venerdì 16 novembre 2012

Below

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Siamo nel 1943, al largo dell'Inghilterra. Un sommergibile targato America, capitanato da David Twhoy e progettato dal distico Darren Aronofsky e Lucas Sussman, solca le turbolente acque nottetempo visitate dai pericolosi incrociatori teutonici; la missione, affidata al capitano Loomis (Holt McCallany), è prestare soccorso ai superstiti di un'imbarcazione ospedaliera devastata dalle bombe tedesche, che ora galleggiano al largo tra detriti e macerie ancora fumanti.

Gli “eletti” dell'operazione di salvataggio sono soltanto tre su un equipaggio di ben settanta unità, la dottoressa Claire (Olivia Williams), l'inglese Kingsley (Dexter Fletcher) e un passeggero sotto mentite spoglie che a causa delle ferite riportate pare avere perso conoscenza. Tutti gli altri sono morti, chi bruciato durante l'attacco, chi annegato nel ventre gelido dell'oceano. Purtroppo tutto questo è solo l'inizio di un incubo tremendo: inserire una (bella) donna in un ambiente di soli uomini, tra l'altro per mesi lontani da qualsiasi porto e sui quali grava quotidianamente la minaccia di una dipartita tremenda e rapidissima, non è cosa tra le più sagge, soprattutto nel momento in cui i marinai in comando, Loomis e Brice (Bruce Greenwood) scoprono che la dottoressa ha per tutto il tempo occultato la vera identità di uno dei passeggeri salvati. Quando Loomis entra nella cuccetta dove riposa fasciato il misterioso ospite, sentendosi apostrofare con un compiaciuto “Hallo, mein Kapitän!”, capisce di essere stato gabbato, e che forse la cosa migliore è crivellare di proiettili il problematico intruso. Le cose sono destinate in breve a peggiorare, perché strani avvenimenti cominciano a prendere piede a bordo, dal grammofono che di punto in bianco inizia a suonare nel cuore della notte (Sing, Sing, Sing di Benny Goodman), permettendo ai sonar nemici di individuare la posizione del Tiger Shark, a strani guasti e impercettibili visioni in bilico tra la suggestione e il paranormale.

Un insolito sospiro acuisce la paura, enigmatiche voci dall'oltretomba sospingono chiunque a sospettare di qualsiasi individuo, subitanei incidenti consentono di urlare ora al sabotaggio ora all'impalpabile anatema. Che sia lo spirito del tedesco deliberatamente assassinato a gettare un'ombra nefasta sull'altrimenti affiatato equipaggio? A incrinare i rapporti tra i soldati, a seminare zizzania laddove cresceva l'onestà di un'amicizia virile e ben salda? Ma forse il prigioniero giustiziato è solo un inconsapevole specchietto per le allodole, come comprende presto l'intelligente Claire che, aiutata dal mite novizio Odell (Matthew Davis), finisce presto per disseppellire inconfessabili avvenimenti di cui nessuno l'aveva messa al corrente.

Below inizia con una carrellata liquida ma estremamente sicura, che inabissandosi per i corridoi del sottomarino, si sposta prima in un pertugio, quindi nella stiva, allora nella sala macchine per risalire lungo la cabina di comando e presentarci, per ogni sua peregrinazione, un membro dell'indaffarata ciurma. Se non è una citazione lapalissiana all'incipit di Alien, con i suoi movimenti nei budelli tortuosi del Nostromo, negli interstizi, nei vani più riposti, allora si tratta di un'incredibile coincidenza. In effetti i punti di contatto tra le due pellicole non si limitano alla regia (più indecifrabile quella di Ridley Scott, a tratti fincheriana quella di Twhoy), ma comprendono tutta una serie di accorgimenti estetici, a partire dall'ambientazione sotterranea (il sommergibile anziché la nave spaziale), fino alle strutturate scenografie che, pur sottolineando le dovute differenze storiche e cronologiche, comunicano entrambe l'impressione di un luogo capace di fagocitare i suoi perlustratori. Tubi e marchingegni, reticolati elettronici e intrecci di bobine, dedali tra loro avviluppati e incomprensibili aggeggi di guida sono soltanto alcuni degli strumenti che ritroviamo nell'habitat barocco dei film in esame. La differenza principale rispetto al film di Scott, però, è che la minaccia che grava sugli inconsapevoli astanti non è uno scomodo parassita recuperato dal mondo esterno, piuttosto qualcosa di tipicamente “inner”, intendendo con tale termine il ginepraio di connessioni freudiane che, sgomitando nell'inconscio di questi lupi di mare dalle molteplici colpe, spingono per tornare a galla. Mostrando agli innocenti quanto fino ad allora mascherato con astuzia, e ricordando ai colpevoli la gravità dei rispettivi delitti.

