Il cinema di Ulrich Seidl è un oggetto magmatico, che pur affusolando le proprie dimensioni, facendosi più duttile in alcuni tratti, eccessivamente (e volutamente) ingombrante in altri, riesce sempre a mantenere una conformazione coerente con la fisicità che ne sta alla base. Cambiano gli addendi, mutano i diagrammi terminologici, che si smussano nelle asperità e si inaspriscono nelle sagomature, eppure l'essenza resta invariata.
D'altronde lo scarto tra fiction e documentario (o la docu-fiction, per usare un neologismo ormai invalso nell'uso popolare) è talmente labile da ingannare l'occhio più esperto e la mente meglio propensa allo scontro dialettico, ma ciononostante la distinzione tra le due aree di intervento, pur sgomitando impaziente nell'encefalo dello spettatore, trova felice sintesi in un connubio di perfezione formale. Non è importante quanto la regia (intesa come capacità manipolatrice del girato) abbia sfumato la magrezza del reportage, con i suoi interventi, le interpolazioni, i suggerimenti appena attenuati, piuttosto quale che ne sia il risultato (mai così freddamente) calcolato. Jesus, Du weisst è un documentario cinematografico, se così vogliamo nominarlo, cioè un lavoro in cui l'esigenza di mostrare s'accompagna, con naturale spontaneità, alla decisione di narrare, e il bisogno di rendere una sincera trasposizione della realtà si inanella a quello del racconto. L'idea del film è quella di collocare la macchina da presa dinnanzi ai devoti fedeli dell'Austria cattolica, e chiedere loro, con disinvoltura, di pronunciare ad alta voce le altrimenti silenziose orazioni. La proposta, che di norma scandalizzerebbe ancor prima di incuriosire, è stata invece accolta con grande entusiasmo dalla congregazione, tanto che, al principiare della pellicola, gli affiatati partecipanti, alternando l'invocazione al canto liturgico, ringraziano a turno il Signore per aver reso possibile una simile pellicola. Contento Seidl per tale grazia ricevuta, contenti noi fruitori, che forse per la primissima volta abbiamo libero accesso all'immaginario cristiano “nudo e crudo”, al solito racchiuso negli incensi sacrali dei turiboli, tra le navate fumose e nei deambulatori riposti alla vista.
Le storie inscenate, così diverse nella sostanza, ma al contempo così simili nella sottesa delicatezza, nella partecipata umiltà con cui ogni preghiera è formulata, sono a noi talmente vicine che se anche l'imbarazzo di una risata caprioleggia alle nostre labbra, subito la colpa consente di reprimerne il vigore, ricacciandola nello stomaco e mantenendo sulla bocca un qual senso di indefinibile dolo; come se non spettasse a noi giudicare, e lo facessimo più per istinto che per vera complicità, anche se ciò significasse rifiutare la “normalità” (ma di chi? Dell'Austria? Del mondo? Di noi tutti?) che nel bene o nel male ci accompagna o accompagnerà nei più intimi momenti di ritiro spirituale. Sì, perché tutti invocano il Signore, magari saltuariamente, e non ai quattro angoli delle sinagoghe ma nel cheto raccoglimento domestico, ma l'effetto della dissertazione è sempre quello, e da quello non si scappa: ci si inginocchia con modestia, e giunte le mani a cuspide, si apre il cuore a Cristo. I credenti di Jesus, Du weisst, di qualunque età, sesso ed estrazione sociale, sono talmente quotidiani da strapparci quasi una smorfia di incredulità, e la loro ordinarietà, per quanto cesellata e levigata, aperta a un ventaglio di sfumature impalpabili, rischia prima di innalzare un'invisibile barriera tra noi e loro, quindi rende possibile una subitanea e inaspettata empatia. Da un lato la vecchietta, che chiede consigli all'Onnipotente sulla liceità di assoldare un investigatore privato e arginare le infedeltà coniugali, dall'altro il giovanissimo boy-scout che traspone nelle sue più bizzarre fantasie televisive il lato “erotico” e scabroso degli insegnamenti biblici. Dunque l'incravattato borghese sulla cinquantina che domanda a Gesù un segno divino, un consiglio, una qualche estemporanea manifestazione terrena con la quale profetare sul futuro della propria vita sentimentale, allora la ragazza il cui fidanzato, indeciso se farsi prete o sposarla, utilizza la religione come un'arma involontaria per allontanarne la presenza. Storie semplicissime, consuete, altre più contorte e costruite, altre ancora stravaganti o al limite del grottesco, ma sempre accomunate dalla deferenza di chi domanda senza pretendere, di chi riflette senza forse capire né (aspetto ancor più tragico) riuscire a farsi capire. Tutti chiedono un indizio, una risposta, finanche un accenno a questo Gesù che più volte vediamo nella sua disarmante essenzialità, quella di un enorme crocifisso posto sopra l'altare ove pregano gli inconsapevoli attori del film. Ma che nonostante tutto mai scende dalla sua croce per (ri)farsi uomo e avvicinarsi all'umanità che, pur inutilmente, ha tentato di redimere. Forse.
