminaE in generale tutti i commenti, dato che difficilmente contengono spoiler..
Non dico capolavoro ma cazzo se mi è piaciuto!! Una gran figata! assolutamente splendido. incredibile che me l'ero perso.. anche quando lo facevano per mediaset non lo guardavo mai..
RispondiEliminaMolto bello anche Below. Mi ha ricordato un po' u-boot 96 e un po' triangle.
RispondiElimina