Planet Terror, portata principale di un piatto tex mex rigorosamente di confine, condivide con il suo padre putativo, Deathproof (al quale avrebbe dovuto accompagnarsi in un unico drive-in double feature show di oltre tre ore) la medesima qualità cinematografica, soltanto di intensità altrettanto rigorosamente opposta: sarà perché le più imperscrutabili connessioni del fato stabiliscono, a cadenza più o meno regolare, che gli epigoni superino in qualità e prestigio i maestri (benché al “nostrano” Quentin spetti più il dubbio onore del secondo termine che la gloria imperitura del primo), ma se di sicuro Deathproof era un arzigogolo onanista, intriso di un amour cinéphilique gettato in pasto ai cani per arrotondare il metraggio e far quadrare i conti, Planet Terror è invece un'esplosione canterina e parecchio maleducata di sofisticata sfacciataggine. Mentre il regista del Tennessee sgomitava cialtronescamente nel tripudio di un pubblico “d'essai”, che riusciva a coccolarsi la sua defecatio pur di non inimicarsi l'ideatore di Pulp Fiction, il texano Rodriguez si dava un gran daffare a montare un'impalcatura al vetriolo composta da tutto ciò che ogni seguace del “tarantinismo ortodosso” si sarebbe aspettato da un film di Tarantino; ma che invece ha poi ritrovato, con una compiaciuta strizzatina d'occhi e di cojones, nel baldo seguace.
Planet Terror inizia con uno scambio “equo e solidale” lungo la frontiera, soldi in cambio di armi di distruzione di massa, che però finisce in apocalisse causa problemi di public relations tra il brillante biochimico Abby (Naveen Andrews), un rustico ispanico che si diletta a sgusciare le gonadi dei malcapitati dai loro involucri epidermici altrimenti detti testicoli, e il tenente Muldoon (Bruce Willis); il quale, capeggiando un piccolo esercito di sedicenti ribelli guerrafondai, tra cui, tra i faccendieri, un sessuomane Quentin Tarantino (si vocifera onnipresente sul set), è stato irrimediabilmente contaminato dalle fuoriuscite gassose della summenzionata sostanza virale, nell'ambiente nota come DC-2. Detto virus, che trasmuta le vittime in zombi, infetta presto l'inerme popolazione della zona, fino a quando, nel generale pandemonio epidemico a base di carne triturata, gente resuscitata, budella versate e arti amputati alla bisogna, le storie ordinariamente folli di personaggi ordinariamente insani si intrecciano tra loro trasformando la sceneggiatura in un campo di battaglia per intuizioni di totale demenza. C'è per esempio la dottoressa Dakota Block (Marley Shelton, la dame en rouge di Sin City), che occultando una tresca clandestina a base di amori saffici (beneficiaria la conturbante Stacey Ferguson, destinata quindi a divina punizione per aver violato la sacralità del talamo), rischia le botte più che il divorzio dall'integerrimo marito (Josh Brolin). I due medici fanno entrambi il turno di notte all'ospedale locale, lei con una bella giarrettiera orlata di siringhe psicotrope a impugnatura sagomata, lui che si ritrova per le mani, prima di rinchiudere la consorte nell'armadio sotto l'effetto di anestetici, un caso da manuale del bizzarro, con questo tizio pustoloso che pian piano si muta in zombi cannibale. La diagnosi sarebbe asportargli il braccio onde evitare il propagarsi della cancrena, ma quando l'insolente poveraccio, subodorata la minaccia, inverte i ruoli e sega gli arti del chirurgo addetto alla sutura, il dottor Block è troppo impegnato a enumerare cadaveri, nel frattempo stipati nei corridoi del nosocomio per penuria di spazio, per accorgersi del fattaccio. È a questo punto che viene ricoverata la bella Cherry (Rose McGowan, tra l'altro fidanzata del regista), un'ex strip dancer che, licenziatasi, si fa dare un passaggio dal moroso El Wray (Freddy Rodriguez, a quanto pare il cognome è un semplice caso di omonimia) per poi capitombolare incidentata ai margini della carreggiata e farsi sbranare la gamba da un branco di mostri assatanati. Fortuna che El Wray, ragazzaccio donne e motori più pratico di un medico del pronto intervento, le sostituisce la zampa con il supporto in legno di un tavolo, consentendole di scappare quando il numero dei morti resuscitati supera di gran lunga quello dei vivi.