Il processo di ricostruzione di questo evento insolubile, che insinuandosi nell'animo corrotto dei protagonisti ne frantuma le resistenze psicologiche e l'inamovibile senso di sicurezza, è direttamente proporzionale al livello di inabissamento del Tiger Shark, che più cade a picco nelle fosse frastagliate del fondo marino, più permette ai mostri dell'inconscio di liberarsi dalle pastoie dell'oblio. Ecco allora che vicende ascose strisciano nelle corsie del battello, guatando i superstiti, imbozzolandoli nel freddo di acque troppo mosse per non dirsi pericolose.

La tensione si fa palpabilissima, soprattutto quando gli spauriti marinai, il sommergibile arenatosi sul fondo dell'oceano, contemplano e vagliano le più agghiaccianti ipotesi sulla misteriosa “maledizione”: e se non fosse stato il poderoso Tiger Shark ad affondare la nave nemica, ma fosse avvenuto piuttosto il contrario? Se fossero stati, puta caso, i “fottuti mangiacrauti” a bombardare, con successo, il sommergibile? E se i soldati statunitensi, colà impegnati a enumerare possibilità e dissertare sulle soluzioni dell'enigma, fossero i veri morti, sepolti per sempre nelle salsedinose fanghiglie del mare, che ancora incapaci di accettare la precoce dipartita galleggiano in un'ipotesi alternativa di realtà? Ritenendo allora di respirare l'ossigeno invece che la densa, nera acqua del fondale; scambiando quindi il segnale di SOS composto tramite codice Morse lungo lo scafo per il battito casuale di qualche detrito. La questione parrebbe solleticare lo stomaco dei presenti, come degli spettatori, anziché il cervello, eppure in quel frangente, nella mortifera calma che prelude alla violenza, nel silenzio sepolcrale delle acque, anche noi fruitori ci facciamo per un istante contaminare dalla insana congettura, che scombiccherando le nostre percezioni rischia a tratti di incanalare la vicenda lungo gli scoscesi binari della ghost story al Sesto senso. Naturalmente sarebbe un epilogo semplicistico, tanto che il film di David Twhoy si diletta a mescolare le carte del mazzo, suggerendo diverse soluzioni ma stando ben attento a non rivelare mai più del dovuto. L'orrore dell'opera è suggerito più che mostrato, occultato nelle fessure (della memoria) e nelle crepature a raggiera che in essa si delineano, effigiato per sprazzi (un volto che appare in uno specchio, una presenza che a stento si rileva) anziché per immagini fisicamente esperibili.

