I colori della passione, dodicesimo lungometraggio del polacco Lech Majewski, concentrandosi soltanto sul 1564, anno de La salita al Calvario (opus magnum commissionato per quel d'Anversa dal mecenate Niclaes Jonghelinck), approfitta delle saltuarie ma onnipresenti incursioni nel quotidiano del pittore per mostrarne la famiglia numerosissima, tra cui, riconoscibile nell'infante da poco partorito, anche il futuro Bruegel degli Inferi, agli annali noto come Bruegel il Giovane e successivamente specializzando in tematiche cupe e per l'appunto infernali; e che a sua volta sarà padre di un ulteriore pittore le cui opere andranno però perdute, Peter Bruegel III. La dinastia poi continua da parte del cadetto Jan Bruegel il Vecchio, generato appena un anno prima della morte del genitore, e che a sua volta insufflerà vita a Jan Bruegel il Giovane il quale, convolando al talamo con Anna-Maria Jansens, aggiungerà all'albo genealogico un Abraham Bruegel, fratello di Jan Peeter Bruegel e cugino di primo grado di Jan van Kessel il Vecchio, a sua volta padre di ben due pittori, Jan van Kessel il Giovane e Ferdinand van Kessel per mezzo di Maria van Apshoven, e originato dall'unione amorosa tra Paschasie Bruegel, sorella di Jan, e l'artista Hieronymus van Kessel e via discorrendo. Saltabeccando per generazione in generazione, ci si abbandonerebbe a un volo pindarico al confine col panegirico più gratuito, utile a mandare in solluchero i più suscettibili filologi dell'arte ma assai poco pratico per penetrare nell'opera di Majewski; che comunque, ricorrendo a un numero impressionante di comparse, circa centocinquanta o anche più, rende bene l'idea di quella dimensione agglutinante e collettiva, dotata della raffinatezza plastica che soltanto i manieristi tardocinquecenteschi riuscivano a comunicare, tipica dell'immaginazione di Bruegel.
I colori della passione, che già nel suo titolo di per sé liberamente adattato dall'originale, The Mill and the Cross, si fa tautologia di quanto inscena, ovvero la passione di Cristo, più che un quadro, il secondo per dimensioni nella carriera del suo prolifico padre, e ora conservato nelle blasonate sale del Kunsthistorisches Museum viennese, è un tripudio sgargiante di figure, persone, tonalità, e ancor prima metafora (politica e sociale) dell'epoca. Difficile trovare il fulcro di questo brulicare, come impossibile risulta quasi, tanto allo spettatore distratto della modernità, quanto al più smaliziato estimatore, fissarsi sul centro della composizione o sulle sue aree periferiche, nel tentativo di individuarne una chiave di lettura oppure, con banalità, un fil rouge sottile ed esoterico, tessuto tra le sue maglie sottili, capace di unire quanto sembra disgregato o connettere ciò che diversamente si direbbe incoerente. Eppure il film di Majewski, inebriato costui dalla storia del pittore fiammingo, abbandona a prescindere le armi del biopic (e sempre sia lodato per questo, verrebbe da aggiungere) per smontare, nel vero senso della parola, la sua struttura a scompartimenti, e sviscerarne, pezzo per pezzo, le attorcigliate budella. Il delegato è Rutger Hauer che, vestendo i panni del Bruegel (si dice sia lui ad autorappresentarsi a latere delle vicende, biancovestito sotto la ruota a destra della composizione) conduce lo spettatore, deputando al tempo medesimo il committente Jonghelinck (Michael York) a interessato depositario del suo resoconto esegetico, in un viaggio fantastico alla scoperta del proprio capolavoro ancora in fieri. E lo nel modo più semplice e straordinario, e cioè mutando l'immobilità del quadro in una visione ubriaca, impregnata di una vitalità sanguigna e rinascimentale, che dai discepoli della scuola d'Anversa, Patinir, Cock, Matsys e tutti gli altri immortali, prende l'ossessione per il dettaglio, condivide l'amore per il gusto espositivo, ne ruba infine la squisitezza nella disposizione e l'eleganza per il particolare. Si apre così uno scenario cinematografico assolutamente inedito e innovativo, qualcosa forse di epocale, destinato a sedimentare nella storia della settima arte come il Wittgenstein di Jarman o il Dogville di Lars Von Trier, e che trova un ipotetico padre putativo, a volerne trovare uno, nello slavo Arca russa di Sokurov. Anche se lì il tema dell'esplorazione (l'Ermitage di San Pietroburgo) si faceva sacrario di memoria collettiva e patriottica, nel senso etimologico di patria, nazione, popolo, qui invece diventa puro itinerario immaginifico di ricostruzione storica. Da un lato l'esistenza di Bruegel, che impegnato nella vita di tutti i giorni, accarezza e ripassa schizzi e bozzetti, osserva la natura, la deforma nelle sue creazioni chimeriche e fumiganti, per poi recarsi in un'Anversa fuori dal tempo e conferire con i mecenati e i nobili acculturati del periodo; dall'altra, la partenogenesi de La salita al Calvario, narrata come dicevamo poc'anzi al collezionista e facoltoso finanziatore, un quadro che si apre dinnanzi ai nostri occhi, che freme di vita, e i cui personaggi, abbaruffati e tremendamente reali, sfilano in una caciara formicolante.