Mentre il film procede, raccontando e raccontandosi, emerge la profondità di vicende dolorose, di strade lineari e aggrovigliate che, in qualche modo imperscrutabile, si intrecciano alla fede e in essa ripongono desideri e speranze. Di alcuni pellegrini percepiamo soltanto un volto baluginante, un aneddoto periferico che presto si perde nelle cappelle votive e lungo la passamaneria barocca delle cattedrali; di altri invece seguiamo preghiere che al contrario si dilatano in resoconti biografici e struggenti riflessioni sull'esistenza. La metodologia di lavoro di Ulrich Seidl è rigorosamente eterodossa: come di consueto, il regista predilige campi totali sugli interni (le chiese e i loro ammennicoli, le chincaglierie impreziosite, la statuaria gotica e le fregiature finemente intagliate), mentre all'uomo è concesso soltanto uno spazio laterale e minoritario, in cui la figura umana, in modo tanto eccentrico da risultare sorprendente, è sempre tagliata a mezzo busto e a volte nemmeno quello. La macchina da presa diventa lo sguardo inesplicabile di Dio, che dall'alto “schiaccia” l'individuo, sottomettendolo alla sua gloria, e inglobandolo al tempo medesimo nella sua magnifica dimora. Gesù è allora, prima che padre e demiurgo, amico fraterno e cameratesco confidente, un'entità astratta ma incredibilmente tangibile alla quale i cristiani si rivolgono sempre con i medesimi epiteti formulari: Jesus, Du weisst... Gesù, lo sai che...
Seidl ci regala uno spaccato inquietante e meraviglioso della fede, intendendo con questo vocabolo il rapporto più personale con il mistero, la congiuntura intrinseca tra l'umano e il divino, laddove il dolore cede il posto alla fiducia, e la ragione si stempera nella spiritualità. Se anche di primo acchito questo documentario rischia di apparire indigesto e imbarazzante per la modalità quasi pornografica, da confessionale del Grande fratello, con cui inscena le più ascose problematiche personali, in un secondo momento esso abbandona l'impaccio apparente dei suoi fattori per trasformarsi in un rapporto credibile e delicato. Mentre il nostro sguardo si insinua tra le preghiere dei devoti, quello di Seidl nelle vite di costoro, mostrandoci appunto subitanei spaccati di consuetudine casalinga, dai due promessi sposi (uniti/divisi da e nella fede) che giocano a ping pong (la scena forse più bella del film) fino all'anziana signora che, lasciata dal marito, monologa prima sulla morte, quindi ormai sola si corica in una casa sempre più melanconica e solitaria. Il finale è un suggestivo sipario canoro a più voci, che a dispetto di tutto, della solitudine come del patimento, del peccato come della sua remissione, ci fa capire che la religione sa ancora incantare e consolare e che, tutto sommato, la Chiesa è l'unica istituzione capace di lasciare aperta qualche porta.
Gesù, tu lo sai...