Rodriguez non ci risparmia nulla, dalle ulcerazioni pustolose palatali che scoppiettano come il grasso bituminoso di una grigliata, alle dita da auguri affamati che, ruspando fra viscere e toraci scoperchiati, sbobinano metri di intestina portandosele alla bocca e sminuzzandone gli scampoli tra borbotti bavosi al sapor di catarro. Tutto è squadernato in bella mostra, in un gioco al ribasso dove vince chi vomita con maggior enfasi e scoreggia con più fine scortesia. Ce n'è davvero per tutti i gusti, dalle facce limacciose dei mutanti, un pastrocchio vischioso in bilico tra un piatto di spaghetti all'amatriciana e una secchiata di rigurgito ai frutti di mare, alle deformità polpettose di corpi rigonfi di materiale infetto e sieroso, che secernendo purulenze assortite, omaggiano e sbugiardano tutta la lezione cinematografica da Brian Yuzna e Stuart Gordon in poi. La coralità di Rodriguez, come in Machete (curiosamente qui citato in apertura, a mo' di fake trailer), raggiunge solo in chiusura la sua epitome, momento di sublime idiozia in cui tutti questi beceri individui senza arte né parte, poliziotti e puttane, ballerine e papponi, gerenti di rosticcerie messicane, soldati e spacciatori, intavolano la resa dei conti tra bombe, esplosioni, massacri senza alcun perché tranne l'esigenza di concludere e conchiudere in qualche modo il farneticante copione. Quando Tarantino tenta di stuprare la McGowan (da psico-Oscar il dialogo: “I'm going to get my dick wet”; “She's got one leg”; “Easier Access”; “You got a point”), andando prima incontro a una degenerazione dei tessuti che lo rende uno slime venereo di somiglianza vagamente pulpesca, quindi finendo impalato dalla gamba di lei, allora capisci che c'è una strategia sottile ma palese. E che questa strategia, fregandosene di ogni rimando logico, di connessioni decodificabili o di qualsiasi altra congiuntura semantica sufficientemente comprensibile, occhieggia alla mattanza generale, al di là di una causa o motivazione specifiche. Così, soltanto come sfida al buongusto. Il contorno pepato di citazioni colte insaporisce certo la pietanza (ma nessuno s'è accorto che l'attacco-zombi sul ponte è la ricostruzione manifesta dell'altrettanto simile carneficina in Zombi 3?), eppure ciò che resta, alla fine, è un tripudio torcibudella più inebriante del mezcal al gusano del maguey (la tequila col verme, giacché siamo in tema, e anche questa scrupolosamente messicana). Nel momento in cui la bella danseuse sostituisce la gamba di legno con una potente mitragliatrice, sparando a tutti coloro ai quali punta l'arto artificiale, il film di Rodriguez, fino a quel momento pazzo e ilare, si fa soffusa poesia, ovvero delicato delirio in versi che, inanellando una strofa diabolica a una terzina allucinata, solfeggia a colpi di mitraglia e teste impallinate una partitura che ormai procede per geniale improvvisazione. A quel punto non te ne frega più niente di nessuno, te ne stai lì spaparanzato in poltrona, le patatine imburrate che ti colano dalla bocca, una refrigerante bottiglia di birra a stento sorretta in mano, a goderti lo spettacolo senza che un barlume di razionalità o uno spicchio di rigore ti lampeggino per il cervello ormai in sovraccarico sensoriale.
