A scandagliare lo sparuto
ventaglio di titoli italiani distribuiti negli ultimi mesi, verrebbe
quasi da azzardare che la cinematografia nostrana stia subendo una
specie di lento, imperscrutabile processo rivoluzionario, intendendo
con tale termine non l'aspetto eminentemente politico della
questione, piuttosto il senso etimologico; cioè il (ri)volgersi
verso un territorio altro, sia esso geograficamente circoscritto a
uno spazio storico e nazionale diverso (e avverso) al nostro, oppure
ritagliato, a mo' di delimitatissima enclave, addirittura all'interno
della cultura domestica.
Non ci sono margini di errore, le pellicole
più interessanti dell'anno appena concluso, Reality di
Matteo Garrone ed È stato il figlio di
Daniele Ciprì, rientravano ancora nella seconda
categoria (quella dei film “sudamericani” più che italiani),
mentre le più notevoli in apertura d'annata, La migliore offerta di Giuseppe Tornatore e questa di
Gabriele Salvatores, ricadono nella prima sezione,
rappresentata direttamente dalle quote estere, ovvero l'America e la
Siberia. Sembra che la formula persegua flessioni ricorrenti, e che
pur con qualche variabile nella disposizione degli addendi, senza
però che il risultato finale ne sia inficiato, sono gli attori
stranieri a dettare le regole di questo cinema ad “ampio respiro”:
definire italiani i protagonisti degli italianissimi lavori di un
Garrone sarebbe un insulto alla lingua di Dante, così
come di italiano non hanno nulla le star dell'ultima fatica firmata
da Salvatores, John Malkovich in primis, uno
stuolo di misconosciuti attori russi in secundis. Insomma, per fare
un buon film italiano, bisogna innanzitutto levare ogni riferimento
alla madre patria, svuotarla da riferimenti iconografici, semantici e
linguistici che non siano la sfumatura vernacolare, la riserva del
campanilismo oppure, nel tentativo ormai collaudato di rivolgersi al
mercato internazionale, lo spostamento di ambientazione ben oltre le
frontiere alpine. La scelta del regista era quasi obbligata, perché
tra tutti questo singolare partenopeo era forse l'unico capace di
mutare forma e faccia a seconda dell'occasione, di passare dalla
fantascienza all'amatriciana al noir-poliziesco, dal dramma impegnato
di un Niccolò Ammaniti alla commedia interpretata dai
più blasonati feticci del genere. I risultati non sono mai stati
spettacolari, anche se una certa parte della critica ha pensato bene
di coccolarlo e collocarlo sul piedistallo eburneo dei maestri, e
forse è proprio per questo motivo che Educazione
siberiana odora di capolavoro; perché Salvatores,
camaleontico e paradossale per natura, ha girato forse senza preciso
senso della consapevolezza un film di dimensione tornatoriana, ovvero
di grande monumentalità registica, cura maniacale per i dettagli,
location estere e storia adattata dalla narrativa russa (il romanzo
omonimo di Nicolai Lilin è edito da Einaudi) anziché
da un qualche trattatello patrio. Le maestranze sono comunque di
casa, dagli sceneggiatori Stefano Rulli e Alessandro
Petraglia, fino alle musiche epiche ed etniche al contempo di
Mauro Pagani e una fotografia lugubre e invernale ad
opera di Italo Petriccione. Eppure il risultato è
lontano anni luce da un mediocrissimo lavoretto approntato lungo lo
stivale, seppur da più fonti (parrebbe) orientato a una
semplificazione del romanzo.
Educazione
siberiana è ambientato in epoca di perestrojka, in una
comunità rurale della Siberia, poco oltre il fiume Nistro', la cui
peculiarità è che i cittadini sono tutti criminali “onesti”;
rubano, ammazzano e delinquono, hanno corpi coriacei ricoperti di
tatuaggi, come dei libri perfettamente leggibili in cui ogni segno
corrisponde a un preciso avvenimento biografico, ma fanno del male
soltanto a poche categorie di persone: poliziotti, usurai e
banchieri. Non tengono mai il denaro rubato in casa, perché
nonostante tutto sanno che è una cosa sporca, detestano lo spaccio
ed educano la famiglia nel rispetto delle tradizioni, unendo la
preghiera a sedute di combattimento corpo a corpo, e insegnando ai
ragazzi a usare il coltello per ammazzare a sangue freddo e nel modo
più veloce. È in questo ambiente che crescono due cugini, Kolima
(Arnas Federavicius) e Gagarin (Vilius
Tumalavicius, sosia di
Silvio Muccino),
amici (e nemici) per la pelle, che sotto l'egida di nonno Kuzja
(John Malkovich) cominciano a dedicarsi alla violenza e
alle rapine, condividendo la refurtiva per il bene della famiglia,
fino a quando Gagarin non viene catturato e si fa sette anni di
prigione. Una volta uscito, il ragazzo è cambiato, è avido di
potere, non rispetta più le usanze degli avi, e presto, con grande
disapprovazione dei compagni, si dedica al commercio della droga
facendo comunella con i membri di un clan rivale, il famigerato Seme
nero. Ecco che a complicare la situazione giungono in città un
medico e la sua giovane figlia, Xania (Eleanor Tomlinson),
una ragazzina mezza matta che si invaghisce di Kolima scatenando
(forse) l'invidia di Gagarin. La situazione si fa presto
insostenibile, e tra i due amici di un tempo, altrimenti legati da
vincoli profondissimi, nascono rancori ormai impossibili da
perdonare.