Quella di Majewski è come una città addormentata, che piano si risveglia catatonica e pruriginosa, dove gli abitanti, contadini e zappaterra, preti e mercanti e soldati (ambientazione in costume contemporanea al pittore, ça va sans dire, qualcuno ritiene per conferire maggiore spessore morale alla parabola, qualcuno, più realisticamente, per paludare la frecciata all'invasore spagnolo che, dopo la morte di Carlo V, reprime con livore gli autoctoni protestanti) si vestono e travestono alla volta del Golgota. È tutto uno sbuffare di danze, un piagnisteo canterino di venditori, un corteggiamento primaverile che tra chincaglierie paganeggianti e siparietti corporali ricorda così tanto il Pasolini boccaccesco che persino l'ombra della morte, onnipresente e pervasiva, rischia a tratti di edulcorarsi in un'incombenza esile e trasparente, piegata a margine degli eventi. Non è una casualità, perché nel disegno del pittore, e di conseguenza in quello divino (che vediamo simboleggiato nell'arcaico mulino posto sul cucuzzolo del monte ove, al principiare della pellicola, un comatoso mugnaio, allegoria del Signore, subito è pronto ad azionare la ruota del fato), la morte di Cristo, ingurgitato dalla fiumana di persone che solo di rado s'accorgono del suo sacrificio, pur essendo egli al centro della rappresentazione, è oggetto di oblio e di derisione. La natura umana, così imbozzolata nel peccato da rendere forse superflua la speranza di remissione, è effigiata nei suoi molteplici vizi e nelle poche virtù di cui si fa latrice. Da una parte i ladroni caricati sul carro, che consolati dai sacerdoti sono condotti insieme a Gesù al Calvario, dall'altra Simone di Cirene che, slanciatosi per soccorrere il maestro, viene presto trattenuto dalle adunche mani della sua muliebre metà. Tra gli estremi di questa fauna febbrile, che pullula di individui beceri e sgomitanti, di cavalieri, paesani e musicisti, di agricoltori, beoni e operai, ecco il gineceo delle pie donne, evidenziato in primo piano, tra le quali spicca la Vergine Maria (interpretata da Charlotte Rampling), consolata a stento dall'efebico Giovanni, proprio accanto alla ruota della morte, laddove per davvero venivano appesi i criminali condannati e lasciati in pasto ai rapaci.
Majewski è uno di quei virtuosistici demiurgi che, all'ésprit de finesse per i loro oggetti da wunderkammer cinefila, sanno accompagnare il gusto odorifero per i sapori più cangianti, per le nuance più affusolate, per le raffigurazioni sofisticate; ed è così che noi spettatori, colpiti e sedotti al tempo stesso da un miasma policromo di vestimenti, di epidermidi azzimate, di pose barocche, fronzoli e arabeschi, anneghiamo in una serie di palpitanti tableaux vivants, curati da raffinatissimi artisti visivi quali Marcel Slawinski e Katarzyna Sobanska, ove la sacralità delle vicende si inanella alla profanità dell'esposizione, e la bellezza contemplativa all'orrore mistico del patimento cristiano. Il regista, che per inciso è anche curatore delle musiche e della fotografia, insieme rispettivamente a Jòzef Skrzek e Adam Sikora, ci conduce in un pezzo (recuperato e restaurato con amore oseremmo dire filologico) di quotidianità rinascimentale, in quella stessa quotidianità crepuscolare che, come tutta la tradizione pittorica fiamminga ci insegna, passa dalla divinità alla mondanità con invidiabile e svagata noncuranza. Il risultato è una gazzarra fastosa di scenografie accuratissime, di costumi splendidamente abbigliati, l'affresco magnifico di una pantomima altrettanto magnificamente coreografata. Il paradiso dell'esteta più integerrimo.
Marco Marchetti
'Sti cazzi! definirla una recensione sarebbe riduttivo. Complimenti.
RispondiEliminaSono curiosissimo di vedere come se la cava Rutger Hauer in questo ruolo.
veramente un pezzo di grande livello Marco, per un film che ritengo un capolavoro che non invecchierà mai. è come vedere un quadro in movimento. si può giocare a stoppare la visione in qualsiasi momento e pensi "è un quadro". poi riparti e ti sorprendi che i personaggi si muovono! spettacolare
RispondiEliminae io dove lo pesco questo film, Roby, helpme! :( m'hai suscitato un gran desiderio (di goderne :p)... :* Ammiro l'opera dei due artisti: regista e pittore! ;)
RispondiEliminanon preoccuparti. ci pensa papà robydick in settimana ;)
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