Il problema principale di Below, purtroppo, è la sua concezione “strutturale”, che non dipende se non in minima misura dal copione, ma semmai dall'architettura che ne sta a fondamento, e che come tale, punta tutto sul meccanismo ad orologeria della storia (che conclude alla perfezione, s'intende, le proprie premesse) e non sul ghiribizzo, sulla particolarità, o su tutto ciò che di stravagante e speziato potrebbe pepare come si deve la pellicola. Se in Pitch Black, David Twhoy faceva marciare il suo alfiere più orgoglioso, Vin Diesel, su una scacchiera irta di variegate minacce, finendo poi con uno scacco matto da maestri (l'alieno sventrato a mani nude, il prigioniero che si disarticola da solo le spalle per liberare i polsi ammanettati dietro la schiena ecc), qui tutto è ricondotto a una dimensione di grande accuratezza e contenimento morale. Niente esplosioni di violenza, nessuna eccentricità in cabina di regia, nemmeno l'ombra di un sussulto in quella di montaggio. Persino i momenti di massima tensione, quelli in cui giocoforza deve succedere qualcosa di decisivo, sono trattati con la costumanza degna di un prime-time Mediaset: vedasi la scena in cui alcuni marinai, intenti a riparare una copiosa perdita d'olio in una melmosa intercapedine, hanno una celere e allucinata visione che spingerà uno di loro a perdere la presa su un pesante, pericoloso martello; il quale cascherà dritto in testa a uno sprovveduto compagno, troppo spaventato per levarsi tempestivamente dalla traiettoria di caduta, fracassando tutto quanto in un cranio può definirsi fracassabile. Il climax è concepito con simmetrico rigore: inquadratura sul soldato appeso alla scala, stacco sul martello, primo piano del morituro; quindi l'attenzione è ancora puntata sul martello, di nuovo sull'operaio addetto alla riparazione, per l'ennesima volta sulla mazza e a questo punto, apparizioni spettrali a parte, anche i carenti di intelletto avranno colto che quel martello, in quello specifico momento, sarà destinato ad ammazzare qualcuno. Non che ci sia niente di male in questo modus operandi, d'altronde l'idea di un orrore per sottrazione, che punta sull'ellissi anziché sulla saturazione visiva, non è stata inventata né dal regista né dai suoi bravi soggettisti, e bisogna ammettere che se affidata a mani esperte e competenti offre puntualmente i suoi frutti. Eppure c'è sempre l'impressione barbina che il sugo manchi di sapore, per quanto sia cucinato tanto bene quanto la pasta che ne riceve le deliziose sfumature, e benché la lacuna non pregiudichi le gioie di una lingua da gourmet, sarebbe bastato un pizzico di basilico in più per rendere l'impasto degno dello “chapeau” di un maestro.

Below non è un capolavoro né un grande pezzo di cinema, ma nemmeno uno sterile, noioso saggio da scuola registica. Siamo piuttosto nel tipico caso di chi, confezionando un buon prodotto, ne cura con particolare coscienziosità la regia e la sceneggiatura (come sempre in Twhoy salda la prima e pulita la seconda), ma senza lanciarsi nel salto di qualità capace di traghettare il film nell'empireo dei magnifici. Insomma, stiamo parlando di una pellicola onorevole, ma non virtuosa, e le cui medaglie al valor militare si appuntano più per una questione di coraggio che di reale merito. Below vale una visione e una soltanto, e quando si spegne il lettore resta giusto il ricordo di una bella storia incastonata in una bella cornice. L'ideale per coricarsi soddisfatti, forse un po' poco per chi è abituato ad assaggiare caviale, moltissimo per tutti coloro che ancora ritengono Scream un ottimo esempio di horror.
Marco Marchetti




















8 commenti:

  1. non m'è affatto dispiaciuto e m'ha tenuto incollato fino all'ultimo a guardarlo. sì, non ci sono sussulti registici mirabolanti, però come dici nel suo complesso è un bel film. mi sono chiesto, alla fine, cosa sarebbe riuscito a fare Uwe Boll con una sceneggiatura del genere

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  2. Io invece lo ricordo come un pacco epico.

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  3. Pensate l'ho visto ma non me lo ricordo. So per certo ch'è come lo descrive Marchetti. Da rivedere di sicuro.

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  5. Ne accennai anch'io in merito ad altre rece del Martelli sul dittico di Twohy con Riddick/Vin Diesel. Mi è piaciuto come d'altronde mi sono quasi sempre piaciuti i film ambientati nei sommergibili. Ne ho il dvd originale.

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