Il film parte benissimo,
destreggiandosi tra due momenti temporali, la (contro)educazione di
Kolima e Gagarin da parte del nonno e, molto tempo dopo, il
reclutamento di Kolima nell'esercito della neonata federazione russa
che, lungo le inospitali montagne di qualche distretto periferico, è
impiegato in una importante operazione anti-droga. Inutile dire che
il capo dei malavitosi è niente meno che Gagarin, ormai abbandonato
da tutti, braccato tra le foreste, ancora dedito all'immaginarsi re
criminale di un impero sgretolatosi sul nascere. Se fosse rimasto su
questa lunghezza d'onda, il film di Salvatores sarebbe stato
perfetto, ma purtroppo si lascia spesso cadere tra piccole sbavature,
niente di particolarmente grave, ma abbastanza per sviare
l'attenzione dello spettatore dall'impalcatura generale della
pellicola: l'idea centrale era infatti quella di dispiegare la
vicenda a flash-back, con un continuo gioco di rimandi tra la Siberia
anni Ottanta e la Russia dell'età di mezzo, appena uscita, timida e
formicolante dal socialismo, ma non ancora proiettata in pieno
nell'economia occidentale. Il meccanismo funziona, almeno fino a
quando la simmetria tra i tre principali blocchi narrativi
(l'infanzia di Kolima, la sua adolescenza, la sua esistenza dopo il
crollo dell'URSS) non perde la propria indefinibile unitarietà,
permettendo a un percorso di accavallarsi sull'altro anziché
seguirne lo sviluppo, soffocando personaggi e motivazioni che spesso
risultano poco chiare e di sicuro non risolte. Per esempio, perché
dare così tanto spazio alla storia d'amore/amicizia con Xenia e
pochissimo all'anelito criminale di Gagarin, che pure uscito di
prigione si rivela sin da subito l'antitesi del più composto Kolima?
Oppure, che fine ha fatto nonno Kuzja? A un certo punto scompare
senza un perché, nonostante i dissapori tra lui e l'ormai ribelle
Gagarin facciano supporre che fra i due si possa apertamente
consumare un qualche conflitto generazionale. Spunti interessanti,
anzi fondamentali, che però Salvatores non approfondisce,
così della storia di Gagarin come imprenditore del crimine non
sappiamo nulla, della fine di Kuzja meno che meno, e soprattutto
continuiamo a chiederci, pur senza ottenere risposta alcuna, come
Kolima sia finito sotto le armi. Insomma, c'è uno spazio cronologico
insoluto, tra la fine tragica di Xenia (non si dice altro per evitare
anticipazioni), periodo che chiude l'adolescenza dei cugini, e quello
invece della maturità, con un Kolima in divisa e l'avversario che
combatte ormai solo e disperato dall'altra parte della barricata. La
resa dei conti tra i contendenti è comunque d'obbligo, ma le
modalità non soddisfano affatto, vedere per credere.
Educazione
siberiana è un grande film, che si avvale di ottime
interpretazioni, scelte registiche straordinarie (evidente la lezione
de La promessa dell'assassino), ma che sfortunatamente
inciampa troppo spesso nell'ambiziosa complessità delle sue premesse.
Fa niente, da un film italiano ci saremmo aspettati molto di meno,
eppure resta sempre quel fastidio per non aver levigato le piccole
asperità, le brutture, le scivolate stilistiche che se non si
potevano evitare, almeno sarebbe stato lecito camuffarle. Aggiungendo
per dire qualche pestaggio in più, rimuovendo qualche pecca di
sentimentalismo di troppo. L'indice di appagamento è una mezza tacca
sopra i tre quarti.
insomma, ci sono pezzi di vicende insoluti, ma parrebbe un film di una certa qualità a leggerti. altro segno di ripresa del nostro cinema.
RispondiEliminalo guarderò sicuramente :)
Proprio così, manca forse quella coesione tra le parti, almeno a livello eminentemente narrativo, eppure la regia è lontana anni luce dal prodotto medio italiano; di sicuro è un film che potrà competere sul piano internazionale.
EliminaHo amato il libro di Lilin (anche se devo capire quanto sia vero e quanto inventato, e se non si vuole approfittare dell'occasione per creare un personaggio) ma non ho ancora avuto modo di veder eil film. Sono molto ansioso...
RispondiEliminadopo il romanzo certamente amerò anche il film.....
RispondiEliminaSono curiosa! Bellissima recensione.. complimenti
RispondiEliminaHo visto il film e non mi ha convinto del tutto... leggedo la tua rece ho capito il perchè. In effetti, Salvatores si conferma l'autore che è, ma manca qualcosa nell'economia del film. Doveva osare qualcosa di più, e non fermarsi al minimalismo, forse... è solo un'idea. E, tornando ai film italiani, trovo che quello di Garrone sia immenso. Un cult assoluto, da vedere e far vedere ...
RispondiElimina