Planet Terror è una fatica immersa nel chili fino alle pudenda, caliente come le salsicce di facocero arrostite a fuoco lento e le bellezze messicane (e non) che pullulano lungo i crinali precocemente invecchiati del suo metraggio. E pur non essendo mai il tentativo di ricostruire, né con perizia filologica né con amore per il pastiche iperrealista, un'idea di cinema settantesco, che come ognuno di noi sa era cosa del tutto diversa, non migliore o peggiore, ma soltanto altra rispetto ai suoi eccessi visivi, esso riesce comunque a rendere un'ipotesi plausibile di una filmografia (e soprattutto di un'epoca) definitivamente tramontata. Se alla morte dei drive-in fosse sopravvissuta almeno la cultura del “trash”, nel senso più nobile e riabilitante del termine, forse oggi la laudatio di Rodriguez potrebbe rinunciare ai cascami d'antan, alle bruciature pellicolari, alle gelatine (il miele, in linguaggio tecnico) che lentamente corrodono e fanno tremolare immagini troppo manipolate e troppo insudiciate per essere credibili. Forse, se il processo digestivo cui va incontro il pubblico fosse aiutato da tutt'altro ricettario dietetico, quelli che oggi sono considerati i bijoux per spettatori al gusto nostalgico del nerd da videoregistratore avrebbero una visibilità, e quindi un sostegno produttivo, di gran lunga più capillare. Invece, terminata la visione di Planet Terror, non già nel caravanserraglio sudaticcio e appiccicoso di un vecchio cinema all'aperto, bensì nel salotto imborghesito e così rispettabile di casa propria, ecco che resta soltanto l'inizio di una nera fiaba per adulti, un venerabile epitaffio da leggere alle discendenze che tanto, per cause e concause tra le più varie, hanno già debellato il sacro timor (profano) del cinema dalle menti di giovani virgulti cresciuti a pane e televisione: c'era una volta, tanto tempo fa, nel magico regno della celluloide, uno sperduto villaggio di mostri gommosi, lucertolose creature degli abissi, serpentoni loricati, zombi dalle facce plastificate e discinte vestali che al sorgere della luna si riunivano attorno al fuoco evocando arcani spiriti ecc ecc...
Peccato che ormai alle favole, persino a quelle serie, non creda più nessuno.
Marco Marchetti
Doveva farne la colonna sonora Carpenter. Almeno, gli fu ufficialmente chiesto. Egli ovviamente declinò l'invito. Ecco perchè la O.S.T. è così richiamante le sonorità ai sintetizzatori talmente riconoscibili e tipizzate dei film di John.
RispondiEliminaComunque meglio "Planet Terror" di "Death Proof", molto più "concludente" e convincente, motivato nel suo omaggio-rielaborazione seppur svuotato dal peso del citazionismo,e anche se il senso dell'operazione è forse il più basso dell'intera carriera registica di Tarantino.
oggi smaltisco un bel po' d'arretrato e lo sto giusto guardando ora. devo dire che mi sta proprio entusiasmando :)
RispondiEliminaMe lo devo procurare anch'io. Adoro quel pazzo sciroccato di Rodriguez.
Eliminacazzo questo è imperdibile
RispondiEliminaziocane che figata... persino gli schizzi di sangue sulla mdp, non li avevo mai visti. e l'effetto pellicola vecchia? a un certo punto si brucia persino, ahah!
RispondiEliminaVisto che limacciosa tamarrata? E tu pensa che ho aspettato anni per vederlo, dopo Deathproof, che mi aveva fatto roteare gli zebedei, avevo deciso di chiudere col collaboratore del Quentin...
EliminaGli schizzi di sangue sull'obbiettivo li facevano gia' negli Yakuza-eige di quaranta e passa anni fa.
RispondiEliminaonore all'aver copiato una bella idea allora!
RispondiElimina'sti cazzo di giapponesi oh, so' tremendi...
A proposito di quarant'anni di carriera, e' morto una settimana fa in uno stupido e fortuito incidente automobilistico Konji Wakamatsu. Aveva appena presentato due film uno migliore dell'altro a Cannes e a Venezia, piu' un altro ancora in uscita sul '68 giapponese. Urge omaggio imprescindibile e mi rivolgo a tutti, tutti.
RispondiEliminadavvero??? uno dei miei massimi, Wakamatsu, ho visto cose da lui stupende! lo faremo con una rece, che dici?
RispondiEliminaPiaciuto, mi è piaciuto..io adoro Rodriguez. Però, secondo me, non è il suo miglior film. Machete, ad esempio, mi è piaciuto di più. Poi vabbhe la trilogia dei mariachi e Dal Tramonto all'alba per me sono capolavori :D
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