Le storie inscenate, così diverse nella sostanza, ma al contempo così simili nella sottesa delicatezza, nella partecipata umiltà con cui ogni preghiera è formulata, sono a noi talmente vicine che se anche l'imbarazzo di una risata caprioleggia alle nostre labbra, subito la colpa consente di reprimerne il vigore, ricacciandola nello stomaco e mantenendo sulla bocca un qual senso di indefinibile dolo; come se non spettasse a noi giudicare, e lo facessimo più per istinto che per vera complicità, anche se ciò significasse rifiutare la “normalità” (ma di chi? Dell'Austria? Del mondo? Di noi tutti?) che nel bene o nel male ci accompagna o accompagnerà nei più intimi momenti di ritiro spirituale. Sì, perché tutti invocano il Signore, magari saltuariamente, e non ai quattro angoli delle sinagoghe ma nel cheto raccoglimento domestico, ma l'effetto della dissertazione è sempre quello, e da quello non si scappa: ci si inginocchia con modestia, e giunte le mani a cuspide, si apre il cuore a Cristo. I credenti di Jesus, Du weisst, di qualunque età, sesso ed estrazione sociale, sono talmente quotidiani da strapparci quasi una smorfia di incredulità, e la loro ordinarietà, per quanto cesellata e levigata, aperta a un ventaglio di sfumature impalpabili, rischia prima di innalzare un'invisibile barriera tra noi e loro, quindi rende possibile una subitanea e inaspettata empatia. Da un lato la vecchietta, che chiede consigli all'Onnipotente sulla liceità di assoldare un investigatore privato e arginare le infedeltà coniugali, dall'altro il giovanissimo boy-scout che traspone nelle sue più bizzarre fantasie televisive il lato “erotico” e scabroso degli insegnamenti biblici. Dunque l'incravattato borghese sulla cinquantina che domanda a Gesù un segno divino, un consiglio, una qualche estemporanea manifestazione terrena con la quale profetare sul futuro della propria vita sentimentale, allora la ragazza il cui fidanzato, indeciso se farsi prete o sposarla, utilizza la religione come un'arma involontaria per allontanarne la presenza. Storie semplicissime, consuete, altre più contorte e costruite, altre ancora stravaganti o al limite del grottesco, ma sempre accomunate dalla deferenza di chi domanda senza pretendere, di chi riflette senza forse capire né (aspetto ancor più tragico) riuscire a farsi capire. Tutti chiedono un indizio, una risposta, finanche un accenno a questo Gesù che più volte vediamo nella sua disarmante essenzialità, quella di un enorme crocifisso posto sopra l'altare ove pregano gli inconsapevoli attori del film. Ma che nonostante tutto mai scende dalla sua croce per (ri)farsi uomo e avvicinarsi all'umanità che, pur inutilmente, ha tentato di redimere. Forse.
Mentre il film procede, raccontando e raccontandosi, emerge la profondità di vicende dolorose, di strade lineari e aggrovigliate che, in qualche modo imperscrutabile, si intrecciano alla fede e in essa ripongono desideri e speranze. Di alcuni pellegrini percepiamo soltanto un volto baluginante, un aneddoto periferico che presto si perde nelle cappelle votive e lungo la passamaneria barocca delle cattedrali; di altri invece seguiamo preghiere che al contrario si dilatano in resoconti biografici e struggenti riflessioni sull'esistenza. La metodologia di lavoro di Ulrich Seidl è rigorosamente eterodossa: come di consueto, il regista predilige campi totali sugli interni (le chiese e i loro ammennicoli, le chincaglierie impreziosite, la statuaria gotica e le fregiature finemente intagliate), mentre all'uomo è concesso soltanto uno spazio laterale e minoritario, in cui la figura umana, in modo tanto eccentrico da risultare sorprendente, è sempre tagliata a mezzo busto e a volte nemmeno quello. La macchina da presa diventa lo sguardo inesplicabile di Dio, che dall'alto “schiaccia” l'individuo, sottomettendolo alla sua gloria, e inglobandolo al tempo medesimo nella sua magnifica dimora. Gesù è allora, prima che padre e demiurgo, amico fraterno e cameratesco confidente, un'entità astratta ma incredibilmente tangibile alla quale i cristiani si rivolgono sempre con i medesimi epiteti formulari: Jesus, Du weisst... Gesù, lo sai che...
Seidl ci regala uno spaccato inquietante e meraviglioso della fede, intendendo con questo vocabolo il rapporto più personale con il mistero, la congiuntura intrinseca tra l'umano e il divino, laddove il dolore cede il posto alla fiducia, e la ragione si stempera nella spiritualità. Se anche di primo acchito questo documentario rischia di apparire indigesto e imbarazzante per la modalità quasi pornografica, da confessionale del Grande fratello, con cui inscena le più ascose problematiche personali, in un secondo momento esso abbandona l'impaccio apparente dei suoi fattori per trasformarsi in un rapporto credibile e delicato. Mentre il nostro sguardo si insinua tra le preghiere dei devoti, quello di Seidl nelle vite di costoro, mostrandoci appunto subitanei spaccati di consuetudine casalinga, dai due promessi sposi (uniti/divisi da e nella fede) che giocano a ping pong (la scena forse più bella del film) fino all'anziana signora che, lasciata dal marito, monologa prima sulla morte, quindi ormai sola si corica in una casa sempre più melanconica e solitaria. Il finale è un suggestivo sipario canoro a più voci, che a dispetto di tutto, della solitudine come del patimento, del peccato come della sua remissione, ci fa capire che la religione sa ancora incantare e consolare e che, tutto sommato, la Chiesa è l'unica istituzione capace di lasciare aperta qualche porta.
Gesù, tu lo sai...
Marco Marchetti
gran rece Marco, al solito
RispondiEliminail ping-pong perlomeno permetteva d'interagire, ma poi rifiuta il biliardino e addirittura finisce, la povera e insaziata ragazza, per giocare a pac-man... tra questi 2 e il ragazzo eroto-represso mi sono letteralmente scompisciato, ma è veramente un umorismo involontario.
quell'inizio di preghiere rivolte al Lord per il successo del film all'inizio sono veramente spiazzianti
Sì, è vero, all'inizio il tono del film è volutamente grottesco, come involontaria (forse) è la nostra risata, eppure, procedendo con la visione, non si può non avvertire qualcosa di molto profondo nel suo "insegnamento": l'idea che tutti noi abbiamo necessità di Dio, o di qualcuno con cui confidarci nel bisogno come nella quotidianità... E che tutto sommato le storie raccontate non sono mai così stralunate come all'apparenza appaiono. La scena in cui la signora confida in una morte "dolce" per sé, rievocando al contempo quella tremenda del padre, e quella in cui subito dopo la vediamo coricarsi, sola, nel letto, ci lasciano davvero esterrefatti. Per non parlare dei due ragazzi che giocano a ping-pong, lì veramente si è raggiunta la poesia!
RispondiEliminaho infatti avuto la sensazione certe volte che, come dici, c'è un bisogno sentitissimo di confidarsi che non trova alcuno sbocco nella vita "reale" ed ecco che il dialogo con dio diventa necessario. i due ragazzi sembrano usarlo come intermediario addirittura!
RispondiEliminavero, in fondo sono "storie comuni", i pensieri nascosti che tutti possiamo avere
Ah ah, il tuo ateismo "inconscio" ti porta a scrivere Dio con la minuscola ah ah ah, anatema anatema! Scherzi a parte, in effetti è vero quel che dici sull'intermediario, molti vanno dallo psichiatra, questi si confessano con il Signore; fanno bene, fanno male, ottengono le risposte che cercano? Difficile dirlo, in effetti il film lascia aperta la questione, anche se a tratti sembra sbilanciarsi su un versante piuttosto che sull'altro, e questo è un aspetto che mi piace molto in Seidl.
RispondiEliminabravo Marco, inconscio andava proprio virgolettato :D
RispondiEliminaIndubbiamente un film per palati fini, che , però incuriosisce non poco.
RispondiEliminaLa tua descrizione è talmente minuziosa , incisiva e interessante , che non posso fare a meno di vederlo! Grazie!